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C’era una volta
la fabbrica del ghiaccio:
le neviere della montagna

ASCOLI - Diffuse soprattutto sulla Montagna dei Fiori, erano strutture utilizzate per conservare la neve e po­terla utilizzare in caso di bisogno. In uso fino ai primi de­cenni del Novecento, alimentavano commerci e...furti. A San Benedetto si usava il ricavato per conservare il pesce
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La neviera alle Tre Caciare; a destra, la struttura ricolma di neve

di Gabriele Vecchioni

(foto di Marco Morganti, Antonio Palermi e Gabriele Vecchioni)

Sulla Montagna dei Fiori si incontrano i resti di strutture utilizzate in passato per attività la­vo­rative marginali, ormai dimenticate. Una di queste, la più nota ma non l’unica, come vedremo, si trova vicino all’ex-stazione inter­media della seggiovia, ormai diventata la “vera” stazione di partenza, dopo l’abbandono di quella che operava a San Giacomo; si tratta di una neviera, utilizzata per conservare la neve, trasformata in ghiaccio, per po­terla utilizzare in caso di bisogno. È stata in uso fino ai primi de­cenni del Novecento, nono­stante all’inizio del secolo sia iniziata la produzione del ghiaccio artificiale.

Schema di una neviera (Dis. Alberico Alesi). Queste strutture avevano un diametro di circa 10 m e potevano essere profonde fino a 20-30 m

La raccolta, la conservazione della neve (o meglio, del ghiac­cio naturale) e il suo commercio sono state pratiche diffuse nel nostro Paese fin dai tempi antichi (l’impiego della neve pressata risale all’epoca romana), ol­tre che per la conservazione degli ali­menti deperibili e la preparazione di sor­betti e granite, anche per scopi sanitari (negli ospedali, per abbassare la tem­peratura corporea in caso di febbre e per curare le contusioni) e per la bachicultura, allora fiorente in città. In que­st’ul­timo caso, la neve manteneva la temperatura bassa, impedendo la schiusa delle uova dei bachi.

Quando la neve e il ghiaccio erano l’unica fonte del freddo, i montanari realiz­zavano strutture che permettevano di conservare il prezioso materiale, protetto da materiale isolante, in appropriati depositi (le neviere, appunto), fino al­l’e­po­ca della commercia­lizza­zione (nella stagione estiva, fino a settembre), per inte­grare i magri guadagni. Era un’attività secon­daria che coinvolgeva interi nuclei familiari, so­prat­tutto nel borgo delle Piagge, ai piedi del Colle San Marco, come rievoca Antonella Alesi in un suo lavoro (“La montagna d’Ascoli. Piagge, San Marco, M. dei Fiori”, 2005), al quale si rimanda. L’autrice ricorda che «Elemento indispensabile era la nevicata che veniva invocata attraverso processioni con la Madonna Addolorata e novène (serie di preghiere) da recitare in casa da tutti i famigliari, per tre, sei e nove giorni consecutivi».

Il muro in pietra a secco (spiegazione nel testo)

Le neviere erano co­stituite da fosse ricavate sfruttando depressioni natu­rali, su versanti freschi e poco soleggiati della montagna, pre­feribilmente esposti a nord, me­glio se in sottobo­schi ombrosi o in prossimità dei bo­schi. Spesso le pa­reti della depressio­ne erano rinforzate e rialzate da muri a secco e il fondo veniva parzialmente rico­perto con pietre di forma piatta, per me­glio iso­lare la neve dal terreno: a questa tipologia appartiene la neviera più conosciuta della Montagna dei Fiori, quella delle Tre Ca­ciare. Altre strutture rinvenibili sul rilievo (la documentazione fotografica è stata gentilmente fornita dall’amico Marco Morganti), sono la neviera del bosco Giuliani (in un’area privata recintata) e quella del Monte Giammatura, non lontana dal cippo commemorativo dei caduti della lotta di Liberazione.

Neviere in località San Giacomo (particolare della “Pianta visuata nella quale si dimostra un tenimento di terra lavorativo, e sodivo faggiato di pertinenza alla città di Ascoli, e presentemente usurpato dagli Regnicoli per avere oltrepassato i Reali confini, come brevemente si descrive” di Pietro Belli Geometra, agosto 1785, dall’Archivio Sgariglia, ASAP, di Antonella Alesi)

Le neviere della montagna erano sicuramente più numerose, come riporta Marco Morganti che, insieme al compianto William Scalabroni, ha realizzato una ricerca (inedita) sul tema: «… nella parte ascolana della Montagna dei Fiori ne esistevano alcune anche a quote basse e si trovavano tra i castagneti di Piagge, San Savino e Colli di Lisciano. Esistevano neviere di proprietà privata a altre di proprietà comunale. Queste ultime venivano affittate e l’affittuario doveva garantire quanto era necessario alla città». Gli autori dello studio riferiscono che anticamente avvenivano anche dei furti di neve (!) da parte di “quelli di San Vito” («pastori, mandriani e raccoglitori di fieno abitanti nella frazione di Valle Castellana»). Queste sottrazioni rischiavano di far rimanere la città picena senza la preziosa sostanza e «nel 1790 fu aperta un’indagine da parte della Illustre Magistratura Anzianale che, pur non pervenendo ad alcun risultato, fu utile a dissuadere i ladri».

Non ci sono documenti scritti relativi ai modi di conservazione della neve all’in­terno di queste strutture e al metodo di prelievo del ghiaccio; ci si deve affidare, quindi, alla tradizione orale, anche di zone viciniori. Le operazioni si svolgevano in diverse fasi. Nel corso dell’inverno, trascorsi alcuni giorni dalle nevicate, per otte­nere un primo “as­sestamento” della neve e una certa umidità, i neva­roli (e i loro fami­liari) salivano in montagna e, dopo aver raccolto la neve per mezzo di ceste, la ri­versavano nella buca predi­sposta. Una volta immessa nella neviera, la neve era sistemata in modo tale da non la­sciare spazi vuoti che permettessero l’ingresso dell’aria, favorendo così il suo scio­glimento. Per questo, era pigiata con i piedi e con le pale, fino a ottenere uno strato compatto e uniforme. Riempito lo spazio a disposizione, la neviera era accuratamente coperta con ra­ma­glie e fogliame o, se disponibile, con paglia, per isolarla termicamente.

Nella foto d’epoca, reperibile in rete, il lavoro di compattazione della neve mediante battitura

La formazione del ghiaccio era simile a quello che avviene con il nevato, il “primo passo” nella formazione del ghiacciaio. Il nevato è la «Neve che, depostasi oltre i limiti delle nevi persistenti e accumulatasi su spessori a volte consi­de­re­voli, si trasforma lentamente in ghiaccio e dà così origine, in genere, ai ghiacciai (Enciclopedia Treccani)». In seguito al processo di metamorfismo, accelerato dalla pressione degli strati sovrastanti che scaccia l’aria, grazie alle basse temperature notturne e alle rifusioni (parziali) diurne, la neve si tra­sformava gradualmente in ghiaccio granulare durissimo, tanto che questo, al mo­mento del prelievo, doveva essere tagliato in blocchi squadrati con seghe e accétte.

Escursionista alla base della potente parete travertinosa del tavolato di Colle San Marco, vicino alla neviera

Il ghiaccio era commercializzato nelle città di Ascoli e San Benedetto (dove veniva utilizzato per la conservazione del pesce), con trasporto prevalentemente not­turno, per evitare le temperature più alte del giorno, confezio­nato in sacchi di iuta, foderati all’e­ster­no da paglia o fo­gliame. Anche in questo caso, la Alesi ci riporta un aneddoto relativo alla frazione di Ascoli, un episodio avvenuto all’inizio del secolo scorso. Per soddisfare un grosso ordine, furono esaurite le scorte delle neviere più vicine alle case e si fece ricorso a quelle di Monte Piselli. Per la grande richiesta, vennero a mancare i trasporti animali (asini e muli) e si incaricò della consegna tale Francesco Ferri, evaso (!) dalle car­ceri Ascoli, dove era recluso per il furto (avvenuto nel 1902) del polittico delle Piagge di Cola dell’Ama­trice: «Si caricò 104 chili di ghiaccio sulle spalle e lo scaricò alla stazione di Ascoli Piceno».

Anche altre zone vicine erano interessate al fenomeno. Sulla dirimpettaia Montagna di Campli, le neviere erano abbastanza diffuse e, dal paese di Battaglia, i paesani salivano al Monticchio per “racco­gliere” la neve e commercializzarla, con viaggi notturni di carri trainati da muli, fino alle pescherie di Tortoreto e Giu­lianova. Si trattava di un lavoro “secon­dario”, per arrotondare i magri guadagni; gli attrezzi usati erano costruiti alla bisogna: erano roncole e coltellacci legati strettamente a bastoni.

«Nella frazione di Battaglia, i boscaioli esercitano un’attività di venditori di neve. Nella vicina Montagna di Campli essi scavano fosse (in dialetto, li n’vire) di tre e più metri di diametro, profonde anche oltre dieci metri), e vi accumulano neve pressata che così può conservarsi fino alla fine dell’estate. La neve ghiacciata, prelevata nelle notti d’estate, viene trasportata dentro speciali casse caricate sui muli, fino al Porto di Giulianova. I pescatori utilizzano la neve della Montagna di Campli per conservare più a lungo il pesce fresco fino all’inizio del ‘900 (N. Farina, 2005)». Avveniva una sorta di baratto: in paga­mento, i battagliesi ricevevano sale e pesce salato; da questo scambio deriva la tradizione locale di offrire acciughe durante i festeggiamenti per l’abbattimento del maiale di fami­glia (nell’A­scolano, erano li ‘mmasciate).

La neviera del Giammatura

Per concludere, alcune frasi di Luigi Lopez, che in un interessante lavoro relativo all’area del massiccio calcareo abruzzese del Sirente (1991), così ricordava: «Ogni centro abitato aveva la sua neviera, quando neve e ghiaccio erano l’unica fonte del freddo: in qualcuno di essi la raccolta della neve metteva in moto una non disprezzabile attività economica, […] dove i nevaroli fin dal ‘500 erano soliti risalire il Sirente nel quale uno sprofondo a forma di imbuto costituiva il frigorifero naturale, in cui quelli si calavano con scale e con corde per tagliare con asce e coltelli la neve ghiacciata, che riportavano al paese con gerle di vimini sul dorso di asini e muli. Tutto il paese era impegnato, anche le donne e i bambini, che costruivano gerle e sacchi e sistemavano “cama” o pula, in assenza di queste, foglie secche come isolante […]». Dall’area sirentina, soprattutto da Secinaro (il paese dei “nevaroli”), il ghiaccio veniva trasportato fino alla costa e, da lì, arrivava in Puglia, fino a Bari.

La neviera al bosco Giuliani, alle Piagge

Lucia Lo­priore, studiosa della storia moderna della Puglia settentrionale, riporta un divertente aneddoto re­lativo alla società che ruotava intorno alle neviere: «In dicembre non s’era ancora visto un fiocco di neve e il povero nevieraio, preoccupandosi che ai suoi pargoletti durante l’estate sarebbero mancati i più indispensabili mezzi di vita, si recò presso la balaustra del­l’altare della Madonna sua protettrice, e battendosi in petto e senza alcun rispetto umano cominciò a implorare la grazia di abbondanti nevicate senza preoccuparsi, nella disperazione della sua richiesta, se vi fossero persone presenti. Supplicò: “Madonna mia, fai nevicare!”. Il Michelantonio, che stava nell’adiacente sacrestia e che proprio in quell’anno aveva un’abbondanza di arance, temendo che un eventuale gelo danneggiasse il prodotto del suo latifondo, uscì dalla sacrestia e volgendosi al nevieraio lo apostrofò duramente: “Ehi tu, cosa stai dicendo?”. E il nevieraio, in risposta: “E tu cosa vuoi da me? Non sai che danno subirei io con la mia famiglia se non nevicasse? Ai figli miei chi darebbe un tozzo di pane durante l’estate? Fammi pregare la Madonna mia e tu vai a pregarti San Valentino che è il patrono degli aranceti”. A tali parole l’alterco ebbe fine».


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