di Gabriele Vecchioni
È storia recente la “restituzione”, alla comunità di Arquata del Tronto, del crocifisso ligneo, oggetto di venerazione secolare da parte della collettività e trasferito, per motivi di sicurezza legati alla statica degli edifici religiosi che li ospitavano, insieme alla copia della Sacra Sindone, nella Cappella del Sacramento della cattedrale ascolana di Sant’Emidio (articolo precedente, leggilo qui). Il simulacro è stato ora sistemato nella chiesa nuova costruita nel villaggio Sae della frazione di Borgo e costituisce di nuovo un punto di riferimento sociale, oltre che religioso, per una comunità così duramente colpita dagli eventi sismici.
In questo articolo ripercorriamo brevemente l’interessante storia di quest’icona.
Il prodotto artistico. L’opera, risalente al secolo XIII, è la più antica statua lignea di arte sacra delle Marche. La figura (intagliata e dipinta) policroma, idealmente inserita in un quadrato di poco meno di 150 centimetri di lato, è un’opera singolare perché manifesta un netto contrasto tra la rigidità statuaria del Cristo (tipica dell’epoca) e la precisione della rappresentazione pittorica, che evidenzia una buona conoscenza anatomica del corpo umano da parte degli autori. Nel corso del restauro (1973), nell’opera furono rilevate influenze stilistiche bizantine; essa è stata attribuita a due autori, i due fratres benedettini Raniero e Bernardo, che l’hanno firmata, incidendo i loro nomi alla base del simulacro: la critica moderna lo relaziona all’arte spoletina dei secc. XII-XIII.
Come già evidenziato, la figura del crocifisso è stilisticamente rude, con le braccia distese e le gambe parallele, secondo canoni stilistici dell’arte popolare dell’epoca. Diversamente, il rivestimento pittorico, evidenziato dal restauro già menzionato (che lo ha liberato da pitture successive), delinea in maniera accurata l’anatomia della figura. Sul capo della statua è appoggiata una fine corona d’argento, un ex-voto popolare del quale di occuperemo in seguito.
La storia. Il crocifisso, in origine, era conservato nella chiesa ascolana di San Salvatore di Sotto, un edificio voluto dal vescovo Emidio (futuro santo patrono della città) sul Colle di Marte, sui resti di un tempio pagano; nel Mille, San Romualdo, promotore dell’Ordine dei Camaldolesi, aveva visitato il sito e vi aveva fondato un monastero. Attualmente, la chiesa, sconsacrata, è stata restaurata ed è in attesa di una utilizzazione consona alla sua attrattiva storica e architettonica.
Nel 1680 (la struttura era abbandonata da tempo ma il crocifisso era ancora venerato dai fedeli) gli arquatani, nel corso di uno dei frequenti scontri con gli ascolani, trafugarono dalla chiesa il simulacro. Il racconto, a questo punto, sfuma nella leggenda: i cittadini avrebbero inseguito i “predatori”, raggiungendoli nei pressi di Favalanciata; si accese una zuffa violenta (la zona fu denominata, in seguito, Pie’ la Sanguinaria) e il crocifisso fu messo al riparo di una quercia che, a mo’ di protezione dell’immagine, abbassò i suoi rami. Il fatto fu ritenuto miracoloso e interpretato come la manifestazione della volontà divina che l’icona rimanesse nel borgo di montagna; gli stessi ascolani si ritirarono, rinunciando a riprendersela.
Nonostante l’acquisizione del crocifisso fosse stata fraudolenta, la popolazione locale adottò immediatamente l’immagine come propria, tributandole onori speciali: le processioni durante le quali veniva esposto erano sempre molto seguite dai fedeli.
All’inizio, l’icona fu conservata in un edificio sacro nella frazione di Borgo (la chiesa dedicata al Santissimo Salvatore, costruita sulle rovine dell’antica pieve di Santa Maria del Piano, del sec. IV); la distruzione del fabbricato per il terremoto del 1905 costrinse a un nuovo trasferimento, all’interno dell’incasato di Arquata del Tronto, nella parrocchia dell’Annunziata (sec. XV), una costruzione in pietra arenaria, praticamente rasa al suolo dal sisma del 2016-17.
L’epidemia di colera e la corona di ringraziamento. Nell’estate del 1854 si verificò, in tutto il territorio italiano (l’unità nazionale politica si sarebbe completata solo più tardi) una violenta epidemia di colera. Il colera è una malattia infettiva a decorso rapido che al giorno d’oggi viene combattuta con relativa facilità grazie anche alla profilassi immunitaria (vaccinazione); nell’Ottocento, però, mieteva ancora molte vittime, a causa delle condizioni igieniche precarie in cui viveva gran parte della popolazione.
Un anno dopo, nel 1855, una nuova “fiammata” epidemica: a San Benedetto del Tronto ci furono ben 374 decessi; dal borgo marinaro, l’epidemia si propagò fino ad arrivare ad Arquata (dove però non ci furono vittime) e alle sue frazioni. I morti furono 133, il 3% degli abitanti di allora, poco più di 4.300 persone.
A settembre dello stesso anno, l’epidemia terminò e la gente attribuì il fatto di essere stata risparmiata alla protezione divina. Per ringraziamento, gli arquatani fecero preparare una corona d’argento (la stessa che ancora oggi è posata sul capo del Cristo crocifisso) alla base della quale è incisa la scritta: ARQUATA COLERAE MORBO SERVATA. SALVATORI SUO DD 1855 (Arquata salvata dal morbo del colera dedicò al suo Salvatore 1855).
Per la cronaca, anche il centro costiero si affidò alla protezione celeste: il Governatore della città lesse una preghiera per l’intercessione miracolosa della Vergine, ai piedi della Statua della Madonna dell’Addolorata nella chiesa di San Benedetto Martire, al Paese Alto.
Conclusioni. Al di là del valore storico-artistico del crocifisso di Arquata, è importante l’evento del “rientro” del simulacro nella sede primitiva perché costituisce un ritorno alla normalità per la popolazione: la restituzione di un bene della comunità perché torni ad essere un punto di riferimento della stessa, nella speranza che, passata l’emergenza, si attivino le procedure per la ricostruzione e il territorio torni a (ri)popolarsi.
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