di Serena Reda
Davide Neroni è un giovane laureato in architettura all’Università di Firenze. La sua tesi ha un titolo complesso e un obiettivo importante: “Sustainable birth village in Africa for mother and child“. Si tratta di reparti maternità in miniatura che, una volta costruiti, garantiranno acqua e igiene là dove oggi scarseggiano e la mortalità neonatale è alta. Non solo. L’idea è quella di utilizzare una “architettura vernacolare ” cioè tecniche, costruzioni e materiali tipici che permettano di mantenere il senso di comunità. Un progetto che, come si può leggere nella prefazione della docente relatrice Maria Chiara Torricelli, “rispetta le famiglie e le abitudini sociali”.
A proposito di nascite, come è venuta alla luce l’idea per questo progetto?
«L’idea nasce dalla volontà di mettere al servizio dei paesi in via di sviluppo le conoscenze e le competenze acquisite durante il percorso accademico, una volontà precedentemente espressa durante la tesi triennale dove avevo già progettato una scuola in Costa d’Avorio. Al momento della domanda di tesi mi sono trovato in linea con le ricerche in corso del Dida- dipartimento di architettura di Firenze, che mi ha proposto di unire la mia idea di architettura vernacolare ad un presidio sanitario incentrato sulle nascite. Da quel momento è iniziato tutto».
Puoi parlarci un po’ di più del Sustainable birth village? Quali servizi offre?
«Sustainable Birth Village in Africa for mother and child è un prototipo di presidio sanitario pensato per le zone rurali dell’Africa subsahariana, ideato come uno spazio flessibile ed espandibile in base alle necessità del luogo. È caratterizzato da cellule esagonali che formano un impianto planimetrico modulare e ripetibile, ogni cellula è autosufficiente dal punto di vista energetico, grazie all’utilizzo di pannelli fotovoltaici, e ha il giusto quantitativo di acqua potabile giornaliera, al di sopra di questi esagoni vengono poggiate diverse strutture, sanitarie e non. Queste costruzioni rispecchiano le diverse architetture vernacolari africane riportate ai giorni nostri, dalle volte nubiane dell’antico Egitto, alle “Ubuntu houses” fino alle cupole ogivali tipiche dell’Etiopia. Ogni tipologia ha una funzione differente, le prime fungono da connessioni e servizi, le seconde da dormitori e le ultime hanno la funzione prettamente sanitaria, infatti vi sono sale operatorie, sale parto ecc.. Nodo centrale dei diversi ambienti è il warka water tree, “albero dell’acqua”, che oltre a fornire acqua potabile crea una zona d’ombra che funge da meeting point, dove pazienti e visitatori possono altresì ricevere istruzioni basilari sulle condizioni igieniche primarie. Lo scopo di questo villaggio è aiutare le donne durante la gravidanza, dalle settimane prima a quelle dopo il parto, con l’obiettivo di seguirle durante tutto il percorso e ridurre così il tasso di mortalità infantile e materna che colpisce questi luoghi con numeri allarmanti».
Come procede la ricerca di fondi per la realizzazione? Tra quanto tempo potrebbe essere costruito il primo di questi centri?
«Il desiderio è quello di realizzare effettivamente questo progetto, essendomi laureato un anno fa la questione è ancora fresca, verranno fatti studi approfonditi sulla fattibilità e sul costo ipotetico di una struttura di questo tipo; inoltre saranno ricercati investitori e organizzate raccolte fondi, farò tutto il possibile per far sì che questa mia idea non rimanga solo su carta ma che possa essere effettivamente d’aiuto ai meno fortunati di noi. Sperando che anche questo articolo sia utile».
Nella descrizione del progetto spesso il faro è puntato sull’appartenenza al territorio di materie prime, architetture e tecniche costruttive. Quasi come un progetto a km 0 pensato però in un altro continente. Ti è capitato di visitare quei luoghi?
«Ho avuto la fortuna di partecipare ad un workshop intensivo ad Asni, un villaggio isolato nelle montagne marocchine, dove ho potuto apprendere le tecniche del luogo e realizzarle con mano. Ogni progetto di architettura va pensato per il luogo di appartenenza, nel mio caso, il presidio sanitario è stato ideato come un prototipo adattabile a diverse aree geografiche e climatiche. Nell’Africa subsahariana vi è un’ottima reperibilità di materiali da costruzione come la terra, la paglia e l’argilla, questi elementi vengono poi lavorati con tecniche appartenenti alla popolazione locale, creando così un progetto partecipato e condiviso, che ha un impatto non solo socio sanitario, ma anche economico, in quanto può dare la possibilità di formare i giovani nel replicare con semplicità e a costo quasi zero elementi caratteristici della loro cultura».
Uno dei concetti determinanti, mi sembra, è stato quello del Warka water tree, puoi spiegarci cos’è e come lo hai integrato nella tua idea?
«Il Warka Water Tree è un prototipo ideato, progettato e testato dallo studio di architettura italiano “Architecture & Vision”, è caratterizzato da una struttura verticale in bamboo intrecciata e montata in più fasi, al suo interno presenta una maglia in poliestere cucita a mano. Il nome “Warka” deriva da un grande albero che cresce in Etiopia, dove al fresco della sua vasta ombra gli abitanti dei villaggi si incontrano e ne fanno un piacevole luogo di vita sociale. La funzione principale del Warka Water Tree è soprattutto quella di fornire acqua potabile giornaliera, sfrutta lo sbalzo termico tra il giorno e la notte per creare condensa. Questa si attacca alla maglia in poliestere scivolando verso una vasca di raccolta servendo l’acqua potabile a chi ne ha bisogno. Un processo del tutto naturale, che non ha bisogno di elettricità o tecniche troppo costose per produrre un quantitativo di acqua giornaliero che va da un minimo di 50 ad un massimo di 100 litri al giorno. Nel mio caso specifico sfrutto le sue caratteristiche per coprire il fabbisogno di acqua necessario ad una struttura sanitaria, per calcolare ciò ho utilizzato una formula studiata dall’OMS, dove viene tenuto conto dei pazienti, dei medici e dei visitatori e delle strutture adatte al trattamento sanitario. Il progetto prevede un albero in ogni cellula del complesso per un totale di sette, con la presenza del Warka Water Tree e delle costruzioni vernacolari, ogni cellula è autosufficiente e ben fornita».
Come descriveresti il tuo lavoro in tre aggettivi?
«Sicuramente la sostenibilità, sia dal punto di vista energetico, idrico e sanitario, sia dal punto di vista sociale ed economico. La flessibilità in quanto è stato studiato per essere adattato a diverse condizioni geografiche e per poter essere ampliato o ridotto in base alla necessità. Infine la partecipazione, essendo un progetto pensato per la comunità e realizzabile in collaborazione con la comunità locale e le associazioni sul campo».
Ho notato che fai riferimento al senso di comunità anche “fuori o lontano dalla comunità della madre e del bambino”. Potrebbe interessarti in futuro lavorare applicando questo concetto anche in Italia o in altri Paesi?
«Il progetto è nato dalla forte volontà di aiutare le mamme e i loro bambini, attualmente in Africa e nei paesi in via di sviluppo, le donne che vivono lontane da qualsiasi tipo di servizio sanitario, sono costrette ad affrontare ore se non giorni di cammino per arrivare alla struttura più vicina, coloro che non possono permettersi cure mediche, partoriscono in casa in condizioni igieniche precarie, e questi aspetti contribuiscono notevolmente nella mortalità infantile e materna. L’idea di realizzare un “villaggio per i villaggi” nasce proprio per ridurre drasticamente le problematiche dovute alla lontananza da un qualsiasi personale medico. In futuro mi piacerebbe molto applicare il concetto di aiuto e di partecipazione in Italia e all’estero, perché lo scopo dell’architetto, o almeno il motivo per cui io proverò a farlo, è anche quello di migliorare gli aspetti della vita quotidiana che ci circondano, che sia la progettazione di un villaggio in Africa, o una piazza in un borgo medievale, o un edificio polifunzionale di raccolta, il progetto deve essere per la comunità e della comunità, deve poter lasciare un qualcosa in più e dare un certo senso di appartenenza a chi lo vive».
Hai frequentato la facoltà di Architettura nelle Marche e hai proseguito la tua formazione all’Università di Firenze. Quali consigli daresti ad un giovane che vuole intraprendere una carriera universitaria così complessa?
«Io credo fortemente che chiunque voglia affrontare un percorso accademico o meno, debba farlo con convinzione e forza di volontà, la motivazione necessaria per raggiungere i nostri obiettivi è di volerli e crederci fino alla fine. Impegnarsi affinché ci sia la possibilità di realizzare i propri sogni, è quello che provo e proverò a fare io da qui in avanti, poi se, come spesso accade, le cose non vanno come si pianificano almeno abbiamo provato, e se dovessimo fallire possiamo riprovarci ancora e ancora. Siamo giovani e possiamo costruirci il futuro che vogliamo, dipende solo da noi».
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