di Gabriele Vecchioni
(foto di Umberto De Pasqualis, Carlo Perugini, Gabriele Vecchioni e d’epoca)
Recentemente due deputate ascolane, Rachele Silvestri (M5S) e Giorgia Latini (Lega), hanno presentato ordini del giorno relativi al territorio piceno prostrato dal recente sisma, auspicandone il rilancio socio-economico. Entrambe hanno fatto riferimento a un’emergenza storico-archeologica (in verità, ormai solo storica), quella della necropoli barbarica di Castel Trosino, testimonianza di una presenza longobarda importante.
I ricchi corredi ritrovati nella necropoli barbarica castellese, in uso per un periodo relativamente lungo (secoli VI-VII) danno idea della sua importanza: un autentico tesoro storico e artistico che da più di un secolo è “in deposito” a Roma.
Il campo sepolcrale che, per la sua notevole estensione, era una vera e propria “città dei morti”, fu l’oggetto di un intero capitolo di un libro dedicato a Castel Trosino, scritto nel 2014 insieme all’amico Narciso Galiè; in quel caso ci avvalemmo della collaborazione (per l’argomento in questione) di Marzia Vecchioni.
Quella di Castel Trosino è una necropoli «di “prima generazione”, nelle quali i defunti venivano inumati con l’accompagnamento di un ricco corredo di armi, gioielli e suppellettili, usanza che presto si esaurì per seguire il modello locale», come ha scritto recentemente Roberto Cassanelli (Arte della Langobardia, 2018).
In questo articolo viene ripercorsa brevemente la storia della scoperta e viene seguita la sorte dei preziosi reperti fino alla loro destinazione finale (si spera provvisoria, anche se il loro soggiorno romano dura da più di cent’anni e quello al MAME – il Museo Nazionale dell’Alto Medioevo – da più di 50).
La localizzazione della necropoli. Già nel secolo XVIII vi era testimonianza di frequenti rinvenimenti, ai piedi del poggio di Santo Stefano, di molti oggetti “barbarici”; nel 1872 in contrada Pedata venne alla luce la tomba di un cavaliere che, per il ricchissimo corredo, venne interpretata come la sepoltura del primo capo longobardo di Castel Trosino. Il corredo della tomba di Pedata è diviso ancora oggi fra il Metropolitan Museum di New York e il Museo di Saint-Germain-en-Laye di Parigi.
L’area del sepolcreto si trova proprio di fronte al borgo, in un luogo sopraelevato al quale si accede con un sentiero attrezzato. Lo spazio della necropoli di Santo Stefano è però “occupato”, fin dai primi decenni del ‘900, da un rimboschimento di conifere che ha snaturato l’antica funzione sepolcrale, ricordata dalla presenza del rifacimento della tomba di un guerriero e da un complesso statuario, peraltro deteriorato, che raffigura il momento della sepoltura. Le rappresentazione del mini-parco archeologico è (o meglio era, date le attuali condizioni dello spazio) completata dalla presenza di particolari qualificanti, come la pertica sormontata da un oggetto zoomorfo (uccello), ricostruzione di un’usanza longobarda raccontata da Paolo Diacono nella sua Historia Langobardorum, una specie di memoriale per i guerrieri morti lontano dalla comunità di appartenenza.
La storia del ritrovamento. Diversi autori hanno raccontato la scoperta casuale del sito archeologico, avvenuta nell’aprile del 1893, durante un’aratura, per l’impianto di un vigneto, di un terreno di proprietà della parrocchia: furono scoperchiate due tombe, facendo venire alla luce ricchi corredi femminili. I primi scavi, effettuati in maniera disordinata, portarono alla scoperta di 50 tombe; successivamente, Giulio Gabrielli, Regio Ispettore e Direttore del Museo e della Biblioteca civica di Ascoli Piceno, segnalò il ritrovamento alla Sovrintendenza Regionale, che affidò gli scavi al Brizio e la vigilanza dei lavori al Mengarelli. Il lavoro si protrasse da maggio a dicembre e portò alla luce altre 189 tombe, per un totale di 239; nel 1896 fu effettuata un’altra breve campagna di scavi, che restituì poche altre tombe a Santo Stefano e due gruppi di sepolture nelle contrade Fonte e Campo. L’ingegner Mengarelli pubblicò poi, nel 1902, un elenco illustrato da minuziosi disegni dei reperti rinvenuti della necropoli.
Nel volume precedentemente ricordato, Marzia Vecchioni scrisse: «La necropoli di Castel Trosino fu attribuita al popolo dei Longobardi, oltre che per la riconoscibilità degli oggetti rinvenuti, in un’area dove la presenza longobarda è ormai accertata, anche per […] l’analisi comparata con altre aree sepolcrali, quelle di Cividale del Friuli (UD), Testona (TO) e Nocera Umbra (PG). I Longobardi, in un primo momento, usavano bruciare i corpi dei morti; passarono alla costituzione dei campi sepolcrali già prima di migrare in Italia. Essi mantennero l’uso barbarico di seppellire con il defunto, oltre ai gioielli e gli ornamenti del rango di appartenenza, anche le armi, alcune delle quali con valore simbolico».
Della ricchezza dei reperti ce ne dà conto lo storico Raniero Giorgi che descrive il corredo funebre di un guerriero («[…]sul fianco destro uno spadone a due tagli con lama larga e dritta entro un fodero di pelle […]») e quello di una donna di ceto nobile. Nel corredo muliebre spicca la presenza di un grosso coltello che il Giorgi interpreta come signum libertatis, il simbolo della sua condizione di soggetto libero.
Le tombe di Santo Stefano sono disposte secondo allineamenti più o meno regolari e i defunti avevano il capo rivolto a ponente (dove tramonta il sole), secondo una tradizione antica. Le più recenti ricostruzioni rivelano che un primo nucleo di sepolture, di epoca romana, si trovava al centro del pianoro; attorno ad esse si disposero (alla fine del sec. VI) le tombe longobarde con i corredi più ricchi; più tardi (metà VII sec.) venne (ri)occupata la parte centrale, con l’edificazione della cappella di Santo Stefano e delle tombe connesse, con pochi oggetti di corredo, indicativi della posizione sociale di privilegio.
Le tombe più significative della necropoli di Castel Trosino, sono la “n. 90” (il corredo funebre, appartenente ad un cavaliere di alto rango, è paragonabile ai più ricchi corredi tombali longobardi conosciuti) e la “n. 115” (eccezionale corredo funebre femminile con fibule, collane e spilloni di fattura pregiata).
Gli ori dei Longobardi. Esposti sin dal 1895 presso il Museo Nazionale a Roma, i reperti si trovano dal 1967 nel Museo dell’Alto Medioevo (il MAME) a Roma-EUR; alcuni oggetti (pochi) sono rimasti nella collezione civica di Ascoli. Dopo la pubblicazione definitiva dei risultati degli scavi, gli “ori di Castel Trosino” furono citati come esempi di arte longobarda, ma in realtà si tratta in buona parte di prodotti italo-bizantini per manifattura e stile. Gioielli simili sono stati trovati, peraltro, in tombe fuori dal territorio italiano: i “barbari” longobardi, guerrieri “prestati” all’oreficeria, avevano quindi acquisito abilità e valori artistici di altri popoli.
Il futuro. I ricchi reperti della necropoli di Castel Trosino (insieme con quelli di Nocera Umbra), sono esposti da tempo al Museo romano dell’Alto Medioevo, dove occupano due intere sale; parte del materiale castellese è al Museo di Ancona. La restituzione dei reperti al luogo di origine è stata più volte reclamata dagli ascolani, forse con non troppa convinzione; recentemente, è stato inaugurato il Museo dell’Alto Medioevo presso il polo culturale del Forte Malatesta, sperando che esso possa, un domani, (ri)accoglierli.
Conclusioni. Il sisma del 2016-17 ha colpito anche Castel Trosino, causando danni (e ulteriore spopolamento). L’area della necropoli, attrezzata per le visite, soprattutto di scolaresche, non riceve da tempo interventi di manutenzione ed è stata, in pratica, abbandonata. I risultati sono sotto gli occhi di chi si avventura nel rimboschimento, alla ricerca dei resti di quello che è (era) uno dei sepolcreti più importanti d’Italia: è un patrimonio ripudiato che ha delle potenzialità elevate e potrebbe essere il perno di attività culturali e turistiche, in collegamento con i musei cittadini.
All’inizio dell’articolo si è fatto riferimento agli interventi delle parlamentari “ascolane”. Ben vengano se servono a focalizzare l’attenzione su una ricchezza del territorio, un tesoro appartenente al luogo di ritrovamento, elemento della sua identità culturale e possibile fulcro di un polo d’attrazione culturale e turistica, con ricadute economiche e lavorative. Stesso discorso per l’area archeologica, purtroppo abbandonata e lasciata senza manutenzione, cosa che ha comportato la non fruibilità da parte di quanti volessero visitarla.
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