di Gabriele Vecchioni e Narciso Galiè
(foto di Antonio Palermi e Gabriele Vecchioni)
«Una moltitudine di persone ha frequentato i sentieri della Montagna dei Fiori, luogo storico per eccellenza. Re e papi, monaci ed eremiti, soldati e briganti, carbonai e pastori, viandanti e partigiani, tutti hanno lasciato una traccia sulla sua “pelle”.
Tra i segni più duraturi, le caciare (capanne a tholos), testimonianza del lavoro umile dei pastori, sentinelle silenziose del paesaggio, che stupiscono per il loro mirabile equilibrio e per la discrezione elegante con la quale si inseriscono nelle solitudini montane».
Questa frase concludeva, in quarta di copertina, il volumetto che, nel 2013, realizzammo per conto della Provincia di Ascoli Piceno, nell’ambito di una manifestazione del benemerito Festival dell’Appennino.
Abbiamo voluto inserirla all’inizio dell’articolo perché essa presenta in maniera significativa le capanne di pietra a secco, segni vigorosi della presenza antropica, testimoni del tempo e guardiane della memoria identitaria del territorio.
In una pubblicazione del 2003, Giuseppe Gisotti individuò le aree geografiche che, più delle altre, sono legate alla presenza dei manufatti conosciuti come “capanne di pietra a secco”. Scrisse infatti che «Una regione dove sono diffuse le capanne di pietra a secco è l’Abruzzo, ove sono concentrate in tre aree montane: Montagna dei Fiori, al confine con le Marche, poi i massicci montuosi del Gran Sasso meridionale e della Maiella. Su tali versanti si conservano ancora i resti di migliaia di piccole capanne, rifugio per contadini e pastori nei lunghi mesi di duro lavoro ed isolamento». La nostra zona è una di quelle dove ancora sono presenti questi segni della presenza dell’uomo, memoria (quasi) indelebile del duro lavoro dei pastori.
La pastorizia sulla Montagna dei Fiori è stata favorita dalla presenza di vasti pascoli d’altitudine, cenòsi di sostituzione ricavate da aree occupate in origine dal bosco e popolate dalle graminacee. A servizio di questi prati usati dalle greggi di ovini, sorgono questi manufatti di pietra, conosciuti localmente come caciare.
Le capanne di pietra a secco sono costruzioni monocellulari col tetto a falsa cupola, edificate utilizzando anelli concentrici di pietre, a diametro decrescente e posizionati orizzontalmente uno sull’altro, di solito chiuse in cima da una pietra piatta. Sono costruzioni alzate quasi senza lavori preparatori, semplicemente “appoggiate” sul terreno; sono stati costruiti sfruttando una serie concomitante di condizioni; in particolare, la facile reperibilità in loco di materiale calcareo affiorante (o legato alle operazioni di spietramento per il miglioramento fondiario); l’utilizzazione della statica, semplice e intuibile, della falsa cupola (sistema trilitico); l’imitazione dell’esempio costruttivo pugliese, imparato nel corso della pratica della transumanza.
Il nome e la forma. Il termine greco tholos deriva dalla voce indoeuropea dol, che designava un edificio “curvo”. L’ispirazione, probabilmente, venne all’ignoto costruttore dal primo riparo dell’uomo, la caverna, tanto che qualcuno ha definito queste realizzazioni “caverne artificiali”. Dall’osservazione della cavità ipogea è venuta l’idea della capanna a tholos, tramandata poi dall’uso e dalla preferenza accordata alla pietra come materiale da costruzione e al volume curvo rispetto a quello angolato.
Altri nomi, oltre a quello già ricordato di caciare (prettamente locale), sono casali (dal latino casula, casetta), capanne trulliformi (che richiama i trulli pugliesi), capanne a strobilo (quelle ogivali ricordano, infatti, il frutto delle conifere).
L’archetipo e il metodo di costruzione. Non è possibile, in queste brevi note, analizzare in maniera compiuta l’evoluzione architettonica e la diffusione nel continente europeo delle capanne di pietra. Ricordiamo solo che l’archetipo delle capanne a tholos è considerata la monumentale “Tomba del re” (o “Tesoro d’Atreo”, risalente alla tarda Età del Bronzo, 1000 AC circa), munita anche di un corridoio di accesso (il dròmos). Nel caso delle capanne a tholos, gli edifici, ben più modesti ma con una propria dignità estetica, sono stati progettati e innalzati da “dilettanti”, definiti “pastori-architetti” dallo studioso Edoardo Micati.
Il sistema utilizzato è quello trilitico, nel quale il peso dell’architrave si divide in due carichi equipollenti (dello stesso valore) che si scaricano sui piedritti, sollecitati a compressione. Il carico sovrastante causa lo schiacciamento dei piedritti, evento che viene contrastato dalla resistenza dovuta alla natura del materiale (la pietra).
La datazione di questi edifici è relativamente recente: la maggior parte risale a 80-100 anni fa circa; qualcuna è databile a 100-150 anni fa e in due sole, situate nei pressi di Lisciano (piccola frazione del comune di Ascoli Piceno) sono rinvenibili date incise sugli architravi (1732 e 1749). La maggior parte delle capanne a tholos della Montagna d’Ascoli è stata costruita, quindi, tra i secc. XVIII e XX, per l’incremento demografico che spingeva a utilizzare terreni detritici prima trascurati e al miglioramento dei pascoli mediante bonifica dalle rocce calcaree: sono così deluse le aspettative di quanti vedono in essi i resti di civiltà antichissime. Le capanne di pietra dei Monti Gemelli erano state descritte, già nel 1898, in una pubblicazione del canonico teramano Giacinto Pannella che, nell’esposizione, utilizza un aggettivo desueto (“conteste”) intendendo rappresentare le pietre dei manufatti come “intrecciate”.
Se la costruzione è recente, non lo è però il metodo costruttivo. È affascinante pensare che una tecnica costruttiva sia rimasta sempre uguale per millenni (importata o riscoperta). L’abruzzese Edoardo Micati, uno dei massimi esperti di architetture in pietra a secco delle nostre montagne, afferma che «tale continuità culturale ha maggior valore del manufatto stesso». La lunghissima storia di questo sistema di fabbricazione, praticamente senza mutazioni sostanziali, dimostra la sua validità e la profonda radicazione nella cultura popolare (sulla Montagna dei Fiori si sono costruite capanne di pietra fino agli anni ’60).
L’uso della pietra a secco (cioè senza materiale legante) per costruire opere fisse è conosciuto fin dal Paleolitico, quando già si alzavano muri a secco di confine e di difesa. Ricordiamo che l’Unesco (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura) ha dichiarato recentemente (nel 2018) “patrimonio immateriale dell’umanità” i muri a secco dell’area mediterranea (l’arte del dry stone walling ha prodotto, solo in Italia, manufatti che si sviluppano per ben 174000 chilometri lineari!).
Conclusioni. Le capanne a tholos sono una tipica manifestazione di architettura spontanea, legata a esigenze del luogo ed espressione della cultura locale. Manca una documentazione storica e, di conseguenza, è difficile conoscere con esattezza il periodo di “nascita” delle capanne pastorali della Montagna dei Fiori. C’è da rimarcare, inoltre, il “mistero” costituito dal fatto che le costruzioni, così numerose in alcune zone del vicino Abruzzo (sul massiccio della Maiella sono circa settecento!) sono completamente assenti in aree limitrofe e con caratteristiche simili per conformazione geomorfologica e analoghe dal punto di vista culturale, per la presenza di attività legate all’allevamento ovino (il riferimento è ai Monti Sibillini).
Perfettamente inserite nel contesto ambientale, le capanne di pietra a secco della Montagna dei Fiori non costituiscono un tipo di struttura monumentale nel senso classico del termine, ma sono un interessante esempio della cosiddetta “architettura vernacolare”, quella legata alla tradizione più antica, una «architettura senza architetti», come fu definita dallo storico americano Bernard Rodofsky.
Pertanto, è doveroso procedere alla loro manutenzione perché rimangano in condizioni dignitose, come memoria del patrimonio culturale dei valori identitari del territorio.
Rimandiamo quanti volessero approfondire i temi trattati all’opera citata in apertura dell’articolo. Un ringraziamento particolare va all’amico Antonio (Tonino) Palermi, profondo conoscitore della Montagna dei Fiori e autore di gran parte delle foto a corredo dell’articolo.
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