di Gabriele Vecchioni
(foto di Antonio Palermi, Carlo Perugini e Gabriele Vecchioni)
Proseguendo lungo le Gole, si incontra Santa Maria Scalena. Nonostante la quota non elevata (circa 600 metri), l’eremo è un suggestivo “nido d’aquila”, ricavato dalla viva roccia, quasi “rubato” alla parete di pietra. L’eremo è stato realizzato adattando una cavità naturale, a picco sul bosco che riveste il pendìo acclive: si raggiunge dall’alveo del torrente con un sentiero ripido ed esposto, attrezzato con un cordino d’acciaio. L’ingresso, sostenuto da muri a secco, presenta, a destra, una cisterna che raccoglie l’acqua piovana per gocciolamento dalle pareti. L’utilizzazione di acque (ritenute taumaturgiche) di sorgenti o serbatoi vicini a romitori è un must della devozione popolare, specie nel vicino Abruzzo.
Poco più in alto, a sinistra, un piccolo vano interrato e intonacato presenta, sulle pareti, la scritta Sanda Maria Dei Gratia e un affresco di arte ingenua con un volto femminile in lacrime: è la “Madonna che piange” (le gocce di pianto della Vergine sono nere, per il viraggio del colore utilizzato, contenente piombo, a contatto con l’umidità). Edoardo Micati interpreta la struttura come una minuscola cella penitenziale per i romiti, utilizzata per una sorta di purificazione ascetica.
L’area di culto è caratterizzata da un rozzo altare ricavato dalla roccia e una grande apertura, a sinistra, permette il godimento del panorama sulla stretta valle del Salinello; gli incàvi alle pareti fanno pensare che gli antichi abitatori del luogo la chiudessero con frascame. Dalla parte opposta, un lungo budello si inoltra nella roccia: qui furono rinvenute tracce di una sepoltura, destinata ad accogliere i resti di qualche eremita.
Di fronte, sulla parete della Montagna di Campli, si nota un altro luogo di penitenza, San Marco, che ne ricalca quasi specularmente la povertà della struttura e la durezza della vita di chi vi trascorreva l’esistenza. Di difficile accesso (all’epoca in cui era frequentato da penitenti) non doveva offrire alcun riparo alle inclemenze del tempo, costituendo così un luogo “ideale” di sofferenza (per come era concepita la vita eremitica nel Medioevo) che “garantiva” la salvezza dell’anima, per sé e per gli altri.
Avanzando lungo l’orrido, si incontra l’eremo di San Francesco alle Scalelle o de Calvario (Papa Bonifacio VIII lo nomina in una Bolla come «S. Francesco in Monte Polo»): si raggiungeva, a partire dal greto del Salinello, salendo alti e faticosi gradoni naturali di roccia. L’eremo compare in documenti del 1273, quando il vescovo ascolano Rainaldo lo esentò dall’ordinaria giurisdizione, assegnandolo al priore di Sant’Angelo in Volturino.
La cavità, poco più di uno sgrottamento, è poco profonda ma alta circa 20 metri. È ancora visibile un ampio tratto di muro appoggiato alla parete rocciosa, e un altro, più all’interno. Una terza parete, perpendicolare alle altre due, “chiudeva” il riparo. Sotto il pavimento, un crollo ha messo in luce la cisterna intonacata per l’acqua, di piccole dimensioni, con volta a botte e botola centrale. Poco più a valle, resti di muri di terrazzamento, per ricavare piccoli orti. La povertà della struttura, relativamente vicina al borgo di Macchia avrebbe colpito il Santo assisiate, tanto da convincerlo a fermarvisi per qualche giorno, nella prima metà del XIII secolo. L’eremo è noto per la leggenda di San Francesco che qui, in lotta col Demonio, gli avrebbe anacronisticamente “sparato” con il suo bastone (a quell’epoca la polvere da sparo non era ancora stata inventata!).
Santa Maria Maddalena de Monte Polo è raggiungibile percorrendo un interessante ma difficile sentiero: l’attributo riprende il nome antico del rilievo. La grotta del romitaggio è situata a circa 1.000 metri di quota, sul versante meridionale della Montagna dei Fiori, in uno splendido contesto panoramico; i monaci che lo abitavano, nel sec. XIII, erano benedettini. La caverna è ampia ma scomoda, per il fondo sconnesso e ripido; l’apertura è chiusa dai resti di una cappellina con la volta a botte; sui muri laterali, minimi lacerti di affreschi. I monaci avevano il loro riparo all’esterno della caverna: resti di muro si incrociano ad angolo retto, vicino a una grossa cisterna intonacata. Nel sec. XIII era una dipendenza di Sant’Angelo in Volturino ed era ancora frequentato nel 1724, tanto che Papa Benedetto XIII concesse indulgenze ai pellegrini che l’avessero visitato.
Sant’Angelo in Volturino. L’archicenobio, anteriore al sex. X, era l’eremo più importante della Montagna dei Fiori, «sede alpestre» del Priore della congregazione eremitica durante la bella stagione; d’inverno, per il forte innevamento della zona (oltre 1.400 metri di quota), il superiore si trasferiva a San Lorenzo in Carpineto, sul versante opposto della montagna, alle pendici del Colle San Marco. Citato in bolle papali dal 1234 al 1469, aveva alle sue dipendenze diverse chiese ed eremi della Montagna; i suoi beni si estendevano nelle diocesi di Teramo, Rieti e L’Aquila, arrivando in Puglia. L’attributo, riferisce il Giorgi, gli deriva dai vultures (gli avvoltoi) che contendevano ai monaci la “proprietà” del luogo.
Andrea Staffa ha scritto che «L’ubicazione della struttura all’interno di una grotta sembrerebbe suggerire, non diversamente dal caso indagato archeologicamente della grotta Sant’Angelo a Civitella del Tronto, che il luogo di culto cristiano fosse andato ad occupare, con la connessa presenza monastica, un luogo venerato già in precedenza. […] Si trattava di luoghi connessi alla presenza di acque ed al probabile culto della fecondità, la cui frequentazione si era probabilmente protratta anche dopo i decreti di Teodosio per la soppressione dei santuari rurali (391 d.C.), sino all’insediamento, nel primo Alto Medioevo, di complessi cristiani per probabile iniziativa dei monaci». Ricavato da una grotta (crypta), il cenobio era dedicato a San Michele Arcangelo, il culto del quale ebbe «particolare fortuna in età longobarda, soprattutto a partire dal VI secolo».
Il culto del santo (apparso la prima volta in una grotta del promontorio garganico, annunciato da luci rutilanti) era radicato tra le popolazioni di montagna perché mutuato dall’antichissimo culto di Ercole, semidio venerato dai pastori, e promosso dagli invasori Longobardi, stanziati in zona. All’eremo ha legato il proprio nome il Beato Saladino, che vi rimase in isolamento per ventotto anni; morto nel 1240, fu sepolto nel Duomo di Ascoli e gli fu dedicato un altare. La decadenza, economica e spirituale, dell’eremo fu rapida: già alla fine del XV secolo non ne rimaneva quasi nulla. Ancora una volta, entrarono in gioco gli avvoltoi: Sant’Angelo in Volturino fu saccheggiato dalla popolazione locale il giorno dopo l’abbandono della struttura da parte dei monaci.
Gli eremi scomparsi. Di altri eremi si sono perse le tracce ma rimane la testimonianza nei documenti e nei toponimi. Sul Colle omonimo, perpendicolarmente alla Grotta Sant’Angelo, si trovano i ruderi di San Lorenzo. Vicino a Castel Manfrino c’era Santa Maria Interfoci, un ascetèrio difficilmente raggiungibile; denominato Santa Maria inter fines de Monte in alcuni documenti (sec. XIII), era una dipendenza di Sant’Angelo in Volturino. Fu abbandonato per la vicinanza al borgo di Macchia che non permetteva ai monaci di condurre una vita solitaria di penitenza. Un altro era San Benedetto de Flaviano, vicino alle Canavine, sulla strada che da Macchia sale verso San Vito; il monastero fu distrutto nel 1824 da una slavina di neve e sassi. Dalla parte opposta era situata una piccola chiesa, quella di San Giorgio, le ultime notizie della quale risalgono al sec. XIV. Infine Santa Maria de Cerro, convento di monache cistercensi, situato anch’esso sulla strada per San Vito e distrutto da un incendio nel 1668, insieme alla chiesa di Santa Croce.
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