di Gabriele Vecchioni
(foto di Giovanni Fazzini, Gabriele Vecchioni e d’epoca)
In un precedente articolo sono state analizzate le caratteristiche del confine preunitario tra il Regno di Napoli e lo Stato della Chiesa, segnalato da numerosi cippi lapidei e destinato a essere cancellato nel 1861, nel corso degli avvenimenti che avrebbero portato alla costituzione del Regno d’Italia (clicca per leggerlo). Per una serie di circostanze, il Piceno diventò il crocevia degli eventi conclusivi delle lotte per arrivare all’unità nazionale. L’ultimo tratto della linea di confine che passava per il Tronto fu varcato da Vittorio Emanuele II il 15 ottobre 1860; per completare il “mosaico” dell’Unità d’Italia mancava un tassello: la conquista della Fortezza di Civitella del Tronto.
Il borgo e la sua Rocca. Il nome del borgo è legato in maniera indissolubile al fortilizio che occupa l’intera sommità della collina di travertino che si innalza (600 menti sul livello del mare) sulla campagna circostante e domina possente le case del borgo. La grande Fortezza borbonica è una delle più grandi d’Europa (seconda solo a quella austriaca di Hohensalzsburg, a Salisburgo), e si estende per più di 500 metri di lunghezza e 25.000 metri quadrati di superficie; fu edificata dagli spagnoli, in più tappe, tra il 1564 e il 1576 e fu un baluardo del Regno di Napoli durante le lotte per l’Unità d’Italia. Situato in una posizione panoramica eccezionale, il Forte presenta tre splendide piazze d’Armi, possenti bastioni e suggestivi camminamenti; al suo interno, un piccolo Museo ne racconta la storia. Non c’è spazio qui per descrivere la lunga, complessa storia della Fortezza, il primo nucleo della quale risale all’anno Mille. Ci occuperemo solo dell’ultimo assedio subìto, quello legato alle vicende che portarono all’Unità d’Italia.
La Fortezza fu l’ultima roccaforte a cadere (dopo quelle di Gaeta – l’imprendibile, il 13 febbraio, e di Messina, il 13 marzo), nonostante la municipalità civitellese avesse dichiarato la volontà di entrare a far parte del Regno d‘Italia e il Re di Napoli, Francesco II, si fosse già arreso all’esercito piemontese (i difensori furono, quindi, “più realisti del Re”).
Il vessillo bianco con lo scudo dei Borbone sventolò sugli spalti della piazzaforte, durante il prolungato assedio (dal 26 ottobre 1860 al 20 marzo 1961). Il 15 marzo 2011, a 150 anni esatti dall’evento, il quotidiano abruzzese “Il Centro” scrisse: «Il 17 marzo 1861, mentre a Torino il Parlamento sabaudo proclamava il neonato Regno d’Italia, la bandiera bianco-gigliata dei Borbone sventolava ancora su Civitella del Tronto. Estremo lembo settentrionale d’Abruzzo, ultima fortezza del Regno delle Due Sicilie a resistere all’invasore piemontese. Quella bandiera sventolerà ancora su Civitella per tre giorni». In altre parole… l’Unità d’Italia fu dichiarata tre giorni prima che di essere realizzata in maniera compiuta.
La resistenza. Dall’ottobre 1860 al marzo 1861 la Fortezza di Civitella del Tronto venne messa sotto assedio dalle truppe piemontesi. Contemporaneamente, si sviluppò un movimento di resistenza allo Stato nascente – il cosiddetto brigantaggio – che durerà ben oltre la caduta dei Borbone, con morti, sofferenze e distruzioni che colpiranno in gran parte la popolazione civile. Anche il territorio circostante subì gravi danni. Le pendici orientali della Montagna dei Fiori furono devastate dal fuoco appiccato dai Piemontesi per snidare i briganti che aiutavano i difensori di Civitella e si nascondevano nei boschi della Montagna. Esse furono rimboschite solo cinquant’anni dopo, sfruttando il lavoro coatto dei prigionieri di guerra austriaci, alla fine della Prima Guerra Mondiale.
La lotta brigantesca. Durante l’assedio, i difensori della Fortezza ricevevano aiuti dai cosiddetti briganti, loro simpatizzanti e autentica “spina nel fianco” dell’esercito piemontese. La lotta brigantesca si protrasse per circa un decennio dopo l’Unità d’Italia, con episodi efferati compiuti dall’una e dall’altra parte; all’argomento sono stati dedicati numerosi articoli e volumi di diversi autori, ai quali rimandiamo (in questo articolo sono stati esaminati alcuni aspetti peculiari del brigantaggio nel Piceno).
«Ma amico mio, che paesi mai son questi, il Molise e la Terra di Lavoro! Che barbarie. Altro che Italia. Questa è Affrica! I beduini, a riscontro di questi cafoni, son fiore di virtù civile… La canaglia dà il sacco alle case de’ signori e taglia le teste, le orecchie a’ galantuomini e se ne vanta. Anche le donne cafone ammazzano». In questa frase, relativa a territori forse geograficamente lontani dal nostro (ma, all’epoca, vicini “politicamente”), pronunciata da Luigi Carlo Farini (futuro Primo Ministro del Regno d’Italia) il 27 ottobre 1860, pochi mesi prima della proclamazione dell’Unità d’Italia, c’è la giustificazione ideologica della repressione spietata dei briganti che infestavano l’Affrica. Nel 1863 fu promulgata la Legge Pica (“Procedura per la repressione del brigantaggio e dei camorristi nelle Provincie infette”) che, prorogata più volte, permise di debellare il brigantaggio postunitario nel Mezzogiorno d’Italia, con il soffocamento di qualunque fenomeno di resistenza. La lotta al brigantaggio impegnò un significativo contingente di pacificazione: inizialmente composto di 120.000 unità (quasi la metà dell’esercito unitario), scese, negli anni successivi, a 90.000 uomini e, infine, a 50.000.
L’assedio e la caduta del Forte. All’inizio del 1861 ad assediare Civitella c’erano 1.170 uomini, contro 551 difensori. La guerriglia contava centinaia di combattenti, e le truppe del Generale Pinelli avviarono una durissima repressione nelle zone montane. A fine gennaio gli assedianti erano diventati 3.800, mentre cittadini e combattenti irregolari avevano abbandonato la piazza.
Il 6 febbraio un attacco di circa 400 Insorgenti, guidati da Gaetano Trojani di Valle Castellana venne respinto e il Trojani, ferito, fu catturato e fucilato ad Ascoli: fu un duro colpo per la resistenza antipiemontese.
La Fortezza era giudicata, dal punto di vista strategico, «quasi inutile arnese di guerra» (Beniamino Costantini, 1902) ma impegnò i Piemontesi oltre il previsto. A bombardare la Fortezza cominciò il Generale Ferdinando Pinelli, arrivato a dicembre con un battaglione di 10 cannoni, e sostituito dal Luogotenente Generale Luigi Mezzacapo (ex-ufficiale dell’esercito borbonico) che aumentò il numero di cannoni a 25, tra i quali quelli “a tiro rapido”(modernissimi, per l’epoca). La guarnigione, provata dal lungo assedio e ridotta a 291 elementi, si accordò per arrendersi il 17 marzo ma il partito degli irriducibili prese il sopravvento; la capitolazione “a discrezione” (senza condizioni) avvenne solo il 20, quando le truppe di Mezzacapo entrarono nella piazza di Civitella del Tronto dopo un prolungato, furioso bombardamento: è quella la “vera” data dell’Unità d’Italia.
«I guasti prodotti dalla nostra artiglieria sono immensi, il forte è un mucchio di rovine», scrisse Mezzacapo nel telegramma che annunciava al Ministro della Guerra la resa dell’ultimo baluardo borbonico. La guarnigione prigioniera venne condotta ad Ascoli, dove furono fucilati il sergente maggiore Angelo Massinelli, che la comandava, e il capo dei briganti. Massinelli si era ribellato mesi prima al proprio comandante usurpandone i poteri; alla fine, il presidio si ribellò a sua volta contro di lui, “chiudendolo fuori” durante una sortita in paese.
L’ira dei Piemontesi per la resistenza indomita (contro la piazzaforte erano stati sparati 7.860 colpi di cannone!) si placò solo con la sua distruzione: fu minata e ridotta a un cumulo di macerie (sarebbe stata restaurata solo un secolo dopo); con essa furono distrutte («a monito dei briganti») anche le mura angioine del borgo, risalenti al sec. XIII. Il medico-archeologo abruzzese Concezio Rosa scrisse (1870): «Dopo la caduta de’ Borboni fu l’ultima fortezza che venne nelle mani del Governo italiano: il quale considerandola inutile alla difesa nazionale e pericolosa per i paesi vicini, nel caso che gente raccogliticcia e di mal’affare vi si accovacciassero, fu abbattuta e disfatta».
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