di Gabriele Vecchioni
(Foto di Luca Capponi, Umberto De Pasqualis, Carlo Perugini e Gabriele Vecchioni)
A fine novembre la sezione ascolana di Italia Nostra presenterà il tradizionale calendario, quest’anno dedicato al Parco dei sistemi fluviali di Ascoli, il Tronto e il suo principale affluente, il Castellano: una straordinaria realtà storica e sociale, oltre che geografica, oggetto di questo articolo.
La città di Ascoli Piceno sorge su un’area sopraelevata, alla confluenza dei due corsi d’acqua suddetti. Per Giuseppe Marinelli, autore del Dizionario Toponomastico Ascolano, il Castellano avrebbe preso il nome da Castel Trosino, borgo medioevale che fu un importante centro strategico di controllo della valle. La denominazione della stessa deriverebbe, a sua volta, dal nome del torrente così come quello del paese di Valle Castellana, adagiato ai piedi dei Monti della Laga, in Abruzzo.
Il Castellano nasce al confine tra il Lazio e l’Abruzzo teramano, a circa 2.150 metri di quota, tra Pizzo di Sevo e Monte Ceraso, raccogliendo le acque di sorgenti presenti a est della linea di cresta che unisce Cima Lepri, Pizzo di Sevo, Pizzitello e la Macera della Morte, nel gruppo dei Monti della Laga. Nella prima parte del suo percorso, scorre tumultuoso tra le pareti incassate di una stretta valle («… fragoso per effetto delle petraje che incontra tra il nostro bosco Martese ed i boschi soggetti alla sovranità del santo Padre» scriveva Nicola Palma, nel 1837) e il suo percorso segna, per lunghi tratti, il confine tra le Regioni Abruzzo e Marche come, anticamente, era stato «confinazione tra i due Stati».
A Castel Trosino, riceve l’apporto delle “sorgenti salmacine”, acque solforose che i locali chiamano “acqua puzza” per il loro odore caratteristico e che dànno al corso d’acqua una caratteristica colorazione. Una breve nota relativa alle “acque salmacine”: l’attributo deriva da Salmacia, nome di una ninfa dei Sabelli, antico popolo dell’Italia centrale. Le ninfe erano divinità pagane minori che, sotto forma di giovanette nude e invisibili ai comuni mortali, popolavano boschi, monti e sorgenti.
Arrivato ad Ascoli Piceno, il Castellano lambisce, a Porta Cartara, lo storico opificio della Cartiera Papale che ha ospitato, tra l’altro, mulini e «gualchiere per follare i panni» (erano macchine che in epoca preindustriale battevano i tessuti – soprattutto di lana – per renderli più sodi) che sfruttavano la sua notevole energia idraulica. La sua plurisecolare attività (i mulini erano in opera già nel 1104) sarà argomento di un prossimo articolo.
La valle del Castellano è la via d’accesso naturale che da Ascoli porta ai Monti della Laga; si è formata in tempi geologici recenti e ha il caratteristico profilo a V delle valli fluviali. L’erosione verticale è più accentuata nella parte alta e lungo il percorso non ci sono gole con pareti verticali, segno che essa non è stata particolarmente veloce. A valle di Castel Trosino le particelle trasportate dal corso d’acqua hanno creato strette golene raggiungibili da numerosi sentieri di àdito.
Dal punto di vista idrogeologico, il Castellano scorre nella zona “di frontiera” tra le arenarie della Laga, che arrivano fino ad Ascoli, e i calcari dei Monti Gemelli. È il maggiore affluente di destra del Tronto, nel quale si getta all’interno della città, vicino al Ponte Nuovo, nei pressi di Porta Tufilla, dopo un percorso di circa 45 chilometri. Il corso d’acqua ha carattere torrentizio e la sua portata è legata all’andamento climatico stagionale; nonostante l’irregolarità volumetrica, ha però un volume d’acqua di tutto rispetto, basti pensare che fino ai primi anni del ‘900 veniva utilizzato per la fluitazione del legname proveniente dai cedui della Laga (qui l’articolo sulla fluitazione).
Qualche chilometro a valle del paese di Valle Castellana, uno sbarramento dà origine all’esteso bacino artificiale di Talvacchia (la diga è alta circa 80 metri) che provoca una consistente riduzione della portata, compensata solo in parte dall’apporto dei “fossi” laterali. Un’altra chiusa (la diga di Casette) è ubicata proprio sotto la rupe fortificata di Castel Trosino; il bacino creato dalle acque del fiume ha parzialmente coperto le già citate risorgive di acqua sulfurea. Dopo queste due opere e fino alla confluenza con il Tronto, le caratteristiche idriche del torrente vengono modificate in maniera rilevante dalla presenza di manufatti per la regimazione delle acque. Sono opere ultimate negli anni ’30 del Novecento che hanno causato, tra l’altro, una sensibile uniformità morfologica dell’alveo del fiume che si presenta come una successione di ampie buche, con acque profonde e ossigenate in corrispondenza dei salti, e di veloci ghiareti tra una soglia idraulica e l’altra.
Il Castellano è, per diversi chilometri, il confine geografico tra le regioni Marche e Abruzzo: la linea di divisione passa proprio nel mezzo del già citato lago di Talvacchia. Una seconda linea di confine è costituita dall’altro fiume di Ascoli, il Tronto: la linea di demarcazione passa, anche in questo caso, in mezzo al corpo idrico, al centro della bassa vallata, e arriva fino alla foce, nell’area della Sentina di Porto d’Ascoli.
Per quanto riguarda l’aspetto storico, il Castellano e la sua valle costituivano la via che collegava l’area interna ascolana con quella teramana; era una via controllata: il presidio era a Castel Trosino, guardia della valle e probabile sede di una fara longobarda, già guarnigione bizantina, gota e, prima ancora, romana. Nel Medioevo, una “linea di difesa” seguiva il percorso del Castellano, da Ascoli fino alle aree della montagna: Rocca di Morro, Castel Trosino e San Giorgio, Villafranca e Santa Rufina, Talvacchia e Pietralta erano i punti strategici, collegati “a vista”. A Villafranca c’era una casa doganiera di controllo e un’altra era a Colle San Giacomo; era un posto pericoloso, soggetto a incursioni brigantesche, e gli abitanti erano esentati dal pagamento dei tributi dovuti al comune di Ascoli (il toponimo deriva proprio da questa franchigia). Nelle vicinanze c’è ancora il cippo di confine numero 600, una colonna di pietra calcarea posta sulla linea di confine tra il Regno borbonico di Napoli e lo Stato Pontificio; il limite risaliva il Fosso La Fòssera (tributario del Castellano), proseguiva per Colle San Giacomo e poi “scendeva” fino a Civitella del Tronto e alla costa adriatica (l’articolo correlato).
Storia e leggenda. L’area è stata, da sempre, legata a diverse “storie di confine”; le più significative sono relative alla figura di Re Manfredi di Svevia, figlio naturale dell’imperatore Federico II. Manfredi partiva dal suo castello di Macchia, nella valle del Salinello, percorreva (a cavallo!) una lunga galleria e raggiungeva la sua amante, di origini longobarde, a Castel Trosino, sul Castellano; nel borgo c’è ancora la “Casa della Regina”. Anche la seconda storia riguarda Manfredi, collocato da Dante nel Purgatorio («biondo era e bello e di gentile aspetto»): sarebbe stato seppellito, dopo la sconfitta di Benevento, proprio nell’alveo del Verde, altro nome con il quale era conosciuto il Castellano, per il colore verde-turchese delle sue acque. L’idronimo è in un’opera di Giovanni Boccaccio che scrisse (sec. XIV) che il Verde (Viridis fluvius), affluente del Tronto, divideva il territorio piceno da quello abruzzese.
Altri episodi sono legati al brigantaggio, sia quello cinquecentesco, provocato dalle condizioni di estrema povertà della popolazione, sia quello dell’Ottocento, in funzione antifrancese prima e antipiemontese poi. I personaggi più noti, entrati nell’immaginario collettivo, sono Marco Sciarra, un Robin Hood nostrano che rubava ai ricchi per dare ai poveri, e Giuseppe Costantini alias Sciabolone. L’ultimo fu il “papalino” Giovanni Piccioni, con il quale si chiude la lotta brigantesca nel Piceno (articolo precedente).
Per concludere, il Castellano è stato ed è un fiume di confine ma è un’entità geografica che, nel corso della storia, più che dividere ha unito: le popolazioni che vivono nella Valle Castellana hanno sempre considerato la valle del corso d’acqua una via di comunicazione: il fiume e le attività che vi si svolgevano erano un’opportunità di lavoro e di socializzazione tra le diverse popolazioni.
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