di Gabriele Vecchioni
In un recente articolo di Cronache Picene (clicca per leggerlo), relativo al borgo “poco abitato” di Rocca di Montecalvo, Luca Capponi ha ricordato il brigante ottocentesco Giovanni Piccioni, una figura ancora viva nell’immaginario popolare, nato e vissuto nella Valle Castellana.
La Valle Castellana, così denominata fin dal secolo XIII, è oggi un’area di confine tra Marche e Abruzzo come lo era prima tra Stato della Chiesa e Regno di Napoli. Anche se appartiene giuridicamente alla provincia di Teramo, essa gravita, per ragioni economiche, verso quella di Ascoli, più facilmente raggiungibile.
Tra le vicende storiche che la riguardano, hanno particolare interesse gli eventi relativi al banditismo: di questo si occuperà l’articolo. Prima, però, è necessaria una premessa. Il fenomeno brigantesco va considerato alla stregua di un movimento popolare. L’economista Francesco Saverio Nitti, vissuto a cavallo dei secoli XIX e XX, scrisse che «Per le plebi meridionali il brigante fu assai spesso il vendicatore e il benefattore: qualche volta fu la giustizia stessa. Le rivolte dei briganti, coscienti o incoscienti, nel maggior numero dei casi ebbero il carattere di vere e selvagge rivolte proletarie. Ciò spiega quello che ad altri e a me e accaduto tante volte di constatare; il popolo delle campagne meridionali non conosce assai spesso nemmeno i nomi dei fondatori dell’unità italiana, ma ricorda con ammirazione i nomi dell’abate Cesare e di Angelo Duca e dei loro più recenti imitatori». Stendhal (pseudonimo letterario di Henri Beyle, 1783-1842), riferendosi ai briganti, scrisse che «Uomini dotati di una così selvaggia energia erano animati più da un sentimento di opposizione al governo che non da una premeditata intenzione di attentare la vita o alle sostanze di privati cittadini».
La Valle Castellana, “scavata” dal Castellano, principale affluente del fiume Tronto, ha un aspetto tormentato, con forre profonde e grandi banchi di arenarie, fortemente inclinati: un territorio ideale per le imboscate e una guerra di guerriglia come quella dei briganti. Le azioni dei fuorilegge erano agevolate, poi, dalla presenza della linea di confine e dall’isolamento dei luoghi; come ricorda Don Luigi Celani nelle sue memorie, «la segregazione della vita civile ha non solo reso difficile, in ogni tempo, il progresso, ma ha favorito la riottosità alla legge».
La valle è stata, dal ‘500 all’800, il teatro delle gesta di singolari personaggi. Il primo bandito “moderno”, nel secolo XVI, fu il famusissimus caput bannitorum Marco Sciarra, nato a Castiglione di Rocca Santa Maria e così chiamato per il suo carattere rissoso; una figura straordinaria, un Robin Hood nostrano che toglieva ai ricchi per dare ai poveri. Si definiva flagellum Dei et commissarius missus a Deo contra usurarios et detinentes pecunias otiosas (… e i possessori di denaro improduttivo). Si rivelò abile psicologo delle masse: un banditore annunciava il suo arrivo e lui, preceduto da un vessillifero, si presentava in groppa a un focoso cavallo bianco. Era soprannominato il “Re della Campagna” perché operava principalmente nell’Agro Romano; si dimostrò un abile stratega, tenendo in scacco con la sua banda (un vero esercito di circa 1.000 uomini) le truppe papaline e napoletane per più di sette anni, senza mai essere sconfitto in battaglia. Fu ucciso sulla Montagna dei Fiori, sgozzato a tradimento da un suo sodale, tale Battistella da Fermo. Degno di essere ricordato, il “romantico” episodio della cattura di Torquato Tasso, l’autore della Gerusalemme liberata. Durante un’imboscata, gli uomini di Sciarra fermarono alcuni soggetti per depredarli; uno dei minacciati si rivolse orgogliosamente ai banditi dicendo «Io sono Torquato Tasso. Il Poeta». Tanto bastò: Sciarra ossequiò il famoso autore, restituendo il frutto della rapina e facendo ripartire sana e salva la comitiva.
A metà del secolo successivo, il Preside d’Abbruzzo inviò i suoi soldati (i cosiddetti “cappelletti”, per via del loro copricapo) a incendiare e saccheggiare i paesi del comprensorio della Valle Castellana, per togliere ai briganti l’aiuto che, più o meno spontaneamente, dava loro la popolazione. Tra i centri oggetto delle “attenzioni” dei soldati, furono incendiati i centri isolati di Leofara e Macchia da Sole, Serra e Basto. La repressione fu tanto energica che Monsignor Gabrielli, nella visita pastorale a Macchia, successiva ai fatti, non trovò nessun abitante. Il brigantaggio fu debellato dopo una lunga lotta, grazie alle taglie poste sulla testa dei fuorilegge; come un fiume carsico, però, esso riemerse tra fine Settecento e inizio Ottocento, in funzione antifrancese e con l’appoggio dei religiosi. Il capo degli Insorgenti dell’area ascolana fu Giuseppe Costantini alias Sciabolone (in calce alle lettere si firmava proprio così) di Santa Maria a Corte di Lisciano, frazione di Ascoli Piceno. I francesi invasori reagirono con efferatezza, come nel saccheggio di Settecerri, dove fu profanata la chiesa; diverse altre azioni di repressione furono messe in atto a Laturo e a Leofara.
Nella seconda metà dell’Ottocento, il forte e consolidato legame con lo Stato Pontificio determinò la nascita della protesta antipiemontese. Le caratteristiche del brigantaggio nell’Acquasantano e nell’Ascolano rimangono però peculiari, dal momento che, contrariamente a quanto registrato nelle regioni del Meridione (dove prevalsero rivendicazioni di carattere socio-economico), i “nostri” briganti furono animati prevalentemente da sentimenti di lealtà alla causa papalina. Il movimento conservatore ebbe uno dei maggiori esponenti nel “maggiore” Giovanni Piccioni, nato a San Gregorio di Acquasanta Terme ma vissuto nella già citata Rocca di Montecalvo, coraggioso (nonostante l’età avanzata) e profondamente religioso, esperto di azioni di guerriglia (aveva partecipato ad azioni di brigantaggio dal 1815 al 1849). Lu brëgande Pëccio’ tenne testa per circa due anni, con i suoi Volontari Pontifici, all’esercito del generale Pinelli; fu catturato nel 1863 alla stazione di San Benedetto del Tronto e portato ad Ascoli Piceno; condannato, fu recluso e morì nel Forte Malatesta.
Nella Valle Castellana erano molti quelli che nutrivano una fede fanatica verso la famiglia dei Borboni e altri legati allo Stato Pontificio. Lo storico Felice Lattanzi scrisse che per costoro il nuovo governo non era che «un usurpatore, un reggimento di demoni scatenatosi dall’inferno contro la religione di Cristo, rappresentata dal Papa. E le prove erano tangibili: soppressione del fòro ecclesiastico, tumulazione dei cadaveri fuori dalle chiese, soppressione dell’Inquisizione della Compagnia di Gesù e tanti decreti che, sebbene ancora non redatti in iscritto, alitavano per l’aria agitata dai rivoluzionari».
Il brigantaggio postunitario fu contrastato dal già citato generale Ferdinando Pinelli che, in Abruzzo, ordinò di bruciare quattordici paesi in pochi giorni (aveva dichiarato che «Contro nemici tali la pietà è un delitto»). Le truppe piemontesi misero “a ferro e fuoco” diversi centri e si accanirono contro le canoniche (i religiosi spesso ispiravano e, a volte, capeggiavano le azioni di rivolta); furono bruciati registri e archivi parrocchiali, come a Santa Rufina di Cesano, a Collegrato e a Macchia da Sole: questo è il motivo della mancanza di diversi documenti anteriori al 1860. A Leofara e a Macchia, nel gennaio del 1861, le case e la chiesa furono bruciate per la seconda volta. In questo periodo fu attivo Matteo Garrafa, del Piano dell’Annunziata di Valle Castellana, comandante di un nucleo di 200 briganti, la “colonna di Mattè”. La popolazione non aveva mezzi per resistere ma, a volte, reagiva con veemenza: a San Vito, la rabbia popolare causò la fuga dei piemontesi che risalirono, di notte, i sentieri della Montagna dei Fiori fino a San Giacomo, come racconta Timoteo Galanti nel suo bel libro sul brigantaggio politico nella Marca pontificia ascolana.
Pinelli si mise in mostra, per la sua durezza, anche nell’assedio della Fortezza di Civitella, ultimo baluardo del Regno borbonico. Nel 1861, il comando piemontese lo sostituì con il generale Luigi Mezzacapo che, per non essere da meno del predecessore, fece sparare contro le mura del forte ben 7.860 proiettili di cannone e, una volta conquistato il cumulo di macerie, ordinò la fucilazione dei capi e la deportazione della guarnigione nel terribile forte di Fenestrelle, in Val Chisone.
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