di Gabriele Vecchioni
(foto di Umberto De Pasqualis e Gabriele Vecchioni)
Macchia da Sole (frazione di Valle Castellana) è un borgo il cui nome deriva dal termine latino medievale maccla (da macula, “macchia” di alberi); la seconda parte del toponimo dipende dall’esposizione a meridione dell’incasato. Nel villaggio ci sono una fontana trecentesca, il Palazzo del Conte e la Casa del Parco, ormai in disuso ma che ospitava un interessante Antiquarium con i reperti provenienti dal sito archeologico del Castello. Come altri centri appenninici, il borgo ha sofferto lesioni dovute al recente sisma e ha subìto un grave spopolamento che ha compromesso ogni iniziativa di rilancio del territorio. Anche in questo caso, occorre agire al più presto per evitare che la località diventi un “deserto”: le potenzialità di ripresa ci sono perché il posto offre splendidi panorami e un potente attrattore turistico, Castel Manfrino, l’antico Castrum Macclae.
La costruzione è arroccata su un promontorio roccioso, tra la mole imponente della Montagna dei Fiori (versante meridionale) e, sul lato opposto, il Foltrone (la Montagna di Campli). Il recinto fortificato è munito di un torrione, un maschio centrale e una torre angioina, risalente alla fine del Duecento e posta a difesa dell’accesso alla fortificazione.
L’imponente avanzo del castello di Macchia conserva ancora il primo livello, l’ampia cisterna interrata e resti dei muri, alti circa 12 metri. Nei castelli, il maschio (o mastio) era la residenza del castellano e l’ultimo riparo, in caso di cedimento delle difese esterne; spesso costituiva il nucleo primitivo del castello. Parte della costruzione (le coperture, i solai, le scale) era di legno e non ha resistito al trascorrere del tempo.
Qui passava il confine tra lo Stato pontificio e il regno svevo-normanno dell’Italia meridionale, come ricorda il nome scelto dal Parco Gran Sasso-Laga per il comprensorio (Distretto dei due Regni, articolo precedente, leggilo qui). La suggestione del luogo, raggiungibile, oltre che dalla Provinciale Piceno-Aprutina, anche dalla malridotta strada per San Vito di Valle Castellana, e assai panoramico (la vista spazia dalla chiostra montana fino alla costa adriatica), ne ha fatto uno dei siti più frequentati del Parco.
Il castello si trova su un costone roccioso poco discosto dall’incasato, tra il torrente Salinello, proveniente dall’area del Monte della Farina, e il Fosso del Lago, che scende dalle Cannavine, alla base della Montagna dei Fiori.
La prima testimonianza scritta relativa al fortilizio, menzionato nel Catalogus Baronum normanno e in un carteggio angioino (fine del sec. XIII), è del 1269, quando Carlo I d’Angiò dispose che fossero pagate le guarnigioni dei diciotto castelli d’Abruzzo: nell’elenco compare il castello di Macchia (uno dei più importanti, considerando il numero di armati – circa 200 – della guarnigione). Dato che esso non è presente nell’elenco dei cinque esistenti nel 1245 (al tempo di Federico II di Svevia) si può presumere che sia stato edificato all’età di Manfredi, figlio naturale dello Stupor mundi. In un documento del 1277 si attesta la presenza stabile, in loco, di un cappellano, titolare del luogo di culto della fortificazione.
La storia del castello fu ricostruita da Nicola Palma, illustre storico teramano dell’Ottocento, che sostenne la preesistenza, sul luogo, di un castrum romano che controllava la “via del sale”, occupato dai Longobardi all’epoca della loro invasione. Sui resti della costruzione, Manfredi di Svevia (1233-1266), figlio naturale di Federico II e suo erede, avrebbe fatto costruire il fortilizio (il nome “Castel Manfrino” deriva dal diminutivo del nome del re Manfredi, Manfredino, Manfrino). Recenti scavi archeologici sembrano però smentire la ricostruzione, almeno quella riguardante la parte più antica (non ci sono resti di epoca romana).
La fabbricazione iniziò nel 1263, sotto la guida del generale Percivalle d’Oria; la scelta del luogo era dovuta alla volontà del sovrano di rafforzare la cerniera difensiva che univa la Valle Castellana alla futura Rocca di Civitella del Tronto, nella convinzione (risultata errata) che le armate di Carlo d’Angiò invadessero il Regno di Sicilia seguendo la via naturale delle gole del torrente Salinello.
Assedio e caduta del Castello. L’interessante episodio dell’assedio e della caduta del Castello è stato raccontato in un piccolo volume, Macchia e il suo territorio (G. Vecchioni e N. Galiè, 1993), ormai introvabile. Rivisitiamo l’episodio.
Dopo la sconfitta di Manfredi nella battaglia di Benevento (1266) il castello passò ai vincitori angioini e fu dato in feudo a Pierre de l’Isle; gli Ascolani lo recuperarono e lo “restituirono” al dinasta Armellino. Carlo d’Angiò, fratello del Re di Francia, chiamato “in aiuto” dai papi Urbano IV e Clemente IV (entrambi francesi), ordinò al Giustiziere d’Abruzzo di riconquistarlo.
L’assedio iniziò nell’autunno del 1272 e si protrasse per sei mesi, fino alla primavera dell’anno successivo: gli assedianti trascorsero l’inverno a costruire due bastides (sorta di castelli lignei in miniatura), a monte e a valle della rocca, e macchine da guerra per abbattere le mura del castello. L’ordine d’attacco fu dato dal capitano Matteo du Plexis il Lunedì di Pasqua del 1273, che aveva visto un’anomala nevicata: le baliste aprirono una breccia nelle mura e i soldati si precipitarono all’interno del fortilizio… e non trovarono nessuno! Lo “strano” evento è all’origine delle storie che narrano di scale e cunicoli scavati nella roccia: certo un passaggio segreto doveva esserci se duecento assediati erano riusciti a dileguarsi nel nulla sotto il naso di più di mille assedianti. Addirittura, uno dei capi della rivolta, Rinaldo della Macchia, era fuggito già da qualche giorno, approfittando di un’altra imprevista nevicata.
Il Giustiziere avvertì il re della “strepitosa vittoria” ottenuta e quest’ultimo fece riparare l’edificio: nel 1281, Re Carlo d’Angiò ordinò la costruzione di una massiccia torre a base quadrata, su progetto dell’architetto Pierre d’Angicourt (per inciso, la presenza di quest’ultimo personaggio è attestata anche alla Rocca di Montecalvo, i ruderi della quale sovrastano la frazione di San Paolo, nell’Acquasantano, nell’antico feudo della famiglia Guiderocchi).
Sull’antica linea di confine settentrionale del Regno erano allineati i castelli di Pietralta, Macchia, Civitella del Tronto, Rocca di Morro e Colonnella. «La rocca conservò una notevole importanza strategica fino agli inizi del Cinquecento, quando l’uso della polvere da sparo per scopi bellici ne sminuì la funzione e dichiarò quindi la progressiva decadenza di tutte le fortezze con tali caratteristiche (Fai, I luoghi del cuore, 2020)». L’appartenenza a tale linea difensiva dava al Castello di Macchia grande importanza strategica, e ha favorito la fioritura di racconti, tra storia e leggenda, che ancora lo caratterizzano.
Le leggende legate a Castel Manfrino saranno argomento di un articolo successivo; qui, una breve anticipazione. Diverse storie fantastiche hanno come location il Castello. Oltre a quella “classica” che vuole il fantasma di Manfredi aleggiare tra i ruderi (il giornalista-scrittore teramano Fernando Aurini scrisse, nel 1951, che «… è passato qui re Manfredi, e la sua anima erra ancora, a notte, senza pace, tra le rovine del suo castello alla Sagannàta»), una tradizione narra che i resti della fortezza siano sotto la diretta “protezione” di Satana: il solo pensiero di un incontro con il Diavolo avrebbe dovuto sconsigliare i malintenzionati.
Nelle immediate vicinanze del castello esisterebbe poi una cavità naturale, non ancora individuata, chiusa dalla “Porta di Ferro”, che nasconde un tesoro in monete di rame, d’argento e d’oro, vegliato da un frate, alle dirette dipendenze di una fanciulla che, vestita di bianco, tesse giorno e notte. Nel lontano 1896, Giulio Gabrielli riportò, su L’Acerba, un aneddoto relativo al Castello, riferendo, «per inteso dicere», la storia di un pecoraio venuto in possesso, «in fortunate circostanze», di un tesoro seppellito tra le rovine (quello del tesoro nascosto è un must dei castelli abbandonati e Castel Manfrino è uno di questi).
La storia più poetica vuole che il Castello sia collegato, tramite un lungo cunicolo sotterraneo, a Castel Trosino, borgo situato sull’altro versante della Montagna dei Fiori: Re Manfredi lo avrebbe utilizzato (percorrendolo a cavallo!) per raggiungere la sua amante di origini longobarde, che abitava appunto nel villaggio, nella casa che la gente chiama ancora la “Casa della Regina” (o “Casa de Manfrì”).
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