di Gabriele Vecchioni
I mestieri tipici della gente di montagna erano legati alla pastorizia e all’economia del bosco; nell’area dei Monti della Laga e in quella dei Monti Gemelli erano diffuse attività legate alla produzione di legna da ardere e del carbone.
Quest’ultima occupazione, poeticamente descritta da Gabriele D’Annunzio nell’Alcyone («Sui pianori selvosi ardon le carbonaie, solenni fuochi in vista», 1902) non costituiva, da sola, una fonte di reddito sufficiente al mantenimento: serviva quindi per integrare il magro bilancio familiare. Era un lavoro duro e impegnativo, effettuato da specialisti che dovevano restare nei boschi il tempo necessario alla preparazione della catasta di legna (la carbonaia vera e propria) e al governo del fuoco.
Nella nostra zona, il centro che, più degli altri, ha legato il nome alla produzione artigianale del carbone di legna è Colle, la frazione più elevata (974 metri) di Arquata del Tronto; fino a poco tempo fa, era possibile imbattersi in carbonaie approntate già nelle immediate vicinanze dell’abitato. Anche Colle, come altri centri della nostra montagna, ha subìto danni notevoli a causa del sisma del 2016-17, che hanno modificato lo stile di vita degli abitanti anche se qualcuno, in maniera pertinace, cerca di mantenere viva la tradizione.
Nel vicino Maceratese, un’area vocata era Cessapalombo, dove esiste un interessante Museo delle Carbonaie nel settecentesco Palazzo Simonelli, nella frazione Tribbio di Montalto. Ad Ascoli Piceno, fino agli anni ‘50 del Novecento, i carbonai della vicina Valle Castellana consegnavano a domicilio il carbone per i fornelli (in molte case c’erano ancora le “fornacelle”), usando fondaci affittati nel quartiere alto della città (la Piazzarola) come punto di appoggio per la merce e per gli animali da soma.
L’arte di “trasformare” il legno in carbone è conosciuta fin dall’antichità (sono stati i Fenici a diffonderla nell’area mediterranea, come ausilio alla lavorazione della ceramica e del vetro) e i carbonai erano autentici maestri del fuoco, per la conoscenza dell’equilibrio sapiente che permetteva al fuoco di “cuocere” la legna (spesso, l’operazione era chiamata “la còtta”) nella rustica fornace della carbonaia e trasformarla in carbone.
Una premessa. Prima di analizzare la costruzione della carbonaia e il lavoro indotto, è necessaria una premessa. L’utilità della produzione di carbone, diffusa in tutto il mondo, deriva dal fatto che il prodotto è più leggero (di circa 5 volte) della legna dalla quale si ottiene, e meno ingombrante; fino a metà del Novecento, il carbone è stato largamente adoperato anche in città per usi casalinghi.
Le carbonaie permettevano, inoltre, di sfruttare aree boschive marginali, cedui acclivi e mal ubicati, come ben descrive questo brano (A. Porto, V. Battista, 1994): «La carbonizzazione rende possibile l’utilizzazione dei boschi da combustibile sfavorevolmente ubicati rispetto alle vie di smacchio (in quel caso, sono particolarmente difficili le operazioni di trasporto delle piante abbattute fino al luogo di raccolta e di carico) e di trasporto (la legna, trasformata in carbone, subisce una diminuzione di peso intorno ai 4/5)».
Senza addentrarci in complicati discorsi tecnici, giova ricordare che il carbone vegetale, prodotto con la “cottura” di legname proveniente da boschi, brucia senza odori; quello industriale è di minore qualità perché viene prodotto utilizzando legname di scarto.
La costruzione della carbonaia. Nella stagione propizia, i carbonai salivano per i sentieri della montagna e, individuata una zona idonea ai margini del bosco, creavano aree piane (le “piazze”), spesso sostenute da muretti a secco (alcune di queste sono ancora rinvenibili, con tracce del carbone prodotto). La preparazione era laboriosa perché dalla precisione del livellamento dipendeva l’omogeneità della combustione e, quindi, la qualità del prodotto finale.
Una volta preparata l’area, veniva tracciata, con uno spago fissato a un perno, una circonferenza che costituiva il limite esterno della struttura. Si costruiva poi la carbonaia, accumulando verticalmente tronchetti di faggio e di altre essenze vegetali (càrpino, orniello, roverella; dal leccio si otteneva il pregiato “cannello”) di un metro circa di lunghezza e di pezzatura decrescente (per “chiudere” man mano gli spazi tra i vari tondelli), fino ad arrivare al limite segnato sul terreno.
Si veniva così a formare un solido emisferico (la cupola) alto circa 2 metri, che veniva coperto da uno strato di foglie e di terra (il mantello), spesso una trentina di centimetri. Il fogliame chiudeva gli interstizi tra i tronchetti e le zolle di terra umida isolavano la struttura dall’aria, impedendo alla combustione di procedere troppo rapidamente e alla legna di bruciare. Per terminare la costruzione della struttura erano necessari 4-5 giorni.
L’accensione della carbonaia. Una volta coperta di terra, la catasta veniva “accesa”, con l’introduzione di brace ardente nel camino costruito al centro della struttura, alimentando la combustione con l’immissione di legname di piccola pezzatura. Veniva così innescato un processo di combustione in carenza di ossigeno che portava alla carbonizzazione del legno. L’avvenuta carbonizzazione veniva annunciata dal cambio di colore del fumo che usciva dalle “fumarole” (come spiegato in seguito). Il processo completo riduceva il peso della legna e facilitava la lavorazione e il trasporto del prodotto finito. Tra accensione e “governo della piazza”, il tempo necessario per completare la produzione di carbone servivano circa 15 giorni di lavoro continuativo.
La formazione del carbone. Il processo di formazione del carbone si basa sull’isolamento del legno dall’aria, per evitare che l’ossigeno incendi la carbonaia. La “cottura” (il termine tecnico del processo è “pirolisi”) avviene a temperature comprese tra i 400 e i 500°C, in tre fasi: fino a 150°C avviene la disidratazione del legno e la liberazione di oli essenziali (o eterici, ricchi cioè di “essenze”); tra i 150 e i 250°C si disperdono i gas (principalmente anidride carbonica e ossido di carbonio) e si distillano liquidi acquosi; tra i 250 e i 500°C avviene la pirolisi vera e propria e vengono liberate tutte le sostanze volatili. L’odore diventa pungente, per la presenza di acido acetico.
Vicino alla parte sommitale della struttura vengono praticati dei fóri, per facilitare la combustione. Man mano che la “cottura” procede si fanno altre aperture, più in basso, per “spostare” la combustione. Il fumo che esce serve a capire se il “lavoro” è terminato, cioè se il carbone è pronto.
Ancora Porto e Battista descrivono questo metodo, empirico ma preciso; scrivono infatti: «Quando la carbonaia è accesa e la temperatura interna supera i 100 gradi, per prima cosa si vede uscire dai fori fumo biancastro carico di vapor d’acqua (fase di essiccazione); successivamente, si ha fuoriuscita di fumo denso giallo-bruno, di odore catramoso (fase di distillazione) e, infine, di fumo bianco azzurrognolo trasparente, denotante che il processo di carbonizzazione è ultimato; ha inizio quello dannoso della combustione». I carbonai esperti, appoggiando le mani sulla struttura e premendo, “sentono” il caratteristico scricchiolio della legna carbonizzata.
La lenta operazione di carbonizzazione andava sorvegliata giorno e notte con attenzione, per evitare che la legna, attizzata dalle brezze notturne, prendesse fuoco e la carbonaia si incendiasse, mandando in cenere il materiale accatastato e il lavoro svolto. Si lasciava poi raffreddare l’impianto; successivamente, la carbonaia veniva smantellata in 1-2 giorni (la cosiddetta “scarbonatura”) per poter recuperare il carbone che, posto in sacchi di iuta, veniva trasportato a valle a dorso di mulo, per essere commercializzato. Per produrre un quintale di carbone serviva mezza tonnellata di legna più altri 200 chili circa per tenerla accesa il tempo necessario.
Una riflessione. Le carbonaie sono ormai in disuso per l’arrivo di nuove forme di riscaldamento e di cottura del cibo (l’elettricità e il gas) che hanno reso obsoleto questo lavoro. La produzione di carbone per mezzo delle carbonaie è diventata un’attività quasi museale più che produttiva; è però importante, soprattutto per ragioni di memoria storica, conservare il ricordo di tali attività lavorative, anche se ormai residuali.
Perché interessarci di cose ormai perdute? Ci risponde un poeta, Andrea Zanzotto (1921-2011): «Come la traccia scritta lasciata dall’uomo, è memoria il canto di un uccello nel bosco, lo spirare del vento o il rombo della valanga. Lo è soprattutto l’eco misteriosa di una lingua che era in noi e che noi abbiamo perduta….
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