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Delitti e tesori:
le leggende del Castello di Macchia

TANTE LEGGENDE sono nate attorno a Castel Manfrino, spettacolare costruzione situata all'interno del Parco Nazionale Gran Sasso-Laga. Dalla Porta di Ferro con il suo forziere d'oro fino ai cunicoli sotterranei che condurrebbero quasi fino ad Ascoli, a Castel Trosino
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Castel Manfrino

di Gabriele Vecchioni

Un articolo precedente (leggi qui) era dedicato al castello medievale di Macchia da Sole, situato a circa 1.000 metri di quota, alto su una rupe, a guardia della valle del Salinello. Il posto è raggiungibile con una comoda carrozzabile che risale la valle stessa; è assai panoramico ed è uno dei siti più frequentati del Parco Nazionale Gran Sasso-Laga.

I ruderi del castello. Sullo sfondo, la mole imponente del Monte Foltrone. A destra, l’Osso caprino

In questo pezzo viene approfondito un tema relativo ai ruderi del maniero, raccontando alcune delle storie fantastiche che sono nate intorno a quei resti: un piccolo contributo alla conservazione della cultura orale e del patrimonio favolistico delle nostre aree interne.

Il fortilizio. Per chi non volesse (ri)leggere l’articolo relativo, ricordiamo che il Castello di Macchia, più noto come Castel Manfrino, è una costruzione sveva con un torrione e un maschio centrale (sec. XII), arroccata su un promontorio roccioso tra il torrente Salinello e il Fosso del Lago, con una torre angioina, risalente al 1281 e posta a difesa dell’unico accesso alla fortificazione; qui passava il confine tra lo Stato pontificio e il regno svevo-normanno dell’Italia meridionale.

L’incoronazione di Manfredi di Svevia come Re di Sicilia (nel 1258) in una miniatura della Nuova Cronica di Giovanni Villani (prima metà del XIV sec.)

L’origine delle leggende. Prima di trattare delle leggende legate al Castello, una riflessione (valida per ogni luogo) per spiegare come esse sono nate. Tempo fa, nella prima edizione della Guida ai Monti Gemelli, della quale sono coautore, un brano, che mi piace riportare integralmente (è breve…), chiariva l’assunto: «Molte delle leggende dell’area della montagna insistono su fenomeni paurosi o, comunque, legati allo spavento. C’era una sorta di “educazione alla paura”, soprattutto nel periodo invernale, di fronte al fuoco, quando i vecchi raccontavano ai bambini storie di timore legate a luoghi particolari, “vietati”; erano racconti relativi a boschi da attraversare, grotte nelle quali entrare, burroni nei quali cadere, ruderi tra i quali scavare: il racconto della paura dell’ignoto era forse un invito alla prudenza, un modo si preparare i piccoli alle asprezze della vita».

La Casa della Regina a Castel Trosino

I cunicoli del castello. Una tradizione vuole che il Castello sia collegato tramite un lungo cunicolo con Castel Trosino, utilizzato da Re Manfredi per raggiungere (a cavallo!) la sua amante, una donna di origini longobarde che abitava nel borgo. Non esistono prove della veridicità della storia, ma la gente ha dato il nome di Casa della Regina o Casa de Manfrì a una delle poche abitazioni medioevali ancora esistenti nel luogo. Il nome deriva dal diminutivo dialettale di Manfredi (Manfredi – Manfredino – Manfrino – Manfrì).

È poco probabile l’esistenza di una galleria sotterranea lunga diversi chilometri e abbastanza larga da poter essere percorsa da un cavaliere, ma la tenace persistenza di questa tradizione fa ritenere che qualche cunicolo o sentiero o via nascosta dovesse esserci.
Più credibile la presenza di una via di fuga sotto il maschio svevo del Castello, alla quale si accedeva con uno stretto passaggio, e che conduceva al letto del torrente. Un’altra storia, anch’essa fantastica, narrava di un collegamento sotterraneo con la fortezza di Civitella, con la quale il castello era in collegamento visivo, tramite un torrione “intermedio”, nella zona delle Rocche.

I tesori del castello. La presenza di tesori occultati in luoghi abbandonati (e Castel Manfrino è uno di questi) è un “classico”. Un detto dei montanari della zona recita: «Se si sfascia l’Osso caprino, tutto il mondo va in quattrino» (l’Osso caprino è il rilievo dalla forma particolare che si trova proprio di fronte al castello, dall’altra parte della strada), a ricordare l’esistenza di qualche ricchezza nascosta tra i resti del fortilizio.

Gregge al pascolo nei pressi del castello

Il Diavolo a guardia dei ruderi. La leggenda vuole che i resti del Castello siano sotto la diretta “protezione” di Satana. Il solo pensiero di un incontro con il Principe del Male a­vrebbe dovuto sconsigliare qualunque iniziativa, ma l’avidità della gente non conosce ostacoli e così un paesano si recò a scavare tra le rovine, favorito dall’oscurità, in cerca di fortune nascoste. Mentre era intento a frugare tra le macerie, da un buco uscì una piccola figura che crebbe in maniera esagerata, diventando in breve una specie di gigante: era il Diavolo che colpì il malcapitato con uno schiaffo talmente forte che il poveretto, terrorizzato, si ritrovò sbattuto sulla strada che porta a Leofara, a diversi chilometri di distanza! Anche in questo caso, è possibile pensare a una spiegazione “logica”, ipotizzando una sosta del personaggio narrante in qualche osteria, prima di recarsi ai ruderi del castello.

Ruderi del castello (resti della cappella)

È interessante ricordare che una storia simile si racconta anche dalle parti del Monte dell’Ascensione. Questa volta la ricerca riguardava il tesoro di Polisia e il demonio sarebbe “cresciuto” tanto, da poggiare un piede sul Monte Nero e un altro sulla Montagna dei Fiori.

La Porta di ferro. Nelle immediate vicinanze del Castello esisterebbe una cavità naturale chiusa da una porta di ferro; al suo interno è custodito un tesoro in monete di rame, d’argento e d’oro. Nella grotta c’è una fanciulla vestita di bianco che tesse giorno e notte (altro must); anche in questo caso, c’è una storia simile per il l’Ascensione, con Polisia che tesse nelle cavità della montagna, in compagnia di una gallina d’oro e dei suoi pulcini.

Il castello dal versante meridionale della Montagna dei Fiori. Sul fondovalle, Macchia da Sole (a destra) e Macchia da Borea (sullo sfondo)

A questo punto, è necessaria una parentesi relativa proprio a questa gallina aurea. La leggenda della gallina e dei pulcini d’oro viene tramandata in diverse località italiane dalla Toscana (ce ne sarebbe stata una nella tomba di Porsenna, lucumone di Chiusi) alla Puglia e alla Sicilia. La “nostra” storia sembra però derivare dalla splendida opera di oreficeria conservata a Monza e nota come “La Pitta (gallina) di Teodolinda”: avrebbe, quindi, matrice longobarda, appartenente alla tradizione di un popolo che dalle nostre parti ha lasciato diverse testimonianze.
Tornando alla fanciulla-fata, solo lei, con una bacchetta («la bague o le rameau d’or di simili leggende», G. Pansa, 1917), può dare l’ordine al frate che è a guardia del tesoro di aprire la porta, chiusa da un pesante catenaccio.

Il racconto vuole che, un tempo, proprio questo frate abbia dato la Regola per accedere al tesoro a una famiglia del luogo, scelta tra le più povere e oneste. Il precetto non era altro che una raccomandazione di prudenza, in quanto dava la possibilità di prendere, ogni triennio, la quantità voluta di monete ma nell’ordine prescrìtto (rame, argento, oro).

La storia tramanda anche il testo di questa Regola: «Vi vada solo ne la notte fonda, ogni tre anni, prenda a sua possa, nel primo triennio monete di rame, nel secondo monete d’argento, nel terzo monete d’oro; così nella successione dell’eredità, sempre, senza fine».

La Porta di Ferro descritta dal Pannella (spiegazione nel testo)

La voce popolare narra che un discendente, ingordo, si caricò di monete d’oro fin dal primo anno del suo turno. La punizione fu terribile: nel momento in cui egli cercò di uscire dalla grotta, la Porta di Ferro si richiuse fragorosamente, tagliandolo letteralmente in due! Da allora, nessuno ha più (ri)trovato la Porta.

Per quanti volessero cimentarsi nell’impresa di cercare il misterioso tesoro (alcuni lo ubicano all’Osso Caprino, di fronte al Castello), ecco un brano scritto da Giacinto Pannella per la Rivista Abruzzese (XII/1897), dove l’autore descrive la sua ricerca, effettuata insieme a tale Iannetti: «… e noi già ci precipitiamo a toccare il fondo del Salinello in cerca de la Porta di Ferro, che non si può aprire, perché, dicesi, chiude una grotta piena di Tesori. Tra piante, tra massi scendiamo con la corrente, intenti a trovare la Porta di Ferro; ma, dopo una buona mezz’ora di arrampicamento siamo stretti dalle pareti perpendicolari che con un enorme masso ne sbarrano la via del letto, e la corrente precipita giù a cascatella. Lo spettacolo è magnifico, ma non si può più ire avanti, e conviene rinunciare alla Porta di Ferro e tornare sui nostri passi; allora ci indirizziamo da mezzogiorno al Castello, rimontando la sponda sinistra».

Il pecoraio fortunato. Più che una leggenda, questo è un aneddoto, narrato da Giulio Gabrielli in un articolo su L’Acerba, nel lontano 1896. L’erudito ascolano riporta la testimonianza di un non meglio identificato «zoppo di Macchia» che racconta, «per inteso dicere», la storia di un pastore coinvolto, suo malgrado, in una vicenda misteriosa. «Un pecoraio, raccogliendo il gregge alla sera si accorse di aver perduto una pecora; per tema della bastonatura che gli avrebbe senza pietà applicata il padrone, si astenne dal tornare alla cascina, e si nascose tra i ruderi del “castello de lu re Manfrì”, onde passarvi alla meglio la notte. Ad ora inoltrata, vide entrare due persone cariche di pesanti sacchi, deporli in un canto, e darsi a tutt’uomo a cavare una profonda fossa. Compiutale e vuotatovi il contenuto dei sacchi, comandò il più grande al compagno di scendervi dentro onde accomodarvi la roba. Vi scese il disgraziato senza sospetto, ma nel mentre stava chinato, né poteva accorgersi del tradimento, ricevette una pistolettata a bruciapelo e cadde fulminato entro la fossa. L’omicida, fatto ciò come cosa naturalissima, poiché credeva in tal modo assicurato il segreto e un guardiano al tesoro, colmò la fossa e se ne andò, con quanta soddisfazione del pecoraio, che avea involontariamente assistito alla orribile scena, lo pensi chi si fosse trovato al suo posto. Non occorre aggiungere che il tesoro venne tolto dalla fossa lasciandovi il morto, e da quel tempo nel paese della Macchia vi fu un pecoraio di meno e una famiglia ricca di più».


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