di Gabriele Vecchioni
(foto di Gianfranco Alessandrini, Carlo Perugini e Gabriele Vecchioni)
Amatrice è situata al centro di una conca, incastonata in un’area al confine di ben quattro regioni: Lazio, Umbria, Marche e Abruzzo, in una zona strategica per il passaggio dal versante adriatico a quello tirrenico (e viceversa). Nel territorio comunale è compresa la cima del Monte Gorzano (2.458 metri, la vetta più alta del Lazio), e sulla stessa linea spartiacque si innalzano Cima Lepri e Pizzo di Sevo, entrambe sopra i 2.400 metri di quota.
Negli ultimi tempi, Amatrice e il suo territorio sono stati spesso sotto i riflettori dell’opinione pubblica, per il fatto che l’area è posta al centro del cosiddetto “cratere” del sisma del 2016-17. Il centro storico della cittadina è stato distrutto, e ha pagato un alto tributo in termini di vittime; ad oggi, non sono ancora in atto operazioni significative di ricostruzione e di riappropriazione del territorio devastato dal terremoto.
Amatrice (storica alleata della città picena) e l’Amatriciano hanno fatto parte della Diocesi di Ascoli Piceno fino al 1965; il territorio presenta un’alta densità di pievi e cappelle, molte delle quali lesionate dai recenti avvenimenti. Tra i tanti danni, spiccano quelli al patrimonio religioso e artistico; nel casco urbano sono state seriamente danneggiate le chiese di San Francesco, San Domenico e quella di Sant’Agostino, dal bellissimo portale strombato quattrocentesco. Le tre chiese (sec. XIV), espressione dei tre ordini mendicanti della Chiesa, avevano subìto gravi danni nel corso di precedenti, lontani terremoti (1639 e 1703) e avevano ricevuto importanti interventi di restauro.
Nell’articolo ci occuperemo di due santuari rurali, quelli più noti e frequentati, due autentici gioielli per la loro storia e per gli affreschi in essi contenuti. Prima di trattare brevemente degli edifici sacri, ricordiamo che con il termine “santuario” si intende un tempio particolarmente frequentato dai fedeli, con manifestazioni di devozione continuate nel tempo, legate a pellegrinaggi di fedeli.
Santa Maria dell’Ascensione. La chiesa, più conosciuta come Santuario della Madonna di Filetta, fu costruita in memoria di un evento verificatosi nel 1472. Il giorno dell’Ascensione: durante un temporale, la pastorella Chiarina Valente fu attratta da un forte bagliore e vide cadere dal cielo un cammeo, nel quale fu identificata l’immagine della Vergine.
La costruzione del santuario durò pochi mesi; ebbe però una storia travagliata, perché Villa San Lorenzo e Flaviano (la contrada vicina al luogo del ritrovamento) e Amatrice si disputarono la reliquia, arrivando a violenti scontri fisici. Il vescovo decise di assegnare il cammeo ad Amatrice, e il Comune poté erigere il santuario per custodirlo. Nella chiesa fu posto l’Altare del cammeo, poi trasferito in città, nella chiesa di San Francesco.
Ogni anno a maggio, nell’ottavo dell’Ascensione, viene festeggiata la Madonna di Filetta, divenuta patrona di Amatrice, con una processione che parte dalla città e “riporta” la Sacra Immagine sul luogo dove fu trovata. Sul ponte che scavalca il Tronto si svolge una finta zuffa che rievoca lo scontro tra gli amatriciani e gli abitanti del sobborgo per il possesso dell’immagine sacra.
Gli affreschi. In contrasto con la semplicità esteriore dell’edificio, l’interno è completamente decorato da opere votive. Gli affreschi del catino absidale (1480) sono di Pier Paolo da Fermo, unica opera conosciuta di questo artista. Oltre alle immagini classiche dell’iconografia religiosa, l’artefice raffigura il ritrovamento della figurina e, a sinistra, la prima processione con Chiarina che porta l’oggetto, già inserito nello splendido reliquiario d’argento, opera del celebre orafo ascolano Pietro Vannini, realizzato nel 1474. Nella chiesa, lo stesso autore ha dipinto anche un’Annunciazione e varie altre figure.
Gli affreschi alle pareti laterali del Santuario sono del pittore amatriciano Dionisio Cappelli (XV-XVI sec.), attivo anche nell’Arquatano; la tradizione vuole che sia stato il primo maestro di Nicola Filotesio (Cola dell’Amatrice). La moderna critica lo considera il “pittore dei volti”: l’artista, infatti, non metteva la medesima cura nella raffigurazione delle figure, che appaiono un po’ rigide.
Uno degli affreschi raffigura la Madonna del Soccorso, un’immagine frequente nelle chiese dell’epoca, con a lato due San Sebastiano simmetrici. La presenza di figurazioni simili dello stesso santo nella stessa chiesa non era infrequente. Il santo era il medesimo, i committenti (e, spesso, gli artisti) no: veniva raffigurato, in epoche diverse, come ex-voto per grazie ricevute da fedeli diversi. A Fematre, nel Vissano, ho “contato” ben sette San Sebastiano nell’aula unica della pieve dedicata a Santa Maria Assunta.
Santa Maria delle Grazie. Il Santuario si trova a Ferrazza, una delle 69 frazioni di Amatrice, ed è conosciuto come Icona Passatora. I fedeli sono sempre stati molto legati a questo tempio, come ben descrivono le parole di Padre Giovanni Minozzi che, nel 1940, scrisse «[…] E or palpita soave di mezzo al panorama stupendo. Quasi appoggiata alla Laga che le sventaglia a spalliera i costoloni robusti, placida mira il profilo tranquillo dei monti… da tutte le borgate del piano, pacificate e ingentilite da lei, i figli laboriosi piamente l’affollano gloriandosene con primigenia fierezza. Ella veglia e tace…».
La chiesa dell’Icona Passatora venne eretta nel 1480 per incorporare una piccola edicola chiamata dal popolo Madonna di Canalicchio, dal nome della località. Secondo la tradizione, l’immagine, risalente agli inizi del Trecento, era posta in un luogo di passaggio di pastori e viandanti e per tale ragione era soprannominata Cona Passatora.
Il Santuario doveva proteggere l’immagine ritenuta miracolosa e dispensatrice di grazie (ecco spiegato il nome del Santuario). La costruzione fu realizzata in un terreno di proprietà della basilica romana di San Giovanni in Laterano, come ricorda un affresco all’interno; l’edificio fu ampliato dopo la Battaglia di Lepanto (1571) e assunse l’aspetto definitivo. All’interno, la chiesa presenta una navata unica che prende luce da tre piccoli rosoni e da due finestre aperte sulla facciata, che è sormontata da un campanile a vela a due fornici. Le pareti interne sono completamente ricoperte da affreschi, ben conservati.
La pittura murale è stata uno strumento prezioso per l’istruzione della popolazione, in tempi nei quali la maggioranza delle persone era analfabeta: nel sec. VI, in un’epistola a Sereno, vescovo iconoclasta di Marsiglia, Papa Gregorio Magno scrisse che «[…] quello che lo scritto procura a coloro che sanno leggere, la pittura lo fornisce agli analfabeti che la guardano: in tal modo, gli ignoranti vedono ciò che devono imitare. Le pitture sono la lettura degli illetterati».
Gli affreschi. L’artista dell’Icona Passatora è il già citato Dionisio Cappelli che qui ha lasciato una bella Crocifissione, affollata di personaggi, e un’Adorazione dei Magi. Alle pareti, completamente ricoperte di affreschi, numerose interessanti figure, tra le quali un Cristo Portacroce e diverse Madonne in trono. Interessante la rappresentazione di Sant’Amico, personaggio venerato in zona fino all’area di Antrodoco e nell’Arquatano. Il Santo, con identica iconografia, (l’ascia da boscaiolo e il lupo alla cavezza) è onorato anche nel Fermano e nel Maceratese.
Le immagini dell’Icona Passatora testimoniano il forte attaccamento dei fedeli. Affermazione di fede e di devozione, i numerosi ex-voto affrescati all’Icona Passatora offrono anche uno spaccato antropologico dell’epoca, soprattutto per le pittoresche espressioni usate dai fedeli per ringraziare la divinità dell’aiuto ricevuto. Eccone alcune: un’indemoniata liberata dallo spirito maligno («questa è una spirdata forte recomannata a questa Madonna»); un uomo ritrova la via dopo essersi smarrito a causa della nebbia («Sperse la via a male tebu, recomannosse a questa cona e fu liberato»); un uomo in preghiera per l’asino precipitato in una scarpata («Per timeco della fiumata gliese spalò l’asinu per le vene, recomannosse»); un ragazzo di Cornillo caduto da un ciliegio («rutilante de Cornillu se cascò de la cerescia, recomannosse a questa cona e non se fece male»).
Riflessioni conclusive. Le foto a corredo dell’articolo sono state scattate prima degli eventi sismici del 2016-17 (quelle dei danneggiamenti sono state reperite sul web). I danni sofferti dagli edifici e dalle opere d’arte, seppur gravi, non sembrano però irreparabili (tranne che per alcuni, come quelli della chiesa di Sant’Agostino, caduta insieme a Porta Carbonara e alla torre-campanile) e lasciano speranza di poter ancora godere di queste opere. Per quanto riguarda le opere pittoriche, i frammenti caduti sono stati e recuperati e tracciati; attualmente in deposito a Cittaducale, sono in attesa del restauro strutturale dell’edificio sacro e della ricomposizione del ciclo pittorico.
A questo punto, può sorgere una domanda: in un territorio devastato dal sisma, dove sono in atto dinamiche di spopolamento e c’è l’obiettivo pericolo di “desertificazione”, ha senso investire risorse, umane ed economiche, per il recupero di monumenti del passato, oltretutto fortemente danneggiati?
L’antropologa Irene Maffi ha scritto (2006) che «[…] i monumenti sono dei semiofori, cioè sono portatori di storia, di memoria, di cultura, di valori religiosi e politici». Quello che in Italia viene identificato come “bene culturale” (nei paesi anglosassoni si usa la significativa espressione cultural heritage – eredità culturale) diventa «strumento di espressione identitaria», necessario alla «costruzione della memoria e dell’identità della società». È questo il motivo di fondo per cui si devono tutelare i monumenti, oltre alle case e alle infrastrutture: è necessario, per la salvaguardia della memoria e dell’identità civile, sviluppare progetti di recupero-restauro dei cosiddetti “resti del passato”, prima che queste testimonianze di ricchezza materiale e culturale vadano perdute.
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