di Gabriele Vecchioni
(foto di Giovanni Fazzini, Antonio Palermi e Gabriele Vecchioni)
Recentemente Cronache Picene ha ospitato diversi interventi relativi alla trasformazione subìta dalla valle del Tronto nel corso dei decenni (clicca per leggere). In questo articolo sarà analizzato il territorio vallivo sotto diversi aspetti, iniziando da quello geografico fino a quello paesaggistico, pesantemente “indirizzato” dall’intervento antropico, soprattutto nel comprensorio della Bassa Vallata.
Il “fiume di Ascoli” è il più importante fiume delle Marche, per la lunghezza dell’asta fluviale e per la portata d’acqua. Nella regione, l’area compresa tra le catene montuose e il litorale è stata intagliata dalle valli fluviali “a pettine”, perché i corsi dei fiumi, piuttosto brevi per la relativa vicinanza all’Adriatico della linea di spartiacque della catena appenninica, hanno andamenti paralleli.
Le valli principali sono undici; quella del Tronto segna il confine regionale meridionale con l’Abruzzo. Si sviluppa in direzione ENE-WSW, con variazioni altimetriche e morfologiche notevoli, dagli scenari montani dei Monti Sibillini e della Laga alla cimosa litoranea sabbiosa, in un continuo mutamento di paesaggi e di condizioni geopedologiche.
La via scavata dal fiume nel corso della sua millenaria azione è stata, fin dall’antichità, una delle vie elettive di collegamento dell’area costiera con quella montana e, nel proseguimento, la strada che collegava i versanti tirrenico e adriatico. Nello spazio naturale ricavato dal percorso del fiume fu impostata, nei secoli, una delle vie consolari più antiche, la Salaria, destinata al trasporto del prezioso minerale nei due sensi di percorrenza («Era ed è la via più naturale e diretta che da Roma possa aprirsi traverso la media Italia», G. B. Carducci, 1889).
Il fiume nasce dalle arenarie dei Monti della Laga e percorre, da Accumoli a Trisungo, un tratto corrispondente al sovrascorrimento dei calcari dei Monti Sibillini; poi, «Il Tronto, solcando questa arenaria compatta da Trisungo fino a Mozzano, trovasi a scorrere entro una valle angusta e serpeggiante, presentando allo sguardo quadri stupendamente pittoreschi in modo speciale la mattina e la sera, quando cioè i raggi del sole illuminando le cime più alte proiettano una luce che va a riflettersi in mille modi tra i rottami delle rocce, sulle acque del fiume e fra i castagneti che vi vegetano (Guida della Provincia, 1889)».
Più avanti, il paesaggio cambia radicalmente, passando dalle arenarie alle argille; nei rilievi tondeggianti fortemente erosi si affondano scoscendimenti ripidi e creste calanchive, sistemi di vallecole poco profonde che incidono i pendii delle colline plioceniche, che arrivano in prossimità della costa; all’interno del rilievo modesto, l’imponente massa conglomeratica del Monte dell’Ascensione, situata di fronte all’altopiano tabulare di travertino del Colle San Marco, propaggine del profilo elegante della Montagna dei Fiori.
Il Tronto attraversa la città di Ascoli Piceno dove riceve le acque del suo principale affluente, il Castellano, proveniente anch’esso dall’area dei Monti della Laga; dall’incontro, il corso d’acqua esce con una portata notevolmente arricchita. Vicino alla città, la valle è guardata, a sud, dal Colle San Marco e dal Giammatura, alture modeste della dorsale dei Gemelli; a nord, dall’aspro rilievo dell’Ascensione che si allunga nelle colline argillose e calanchive di Offida e Castignano. Fuori dalla città, il fiume riduce pendenza e velocità e percorre un’area pianeggiante abbastanza ampia; tra il capoluogo piceno e il mare si trovano le quattro entità morfologiche dei terrazzamenti alluvionali dovuti ai processi di sedimentazione e di erosione; sulle golene, associazioni ripariali ridotte per la forte antropizzazione (rurale, industriale e urbana). Nell’ultimo tratto, il Tronto diventa confine geografico e amministrativo tra Marche e Abruzzo e, dopo un percorso di oltre 90 chilometri, sfocia nel Mare Adriatico, tra Porto d’Ascoli e Martinsicuro.
Lungo l’asse vallivo longitudinale insistono ben quattro vie di comunicazione “importanti”: oltre alla storica Salaria (Strada Statale 4), la superstrada Ascoli-Mare (Raccordo Autostradale 11), la linea ferroviaria Ascoli-Porto d’Ascoli (tratto dell’incompleta “Ferrovia dei Due Mari” (leggi l’articolo cliccando qui) e la cosiddetta “Bonifica” (Strada Provinciale 1), c’è l’Asse attrezzato di servizio per l’area produttiva di Campolungo e una fitta ragnatela di strade trasversali, vicinali e di collegamento per i centri abitati: il risultato è la forte antropizzazione del territorio che Giulio Gabrielli definiva «la smeraldina valle del Tronto», per mettere in evidenza la sua ricchezza di vegetazione, ormai ridotta a lembi isolati.
Lo storico Sergio Anselmi ha scritto (1989) che «l’Italia, in epoca protostorica, fu un’immensa foresta di latifoglie […]. È difficile pensare a paesaggi “naturali”, a terrae incognitae e incontaminate; esiste un paesaggio che è il prodotto dell’uomo e della sua economia, che a sua volta riflette la sua cultura. E infatti, ogni “storia del paesaggio” ha, sottesa, la storia economica del rapporto dell’uomo con l’ambiente […]». Nel nostro caso, la bassa valle è delimitata da cordoni di colline, sulla cresta delle quali sono sorti borghi e casolari. Ancora Gabrielli, a fine Ottocento, descriveva un paesaggio ancora oggi apprezzabile, una valle «[…] chiusa a destra e sinistra da una catena di colline, sul vertice e sui versanti di esse fanno bella mostra eleganti casini da villeggiare, terre e villaggi […]».
L’esodo dai centri d’altura, piuttosto diffusi nella nostra zona per via dello storico fenomeno dell’incastellamento, verso i più comodi centri urbani di fondovalle, ha portato a una distribuzione anomala della popolazione, con un’area a forte densità demografica (da Ascoli a Porto d’Ascoli – meno di 30 chilometri- ci sono circa 100.000 abitanti, sul totale di 210.000 dell’intera provincia). Qui è forte l’intervento dell’uomo, sia dal punto di vista agricolo (con appezzamenti non molto estesi – residuo della pratica mezzadrile – serviti da una densa maglia di strade poderali) sia da quello del settore economico secondario, con ampie zone di sviluppo artigianale e industriale.
La valle del Tronto è un autentico mosaico di paesaggi, composto da colline, campi coltivati, aree naturali, case, borghi e monumenti e, segno del presente, capannoni e aree (im)produttive realizzate, il più delle volte, a spese dell’armonia paesaggistica (le zone industriali non si integrano con la morfologia territoriale, esercitando un forte impatto ambientale). Come ricordava Giulia Panichi Pignatelli il paesaggio della valle è cambiato: «Capannoni diroccati, in disuso, fabbriche fantasma che per il 60% non funzionano più, ma che continuano a inquinare a livello paesaggistico, culturale, la qualità della vita di tutta la zona». Il forte intervento dell’uomo sul fondovalle, massacrato da una metastasi edilizia avventata, ha provocato la scomparsa dei boschi esistenti nelle aree pianeggianti e di ogni traccia della lecceta e della macchia mediterranea. Oggi è possibile rilevare solo ridotte presenze arboree sulle golene dei fiumi, a ridosso delle rive, con lo stravolgimento delle dinamiche vegetali, l’impoverimento della biodiversità e la banalizzazione del paesaggio. Specie esotiche, sempre di più, stanno occupando spazi nella bassa vallata: è il caso della robinia e dell’ailanto (articolo precedente, leggilo qui). In breve tempo, grazie alle loro ottime capacità di ricaccio, hanno invaso le aree urbane e i boschi collinari, tanto da poter essere considerate specie infestanti e aver provocato una squalificante uniformità morfologica del paesaggio vegetale. Resta qualche grande esemplare di quercia camporile, spesso vicino all’abitazione padronale, retaggio di una passata maggiore diffusione.
Le ultime righe dell’articolo sono dedicate al paesaggio rurale, oggetto, qualche anno fa, di una interessante mostra, al Palazzo dei Capitani di Ascoli. Nell’esposizione di arte contemporanea erano presenti opere di diversi artisti che celebravano la bellezza e l’armonia del paesaggio rurale. Lo splendido paesaggio collinare piceno era analizzato in maniera “amorosa” da Stefano Papetti, nella sua dotta introduzione al catalogo della mostra (“Campi visivi. Il paesaggio rurale da Licini a Pericoli”, 2011-12). Alla fine dello scritto, l’autore lanciava un grido d’allarme, pienamente condivisibile: «[…] come la campagna sia stata violentata da un’edilizia selvaggia che ha in larga misura cancellato l’armonia pierfrancescana delle colline marchigiane, devastando in pochi decenni ciò che generazioni e generazioni di contadini avevano saputo costruire. Un paesaggio “a regola d’arte” che rischia di sparire. Per sempre».
In conclusione, si può affermare che il patrimonio naturale, il paesaggio, la tradizione storica e culturale vanno considerati in una visione globale, come un singolare unicum da tutelare. Una delle ricchezze del Piceno è (era?) costituita dal paesaggio, creato dall’uomo nel corso del tempo. Già l’Abate Giuseppe Colucci, nelle sue Antichità Picene (1795), aveva scritto, riferendosi alla valle truentina, «[…] dell’aria salubre; vi aggiungono la collina con l’amenità della verdura pel piacere della vista. […] è ben fornita di tutte le prerogative, godendosi molto paese nell’intorno della valle del Tronto, con vaga prospettiva de’ suoi colli, da’ quali si vede spuntare la montagna de’ fiori, e più da lungi anche il gran sasso d’Italia; ed è dominata dall’oriente, sul cui orizzonte si scuopre un tratto di marina».
La grande varietà di ambienti che ci circonda, le bellezze naturalistiche, artistiche e culturali sono una risorsa identitaria del nostro territorio e meriterebbero maggiore attenzione di quella ricevuta finora anche perché potrebbero costituire la base culturale per una reazione al clima di sfiducia diffuso nel Paese.
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