di Narciso Galiè e Gabriele Vecchioni
Recentemente è apparso, su Cronache Picene, un articolo relativo alla chiesa rurale di San Michele Arcangelo di Vitavello, una delle diciotto dipendenti dalla parrocchia dei S.S. Cosma e Damiano di Mozzano, frazione della città picena. L’articolo, pubblicato in occasione della messa in sicurezza della struttura e dei pregevoli affreschi presenti all’interno (grazie anche all’interessamento della sezione ascolana di Italia Nostra), dopo i danni subìti per opera dei recenti eventi sismici, ha avuto il merito di “accendere i riflettori” su un interessante esempio di architettura minore presente nel territorio piceno, quello delle chiese rurali.
Le chiese rurali, in genere, non sono opere d’arte nel senso compiuto del termine ma, oltre a essere state un importante punto di riferimento territoriale e sociale, testimoniano l’architettura e la devozione popolare. La costruzione di chiese e oratori in luoghi anche isolati risale all’Alto Medioevo, con un’economia povera e legata al territorio, e mostra come la circolazione di idee e di manodopera “artistica” sia stata rapida e capillare. La fondazione di una nuova chiesa costituiva un’opportunità di promozione per i nuovi benefattori e consolidava il prestigio sociale di quelli già affermati: i luoghi di culto costituivano un potente polo di attrazione per la popolazione non urbana, spesso distribuita in case massariciae legate ai fondi e isolate dai villaggi.
L’erezione della chiesa di Vitavello a servizio del vicino abitato di Acquaviva è legata, probabilmente, alla cristianizzazione e al conseguente mutamento devozionale degli invasori longobardi e alla loro dispersione da parte dei Franchi. A partire dalla seconda metà del sec. VIII, i proprietari fondiari longobardi, ormai integrati nel tessuto sociale dei territori da loro occupati in passato, vescovi e chierici incentivarono fortemente la costruzione di edifici sacri, in città e nelle campagne; un fenomeno che durò fino al termine del sec. XI. Le chiese avevano, a volte, funzioni battesimali e, grazie alla loro diffusione, garantivano la cura animarum e l’integrazione pastorale della popolazione rurale.
La struttura originaria della chiesa di Vitavello è stata alterata da interventi moderni, con il para-mento esterno della costruzione costituito da conci di pietra rinforzati da gettate di cemento armato e un modesto campanile a vela in mattoni, a un solo fornice, con una campana del sec. XVI. Il fabbricato consta di un’aula rettangolare con copertura a capanna con doppia falda inclinata e travatura di legno a vista; l’edificio è sobrio sia nei materiali sia nell’architettura, una struttura semplice ma dignitosa. L’interno mantiene la forma e le decorazioni dell’antico luogo di culto, evidenziando però la necessità di interventi di restauro.
Gli artisti che hanno eseguito la decorazione interna di questa chiesa di campagna, tuttora sconosciuti, mostrano buone capacità pittoriche, specie negli affreschi dedicati a San Michele Arcangelo e alla Crocifissione, una composizione di classico impianto rinascimentale con qualche concessione al gusto popolare da parte dell’autore, con i particolari realistici come la colatura del sangue del Cristo lungo le braccia aperte.
Il santo titolare è San Michele Arcangelo, Principe delle milizie celesti e santo tra i più venerati dalle popolazioni rurali. Gli arcangeli riconosciuti dalla Chiesa sono Michele, Gabriele e Raffaele (la chiesa ortodossa spesso rappresenta Raffaele in abito ecclesiastico, Michele come “guerriero celeste” e Gabriele in posa tranquilla, rappresentando i poteri religioso, militare e civile). Un quarto arcangelo, Uriele, nominato nei testi apocrifi, non gode di culto proprio.
Nell’affresco, datato 1618, che decora l’altare il Santo è effigiato come un giovane imberbe, immagine della perfezione. È un guerriero alato, vestito con una corta tunica e l’armatura mentre impugna, con la mano destra, una lancia e trafigge il Maligno, atterrato e figurato con le mani levate, nell’atto di ghermire una delle anime portate dall’Angelo. La rappresentazione dell’Arcangelo con la lancia (che simboleggia il suo ruolo di tramite tra Cielo e Terra) è quella più antica: è così che lo conoscono i Longobardi, prima ancora dell’invasione della Penisola (secc. VI-VIII). Nel paliotto (il pannello decorativo in tessuto dipinto che rivestiva la parte anteriore dell’altare, descritto dal vescovo Gabrielli nella sua visita pastorale del 1652) il Santo è rappresentato, invece, mentre brandisce una spada.
L’opera dei Longobardi è fondamentale per la diffusione del culto di San Michele, peraltro già largamente venerato in Oriente. Essi lo elessero loro protettore per le sue virtù guerriere, vicine ai loro antichi dèi, in particolare Odino, scatenatore di tempeste: nelle sue prime apparizioni, Michele si presentava tra lampi di luce, con un arcobaleno sulla testa.
Con la mano sinistra l’Angelo regge una bilancia con la quale pesa le anime (psicostasìa), particolare che deriva dalla tradizione orientale, proveniente dalla mitologia egizia e persiana, ma che non è presente nelle scritture cristiane. Sui piatti della bilancia sono presenti due figurine accovacciate, a rappresentare le anime dei defunti.
La raffigurazione di San Michele che pesa le anime è abbastanza diffusa anche in altre chiese dell’Ascolano (sono dieci quelle dedicate all’Arcangelo nella diocesi picena): basti pensare agli affreschi nelle chiese cittadine di Santa Maria Inter vineas (sec. XIII) e di San Giacomo Apostolo (sec. XIV), e in quella dei S.S. Pietro e Paolo di Castignano, all’interno del bellissimo Giudizio Universale (sec. XIV). Nella splendida chiesa ascolana di Sant’Angelo Magno (attualmente inagibile per i terremoti del 2016 e 2017), dedicata all’Arcangelo Michele e destinata alle ancillae Dei, monache benedettine di origine longobarda, un San Michele è raffigurato in un affresco del sec. XIII, nell’atto di pesare le anime. Nella stessa chiesa, una statua processionale del santo lo mostra, giovane prestante, come sauroctono, mentre sconfigge il dragone, simbolo del male.
Per concludere, è ipotizzabile l’esistenza di altri affreschi sotto l’intonaco e sulle pareti laterali della chiesa di Vitavello, sotto le ripetute scialbature. La supposizione è verosimile perché esistono diversi esempi di edifici affrescati in modo simile, sia in chiese dell’area montana (nell’Arquatano e nell’Amatriciano) sia in zone più vicine alla città (come l’Oratorio del Verdiente, alle falde del Monte dell’Ascensione). È auspicabile che, dopo la messa in sicurezza, il lavoro di recupero prosegua, perché, come scrisse il critico Vittorio Sgarbi (2008): «… è arrivato il momento di acquistare compiuta coscienza dell’importanza di ogni reliquia, alla quale provvedere per la sua conservazione… acquisire coscienza politica della straordinaria identità culturale dell’Italia la cui vocazione alla bellezza è un bene primario che non si può consentire di disperdere».
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