testo e foto di Simone Corradetti
Al Teatro Concordia di San Benedetto questa mattina gli studenti del Liceo classico “Giacomo Leopardi” hanno incontrato Fiammetta Borsellino, figlia del magistrato Paolo Borsellino, per parlare dei lati oscuri e dei depistaggi avvenuti in questi 27 anni trascorsi dalla strage di via D’Amelio a Palermo.
Erano le 16,58 del 19 luglio 1992 quando una Fiat 126, rubata e imbottita di tritolo, fu fatta esplodere provocando la morte del giudice Borsellino e degli agenti della sua scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi (prima donna agente di scorta della Polizia caduta in servizio), Vincenzo Li Mulli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Unico sopravvissuto fu l’agente Antonino Vullo. Un forte boato fu avvertito in tutto il capoluogo siciliano. La strage, di stampo terroristico-mafioso richiamò l’attenzione degli organi di stampa di tutto il mondo. Nella palazzina, al civico 21 di via D’Amelio, abitavano la madre e la sorella del magistrato. Paolo Borsellino, nato il 19 gennaio del 1940, era un uomo semplice che faceva il suo lavoro con passione e dedizione. Proveniva da una famiglia umile, di un quartiere povero di Palermo, dove da bambino giocava a calcetto con i suoi amici e in particolar modo con Giovanni Falcone, divenuto poi un suo collega, assassinato due mesi prima, il 23 maggio 1992, nella strage di Capaci.
A introdurre l’incontro sul progetto “Giù la maschera”, il professor Fabio Gianlombardo che ha voluto sottolineare l’importanza dell’educazione ad una sana legalità, lontana dalla corruzione, che ha permesso il più grave depistaggio nella storia repubblicana italiana. Poi è la volta di Fiammetta Borsellino. «Mio padre era una persona semplice che amava il suo lavoro ed ha lavorato sodo con Giovanni Falcone mettendo al primo posto l’amore per la sua città come arma vincente, trasmettendo i valori di legalità ed onestà ai cittadini. Ogni mattina – ha detto – quando si guardava allo specchio, si chiedeva se lo stipendio se lo fosse meritato o no. Insieme agli altri colleghi creò il “Pool Antimafia” e durante gli interrogatori parlavano in dialetto siciliano, per creare una certa empatia con il mafioso di turno. Nei primi tre processi – ha raccontato – alcuni magistrati ed appartenenti alle forze di Polizia, cominciarono ad applicare le regole in maniera sbagliata e questo provocò l’allontanamento della verità, alzando un muro di omertà assoluta».
Ed ha proseguito: «Nel 2008 Gaspare Spatuzza, pentito di mafia, iniziò a parlare dando via al processo “Borsellino quater”. Purtroppo ragazzi – ha aggiunto rivolgendosi agli studenti – c’è una parte malata dello Stato che fa del tutto per isolare coloro che lavoravano bene, facendo terra bruciata. Ma bisogna avere il coraggio di denunciare i reati, perché ci sono servitori delle istituzioni che lavorano bene e lo fanno in silenzio, senza apparizioni di facciata. La denuncia pubblica è importante per un discorso di condivisione collettiva. Mio padre lo fece quando si accorse, che una parte della magistratura voleva smantellare il “Pool Antimafia” e anche tanti giornalisti sono morti assassinati per aver denunciato pubblicamente ciò che non funzionava».
Infine, Fiammetta Borsellino ha risposto alle domande degli studenti sulla famosa agenda rossa mai rinvenuta. «Mio padre la utilizzava per annotare appuntamenti importanti e colloqui riservati – ha detto – per questo sarebbe fondamentale, per arrivare alla verità. Purtroppo, sono anche scomparsi i tabulati telefonici del cellulare che utilizzava e ciò ha complicato le indagini. L’appello – ha concluso – lo faccio ai giovani sul consumo di droga, che nuoce alla salute e aiuta a finanziare la criminalità organizzata».
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