di Gabriele Vecchioni
(foto di Claudio Ricci e Gabriele Vecchioni)
In questi giorni di “reclusione” forzata (ma necessaria) per l’emergenza legata alla diffusione del Coronavirus, proviamo ad uscire – in maniera virtuale – nella natura del nostro bellissimo territorio con questo articolo dedicato ai boschi che circondano la città.
Dal punto di vista naturalistico, la città di Ascoli è in una posizione privilegiata: oltre a essere vicina ad aree con una biodiversità elevata – i Parchi Nazionali dei Monti Sibillini e del Gran Sasso-Laga – è contornata da zone boscate, ben visibili dal centro urbano. Questi rilievi vicini alla città, insieme alle estese aree collinari che la circondano costituiscono un affascinante mosaico di ambienti, un paesaggio di grande rilevanza per l’identità territoriale (e culturale).
Qui saranno analizzate brevemente le caratteristiche del bosco caducifoglie, un’associazione vegetale caratteristica delle alture che circondano la città. Sulla Montagna dei Fiori e sul Monte dell’Ascensione (i due rilievi più importanti della zona) si incontrano, infatti, diversi boschi di questo tipo: querceti e castagneti, boschi misti appenninici e faggete.
Con il termine “bòsco” (dal latino medievale buscus) si intende un raggruppamento di alberi con un’estensione di almeno 5 000 mq (mezzo ettaro); per la legge italiana, in realtà, bastano 2.000 metri quadrati di superficie. Come tutte le associazioni vegetali, il bosco è un insieme dinamico, in lenta trasformazione spontanea. Inoltre, il millenario intervento antropico sul territorio, legato alle attività agricole, forestali e pastorali ha prodotto, nel tempo, profondi cambiamenti: foreste e praterie primarie sono state modificate nella composizione e nella struttura dall’azione dell’uomo. Basti pensare alla presenza di estesi castagneti, lo sviluppo dei quali è stato favorito per motivi economici, o di boschi artificiali – i rimboschimenti – creati per la protezione del suolo dal rischio idrogeologico: nel vicino Abruzzo, spesso, il toponimo che indica un rimboschimento è “Difesa”. A lungo andare (molto lungo!), questi boschi tendono ad assumere un aspetto più “naturale”, quando la compagine ordinata del rimboschimento viene rotta e altre essenze cominciano ad entrare tra le resinose.
L’analisi della vegetazione potenziale e di quella reale del territorio è un discorso complesso che esula dagli scopi dell’articolo: qui ci limiteremo a considerare solo il bosco naturale che l’escursionista percorre frequentando i sentieri che risalgono la montagna. Nell’articolo mancano volutamente riferimenti territoriali, presenti nelle didascalie delle foto a corredo dello stesso.
Nelle aree nominate in precedenza è previsto, dal punto di vista fitogeografico, il piano di vegetazione dell’orno-ostrieto (bosco misto di càrpino nero e orniello), condiviso dal querceto a roverella: più in alto, il piano montano con la faggeta. Tra i due, compenetra il castagneto, anche in località vicine alla città. In generale, i boschi di questo tipo sono situati nelle zone a clima temperato, con una stagione fredda abbastanza lunga e temperature estive non eccessivamente alte. Gli alberi di questi boschi perdono le foglie durante la stagione invernale, per meglio resistere alle basse temperature; il sottobosco è costituito da piante arbustive ed erbacee. Spesso i boschi di caducifoglie sono (o sono stati) boschi cedui, cioè sottoposti a taglio periodico, secondo rigidi “turni”, per il ricavo del legname. Ma questa è un’altra storia.
Perché un bosco possa definirsi “naturale”, deve avere caratteristiche ben precise. Prima di tutto deve essere disetaneo, con alberi di differente età; deve avere, poi, una struttura complessa e pluristratificata, composta da quattro strati di vegetazione (nell’ordine, strato muscinale – i muschi, erbe, arbusti e alberi). Sul terreno, oltre alla lettiéra di foglie – dove vivono invertebrati e funghi, deve esserci uno strato di legno “morto”. Devono essere presenti, poi, i bioindicatori: in un bosco sano, oltre ai muschi, sono presenti funghi e licheni – segnalatori della qualità dell’aria, invertebrati (coleotteri), molluschi (lumache – senza conchiglia – e chiocciole) e uccelli.
Per lo spazio limitato a disposizione, non possiamo soffermarci su questo interessante tema. Torniamo quindi all’argomento dell’articolo, il ciclo stagionale del bosco caducifoglie, facilmente osservabile anche da chi non abbia nozioni approfondite sull’argomento.
A primavera (ma già a partire da febbraio), i raggi solari filtrano tra i rami spogli degli alberi e riscaldano il terreno: la temperatura più alta e la maggiore quantità di luce favoriscono la fioritura di primule e viole che emergono dalla spessa lettiéra di foglie; la linfa scorre più velocemente nei vasi degli alberi e sui rami iniziano a spuntare le gemme. Le foglie, grazie al periodo caldo più lungo, possono produrre, con la fotosintesi clorofilliana, le sostanze necessarie alla crescita. Il fenomeno più vistoso comincia ad aprile, quando le chiome degli alberi si rivestono del manto di foglie da cui dipende, in definitiva, il biòtopo.
Anche la componente animale “approfitta” della situazione, trovando cibo nei germogli e negli insetti che cominciano a (ri)apparire. Con una metafora, possiamo dire che i tronchi e le chiome degli alberi sono dei “condomìni” dove vivono uccelli, mammiferi, insetti e invertebrati d’ogni genere.
D’estate, la copertura fogliare è completa e impedisce alla luce di penetrare tra i rami: per le delle piante del sottobosco la vita diventa difficile ma il clima è fresco e umido; nelle chiarìe e dove la luce riesce a filtrare crescono arbusti e cespugli. Le piante fiorite a primavera immagazzinano le riserve per la prossima fioritura. Aumenta il numero degli insetti, specie nei querceti e nei boschi luminosi.
D’autunno, gli alberi a foglia cadùca le pèrdono per adattarsi al clima rigido, diminuendo la traspirazione. Le giornate si fanno più fredde e gli alberi reagiscono riducendo il nutrimento che arriva alle foglie, che hanno colori mutevoli e cadono al suolo, formando la lettiera (articolo precedente, leggilo qui). I frutti maturi e i semi cadono dai rami e rimangono sepolti sotto le foglie morte: germineranno la primavera successiva. Uccelli e piccoli mammiferi (come gli scoiattoli) accumulano cibo nelle tane.
Durante l’inverno, solo poche piante conservano le foglie, le cosiddette sempreverdi; quelle che fruttificano tardivamente (per es., la rosa canina e il biancospino) forniscono cibo agli uccelli. La lettiéra di foglie (molto spessa nei boschi di faggio) protegge il suolo e le radici degli alberi dal gelo, consentendo agli animali che vi trovano rifugio di sopravvivere. Intanto, gli agenti atmosferici e gli organismi decompositori permettono di chiudere il ciclo naturale, restituendo i sali minerali al terreno.
Per concludere, focus su due bellissime piante che è possibile incontrare all’interno dei boschi delle nostre montagne. La prima è il tasso, una specie relitta (in senso botanico; vive in un’area nonostante siano mutate le condizioni climatiche ad essa più congeniali) della laurisilva del Cenozoico (da 65 a 1,8 milioni di anni fa) e può arrivare fino a 15 metri di altezza. È uno dei pochi alberi che riescono a vivere all’ombra di altre specie forestali; i frutti (gli arilli) sono di colore rosso vivo e contrastano con il verde scuro delle piatte foglie aghiformi. Il legno, elastico e compatto, era ricercato in epoca medievale per la costruzione degli archi; la corteccia rossastra è velenosa, come le foglie e i semi. Questa tossicità ne ha fatto un simbolo sfavorevole (era soprannominato l’ “albero della morte”) fin dai tempi antichi: nell’antica Roma ci si incoronava con rami di tasso nei giorni di lutto.
La seconda specie è l’agrifoglio, anch’esso è una specie relitta della foresta sempreverde del Terziario e può arrivare a 20 metri di altezza. È una pianta dioica (i sessi sono separati, presenti cioè su esemplari diversi), è molto “decorativa” per via dei frutti carnosi (sono drupe, come le olive) di colore rosso acceso, in forte contrasto con le foglie spinose di colore verde scuro. I frutti contengono glucosidi tossici per l’uomo ma graditi agli uccelli che li utilizzano nella stagione fredda. Un aneddoto anche per questa pianta (attuale simbolo natalizio ma usata già dagli Etruschi per i loro riti sacrificali): fino al Rinascimento, le fronde pungenti dell’agrifoglio erano usate per difendere la carne salata dai topi (era conosciuta come pungitopo maggiore, per distinguerla dal Ruscus, il classico pungitopo).
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