di Gabriele Vecchioni
(foto di Gabriele Vecchioni, Antonio Palermi e Claudio Ricci)
L’area dei Monti della Laga è compresa nel perimetro del Parco Nazionale Gran Sasso-Laga, che riunisce zone molto diverse tra loro: i calcari del Gran Sasso d’Italia (la cima più alta della catena appenninica), la dorsale dei Monti Gemelli (anch’essa di natura calcarea) e le arenarie dei Monti della Laga. Il territorio del Parco Nazionale si sviluppa dal crinale appenninico principale fino all’area collinare e presenta una grande varietà di esposizioni e una morfologia tormentata: tali caratteristiche hanno originato ambienti diversi, dalle terre alte, fredde e nude, alle foreste e alle colline, dove sono gli insediamenti umani più significativi. La combinazione tra l’ambiente naturale e l’antropizzazione ha generato il mosaico di paesaggi del Parco, uno dei più interessanti tra i 23 parchi italiani.
La caratteristica principale dei Monti della Laga è l’abbondanza d’acqua: l’oronimo deriva dal latino laca, plurale del neutro lacum, inteso come grande quantità di acqua. La ricchezza di questo bene prezioso ha contribuito allo sviluppo dei boschi che coprono gran parte del territorio: le sviluppate formazioni arboree sono una delle peculiarità della Laga.
A differenza di gran parte dei gruppi montuosi dell’Appennino Centrale, costituiti da rocce calcaree, sulla Laga è l’arenaria a dominare; una roccia porosa ma poco permeabile che provoca lo scorrimento dell’acqua negli strati superficiali, con la formazione di numerosi, spettacolari salti d’acqua, con dislivelli anche notevoli.
Gli alberi, i boschi, il paesaggio. La flora dell’area è molto ricca (per rimanere agli alberi, troviamo le querce, il càrpino nero, gli aceri, il faggio, l’abete bianco… e altre specie relitte come il tasso, l’agrifoglio, la betulla) e non è possibile, in poche righe, condensare una tale abbondanza di specie: saranno fornite, pertanto, solo alcune linee generali.
I boschi della Laga coprono i versanti appenninici fino a una quota di circa 1700-1800 metri, dove iniziano le praterie. Fino ai 1000 metri di altitudine sono presenti querceti di roverella e di cerro, con aree di ceduo destinate principalmente al castagneto. A quote superiori si trovano foreste di faggio e abete bianco, boschi sfruttati dall’uomo nel corso dei secoli per la produzione di legname. In passato, la superficie boscata è stata ridotta per fare spazio a pascoli e coltivi; oggi si assiste a un’inversione di tendenza, a causa del progressivo abbandono delle attività agricole e pastorali, per cui si incontrano ampie distese di arbusteti che tendono a (ri)colonizzare le terre abbandonate dall’uomo.
Interessante anche l’aspetto relativo alle infrastrutture, costituite dalle antiche mulattiere e dalle strade che attraversano l’area. Esse hanno avuto un ruolo storico: il paesaggio è stato contraddistinto per secoli da questi tracciati, percorsi da boscaioli, mercanti, pellegrini, cacciatori, soldati e briganti e, oggi, escursionisti. I piccoli borghi, infine. Arroccati sulle alture o distesi nelle aree pedemontane, sono un elemento fondamentale del paesaggio, e spiccano tra i boschi, spesso circondati da una ghirlanda di campi coltivati, segnalati a distanza dallo svettante campanile della chiesa.
L’abete bianco. I boschi della Laga erano rinomati soprattutto per la presenza di una conifera, l’abete bianco: un albero maestoso, slanciato (arriva a trenta metri di altezza, ma alcuni esemplari possono superare i cinquanta metri) e longevo, con un areale frammentato (ce n’è qualche esemplare anche nell’area sottostante il Colle San Marco). Il suo legno era molto apprezzato perché leggero e poco resinoso.
Dal punto di vista botanico, l’abete bianco è un relitto glaciale, legato a condizioni climatiche più rigide delle attuali; alle nostre latitudini ha trovato l’habitat ideale e sviluppato estesi boschi, resistendo alle mutate condizioni climatiche. Spesso le abetine, soprattutto quelle dell’area appenninica toscana, erano artificiali, risultato di rimboschimenti attuati dalle autorità dei granducati e dagli ordini monastici. Attualmente, questa conifera vegeta nei boschi di faggio, una specie che tende a occupare il territorio con comunità monospecifiche, penalizzando le altre essenze.
Il faggio. Questa bellissima pianta, diffusa in tutto il territorio europeo, fu definita da Mario Rigoni Stern, nel suo Arboreto salvatico, «felice agli dei». Il faggio è insediato nella fascia montana del Parco; è tipico dei rilievi compresi tra i 900-1000 e i 1800 m di quota, dove si presenta in formazioni pure, le faggete. Il suo sviluppo è legato alla fertilità del suolo: un terreno fresco e profondo permette l’esistenza di esemplari alti fino a 25-30 metri.
Le faggete appenniniche sono per lo più boschi giovani, densi e governati a ceduo. Nelle faggete mature, meno fitte rispetto a quelle più giovani, il faggio assume un aspetto maestoso, con un tronco possente e una chioma ampia ed espansa. I boschi di faggio sono boschi “da escursioni¬smo”, ombrosi e ben percorribili: in particolare, nella stagione autunnale, le nebbie e la tavolozza di colori delle foglie dànno loro un’atmosfera fiabesca.
Il Bosco Martese. Il nome di questo secolare consorzio forestale deriva probabilmente da quello di Marte, dio pagano della guerra (ma tra le popolazioni italiche era, in origine, il dio della primavera e della rinascita della vegetazione). Esiste, nelle vicinanze, l’Ara Martese (forse un’antica Ara Martis all’interno di un bosco sacro al dio): il bosco viene denominato, dai locali, “Bosco della Martese”.
Alla fine dell’Ottocento, lo storico teramano Nicola Palma e altri autori, basandosi sul ritrovamento, vicino a Sant’Omero, del cosiddetto “cippo di Vallorino”, ipotizzarono l’esistenza di una via consolare romana (la mitica Via Metella) che univa la costa tirrenica a quella adriatica, scostandosi dalla Salaria proprio in questa zona. La Metella attraversava il Bosco Martese, per scendere poi verso le strette Gole del Salinello e arrivare sulla costa adriatica. Il tracciato, che taglia a mezza costa la selva, si sovrapporrebbe all’itinerario seguito da Annibale e dai suoi cartaginesi dopo la battaglia del Trasimeno e prima di quella di Canne (il cosiddetto “tracciolino di Annibale”).
Per concludere, sui Monti della Laga, la cosa che colpisce di più l’osservatore, dal punto di vista paesaggistico, è proprio la presenza di fitti boschi, che coprono anche le valli più remote, fino all’orizzonte. «A perdita d’occhio alberi per una superficie di trenta chilometri quadrati senza alcun sentiero […] dovevamo farci strada con la scure e con la roncola, tra i tronchi e i virgulti, tra i rovi, le piante e le erbe arboree». Così alla fine del XIX secolo, il canonico Giacinto Pannella, giornalista e naturalista teramano, nella relazione di un’escursione da lui effettuata, descriveva l’area del Bosco Martese. Le sue parole dànno l‘idea della straordinaria ricchezza di boschi, e quindi di legname, che portò allo sfruttamento dell’area. Alla fine dell’Ottocento e fino ai primi del Novecento, l’industria boschiva non poteva contare sulla presenza di strade e di mezzi di trasporto adeguati e così, là dove era possibile, il trasporto del legname si faceva utilizzando l’ingegnoso metodo della “menata” lungo il corso del Castellano (argomento trattato in un precedente articolo).
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