di Gabriele Vecchioni
Ad Ascoli e dintorni si trovano un po’ dappertutto, dentro le mura della Fortezza Pia, sulle sponde del Tronto o sui cigli delle strade. Ma la loro presenza ha poco di piacevole e molto di infestante. Un problema che la città delle cento torri “condivide” con molte altre zone vicine, d’Italia e del mondo, dove robinia e ailanto invadono letteralmente l’ecosistema colonizzando soprattutto luoghi abbandonati o marginali. Due “alieni” vegetali che superano le specie autoctone nella rapidità di colonizzazione, dando vita ad un proliferare finora inarrestabile di cui è bene spiegare origine e connotati.
Anzitutto, una specie autoctona è legata al suo territorio, dove ha avuto origine e si è sviluppata; il termine è una parola composta, di origine greca (da autos, stesso e chthon, terra). Una specie alloctona (da allos, diverso) se “proviene” da un altro luogo; è quasi sempre l’uomo a introdurla, in maniera intenzionale o accidentale. Tra i due estremi si collocano le specie naturalizzate, introdotte da secoli e ben adattate nell’ambiente in cui sono state inserite. Se una specie alloctona si espande rapidamente (in senso evolutivo) diventa una specie invasiva, con un impatto rilevante sull’ecosistema.
L’intervento dell’uomo sulla vegetazione è sempre pesante perché svincolato dall’evoluzione naturale. Rientrano nella categoria della vegetazione antropica le coltivazioni agricole, i boschi sfruttati e i rimboschimenti, le zone ripopolate dopo il disboscamento e gli altri ambienti dove l’intervento dell’uomo ha “indirizzato” il popolamento vegetale. Nel nostro caso, la “mano dell’uomo” è intervenuta nell’introduzione delle specie che si sono sviluppate, spesso in maniera consociata (l’inventario forestale nazionale classifica in una categoria unica i robinieti e gli ailanteti), grazie alla loro forte capacità di colonizzazione di ambienti degradati.
La robinia. Questa pianta è forse quella più riconoscibile perché diffusa un po’ dovunque, in città, lungo i bordi delle strade e le rive dei fiumi. È un albero che appartiene alla famiglia botanica delle Leguminose (la stessa dei piselli e delle lenticchie ma anche della mimosa e del siliquastro o albero di Giuda), caratterizzata dal frutto (il baccello o legume). La robinia (Robinia pseudoacacia) è originaria dell’America del Nord, dove forma boschi puri (sui Monti Appalachi); fu importata in Europa all’inizio del ‘600 da Jean Robin (il nome fu dato alla pianta da Linneo proprio in suo onore), curatore dei giardini e dell’Orto botanico di Enrico IV (personaggio famoso per la frase «Parigi val bene una messa») e di Luigi XIII, re di Francia. L’esemplare “americano” trapiantato nel 1601 da Robin è ancora vivo (dopo quattro secoli!). L’albero, alto 15 metri e largo 3,5 metri, si trova in un piccolo giardino pubblico, non lontano dalla cattedrale di Nôtre-Dame.
Si tratta di una specie molto adattabile, largamente diffusa nel nostro continente (in Italia – in Piemonte – può formare boschi puri); ormai naturalizzata, la robinia ha assunto il carattere della specie infestante, grazie alla velocità di crescita, specie se ceduata. I ricacci (polloni) fuoriescono sia dalle ceppaie sia dal suo esteso apparato radicale e crescono molto velocemente, soffocando le piantine di specie autoctone, soprattutto le querce, dalla crescita più lenta. In zona, colonizza scarpate degradate e cigli stradali e dà luogo, spesso, a boscaglie fitte ma può entrare a far parte anche di boschi misti.
La sua diffusione non è stata contrastata… anzi; in passato, la diffusione della robinia è stata facilitata perché la specie era molto apprezzata per i numerosi vantaggi: assestamento delle scarpate, ornamento di parchi e giardini (per via delle belle infiorescenze a grappolo, edibili), fiori profumati e melliferi (in dialetto è la gaggia, spesso frequentata dalle api), produzione di un legno di buone caratteristiche meccaniche, miglioramento del terreno (è una leguminosa azotofissatrice). La corteccia della pianta, inoltre, è relativamente resistente al fuoco.
Dal punto di vista selvicolturale, la robinia potrebbe essere una essenza interessante (per la produzione di palerìa). L’aspetto negativo sta nella non reversibilità della coltura: risulta problematico eliminarla o anche solo limitarne l’invadenza perché il taglio porta al cosiddetto “ringiovanimento” della pianta, con conseguente stimolazione della sua capacità pollonifera, anche radicale (Fabio Taffetani, 2000). Questa pianta è stata usata, spesso, per consolidare scarpatelle e massicciate ferroviarie; dopo aver attecchito (facilmente) sul substrato arido e poco ospitale, la robinia “spuntava” a distanze anche considerevoli, grazie ai polloni radicali.
Un’altra nota negativa relativa alla specie è legata alla non utilizzabilità delle boscaglie e dei robinieti per l’escursionismo, a causa della loro impenetrabilità, dovuta alla presenza di lunghe spine sui rami più giovani e sui polloni.
L’ailanto. L’albero (Ailanthus altissima) è originario della Cina; cresce rapidamente (è capace di raggiungere altezze considerevoli – oltre 15 m in 25 anni): è conosciuto come “toccacielo” o “albero del paradiso”( nome di origine polinesiana), proprio per questa sua caratteristica. Poco longevo, solitamente non supera i 50 anni. Le radici, le foglie e la corteccia sono usate ancora oggi nella medicina tradizionale cinese, principalmente come astringenti, per la cura delle malattie mentali e della perdita dei capelli.
L’albero fu importato in Europa per la prima volta nel 1740 e negli Stati Uniti nel 1784; fu uno dei primi alberi a essere portato in Occidente in un’epoca in cui la moda della Cina dominava le arti europee: era una delle “cineserie” tanto di moda nell’Ottocento. La sua diffusione si deve al gesuita Padre Pierre Nicolas Le Chéron d’Incarville, appassionato botanico. Un altro motivo dell’importazione di questa specie era “pratico”: si fece un tentativo di allevamento (con risultati deludenti) del lepidottero Philosamia cynthia, originario dell’Estremo Oriente, dove veniva utilizzato per la produzione della seta. Anche il lepidottero, come l’ailanto, è sfuggito di mano ai suoi controllori, ed è ormai naturalizzato nel nostro Paese.
All’inizio, l’ailanto fu presentato come specie ornamentale e inserito in parchi e giardini ma l’entusiasmo iniziale svanì presto, dopo che i giardinieri dovettero affrontare la sua formidabile capacità di ricaccio (anche radicale) e l’odore fetido, dovuto alle ghiandole oleifere alla base delle foglie. Nonostante queste negatività, fu largamente impiegato per le alberature stradali durante gran parte del secolo XIX, e anche come specie consolidante di scarpate, grazie alla sua rapidità di crescita.
L’ailanto è una pianta di difficile eradicazione, divenuta fortemente invasiva, per la sua capacità di colonizzare rapidamente aree degradate (il ricaccio dalla radice laterale può avvenire anche a distanze notevoli, 30 metri) e soffocare i competitori con sostanze allelopatiche (tossiche per specie diverse). La diffusione di questa specie è dovuta, oltre che alla già descritta capacità pollonifera, anche alla presenza di frutti alati (le sàmare) che possono volare sulle ali del vento e arrivare a lunghe distanze.
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