di Gabriele Vecchioni e Narciso Galiè
(foto di Gabriele Vecchioni)
Premessa. In questo articolo raccontiamo la realtà misconosciuta dei borghi montani delle nostre aree interne, dando il giusto rilievo a un patrimonio di civiltà che rischia di scomparire. Lo scritto può apparire un po’ frammentario perché erano tante le cose da dire sull’argomento e lo spazio era ridotto: il risultato è un collage di idee e di immagini; speriamo però di aver gettato un seme che possa far crescere l’interesse per questo mondo così vicino materialmente ma, nello stesso tempo, così “lontano” dalla vita di tutti i giorni.
Il Bel Paese non è costituito solo da città d’arte e da meno artistiche metropoli; ne fanno parte anche numerosi luoghi dove il tempo sembra essersi fermato, con strutture in stato di abbandono, preludio al crollo degli edifici e alla distruzione dell’entità geografica.
Nel vicino entroterra appenninico, a occidente dei Monti Gemelli (“dietro casa”), non è raro imbattersi in questi centri, il più delle volte totalmente disabitati. Sono luoghi affascinanti, ampi spazi che la natura sta riconquistando dopo la rinuncia a vivere il territorio: è la cosiddetta “wilderness di ritorno”.
Nelle aree interne dell’Appennino è in atto, da decenni, un fenomeno di desertificazione, accentuatosi negli ultimi anni, a causa degli eventi sismici. Le uniche presenze umane sono costituite da pochi escursionisti “coraggiosi” e da qualche isolato cacciatore o “eremita”: è sempre più difficile, per chi frequenta quelle zone, avere occasioni di socializzazione. Il fenomeno è stato messo in evidenza dal giornalista Paolo Rumiz che, visitando luoghi simili, ha scritto: «Lontano dai luoghi della finzione e del frastuono, ho attraversato una soglia invisibile e scoperto luoghi dello spirito: eremi, fonti, santuari, boschi millenari, a volte semplici toponimi. Soprattutto piccole valli, orientate come antenne paraboliche verso un silenzio planetario (La leggenda dei monti naviganti, 2007)».
Per questa loro solitudine, le aree interne dell’Appennino hanno atmosfere magiche, sublimate nei poveri resti delle case, negli orti e nei frutteti abbandonati, scenario delle fatiche passate degli abitanti. Sono borghi antichi, lontani dai centri urbani; fino a qualche decennio fa, erano le “sentinelle” del territorio, i presìdi per la sua manutenzione.
Visitare queste aree è come entrare in una dimensione “altra”, nella memoria storica di un’Italia che sta scomparendo nell’abbandono che, fatalmente, porta al dissolvimento di quelle che sono le radici autentiche della gente. Le più colpite dall’abbandono sono le aree montane, dove mancano le infrastrutture.
Si tende a dare la “colpa” dell’allontanamento dai centri appenninici ai recenti, terribili eventi sismici che tanti danni hanno causato; in realtà, il processo è iniziato nella seconda metà del secolo scorso (il cosiddetto “secondo Dopoguerra”), con il fenomeno delle migrazioni interne legate al boom economico. Non è possibile, in questa sede, realizzare un’analisi approfondita del fenomeno, oggetto di studio di illustri antropologi; è possibile, però, per inquadrare correttamente il problema, chiarire alcuni concetti.
L’antropologo francese Marc Augé è il creatore di due neologismi. La surmodernità, definita dall’eccesso: una valanga di avvenimenti, la sovrabbondanza di spazio e l’individualizzazione dei riferimenti fanno perdere il “senso di comunità”. Da questi eccessi derivano i non-luoghi, spazi privi di identità caratterizzati dall’azione del “passaggio”; ipermercati, strade, stazioni e aeroporti sono aree dove i rapporti sono spersonalizzati, sono i luoghi del non-coinvolgimento. Augé contrappone questi luoghi moderni ai paesi dei predecessori, pieni di segni della loro esistenza, luoghi in cui «apprendiamo essenzialmente la nostra differenza» e che rispondono al bisogno di dare un senso al mondo in cui viviamo. Un concetto anticipato da Cesare Pavese che scrisse: «Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti (La luna e i falò, 1949)».
Già negli anni ’40 del Novecento, lo scrittore piemontese aveva intuito il disagio dell’uomo moderno di vivere in un mondo urbanizzato, lontano dalla natura; aveva scritto che «In ogni luogo ci vorrebbe un posto così, lasciato incolto», parole che ci venivano in mente quando, letteralmente persi nel verde, seguivamo la traccia di un sentiero che ci avrebbe portato a un grumo di case vuote.
Nella maggior parte dei casi, i borghi appenninici (spesso edificati su poggi per ragioni di difesa e controllo del territorio) si caratterizzano per le dimensioni minime e le vie strette, adatte a mezzi di comunicazione animali (cavalli e muli). Le case “si assomigliano”: la stalla, la “cantina” e al pianterreno la cucina, con il grande focolare aperto, l’unico luogo dove gli abitanti del borgo potevano socializzare. Le occupazioni principali della popolazione erano di sussistenza: nelle immediate vicinanze c’erano i boschi da ceduare, gli orti da coltivare, le aree di pascolo.
I centri dispersi, a causa della loro ubicazione e dell’isolamento, dovevano necessariamente essere autonomi. Spesso, il villaggio era isolato tra i boschi, così come doveva apparire al tempo dei Longobardi (che sono passati dalle nostre parti e hanno lasciato il segno), quando, probabilmente, erano una loro fara, un termine presente in tutto il territorio nazionale nelle località che videro il loro dominio e che indicava la presenza di una comunità di uomini liberi con capacità di autodifesa.
Lo spirito dei luoghi. Visitando questi luoghi ormai riconsegnati alla natura si ha l’impressione che essi non siano completamente abbandonati ma siano vigilati dal genius loci, lo “spirito guardiano” del posto («Nullus locus sine genio» – Nessun luogo è senza Genio (Servio, sec. IV): gli antenati non avevano la nostra idea del paesaggio, erano più attenti a una storia legata alla natura circostante e all’entità soprannaturale del luogo.
Il fenomeno dell’abbandono. In Italia ci sono circa 5.400 paesi abbandonati o in via di spopolamento, un fenomeno che ha portato i borghi montani a un rapido declino. La prima fase dell’abbandono risale agli anni ‘50 del Novecento, quando si attivarono dinamiche demografiche deleterie per la loro sopravvivenza (l’esodo e la ridistribuzione della popolazione, grazie allo sviluppo dei trasporti e all’inurbamento diffuso). Un’altra fase rimonta agli anni 1960-70 (quelli del boom economico, con l’accentuazione del fenomeno dell’inurbamento).
Il fascino delle rovine. L’Italia è, da secoli, una terra di rovine. I resti del passato, i ruderi degli edifici abbandonati sono la “voce” di ciò che è stato. L’attrazione che le rovine esercitano sulla sensibilità dell’uomo è legata alla fascinazione delle cose perdute, un sentimento “amaro” vissuto non solo davanti a un rudere monumentale ma anche visitando un paese abbandonato.
I nuclei abbandonati appaiono all’improvviso, alla fine di una strada o di un sentiero, con gli edifici in rovina assediati dalla vegetazione, e sembrano rianimarsi di vita propria; è solo un’illusione, però… nessuno abita più quei posti. Si incontrano muri caduti, porte e cancelli fuori dai gangheri, metalli corrosi dalla ruggine, tetti cadenti che le travi marcite non reggono più; dappertutto, la desolante sensazione di abbandono.
L’Appennino perduto. Da qualche tempo, la sezione ascolana del Club Alpino ha promosso diverse iniziative con il brand “Appennino perduto”, riferito soprattutto ai paesi abbandonati dell’Acquasantano (ma il termine si adatta bene anche al territorio abruzzese limitrofo all’area dei Monti Gemelli, dove sono diversi i paesi-fantasma). In entrambi i casi, i segni dell’uomo sul paesaggio sono stati fissati dall’abbandono: le case, le stalle, le chiese in rovina, i sentieri che la natura sta riconquistando raccontano una storia marginale e guidano l’escursionista alla scoperta della cultura della “montagna minore”.
L’antropologo Vito Teti, studiando realtà simili, ha scritto (2004) che «…noi siamo il nostro luogo, i nostri luoghi, tutti i luoghi, reali o immaginari, che abbiamo vissuto, accettato, scartato, combinato, rimosso, inventato». E ancora «Contro ogni apparenza, i luoghi abbandonati non muoiono mai. Si solidificano nella dimensione della memoria di coloro che vi abitavano, fino a costituire un irriducibile elemento di identità. Vivono di una loro fisicità, di una loro corposa e materiale consistenza. Si alimentano di uno spessore doppio e riflesso, che non conosce annichilimento. Pretendono non la fissità, ma al contrario il movimento, l’anàbasi, il percorso fisico e mentale di una loro continua riconquista».
Conclusioni. Nell’articolo sono stati volutamente omessi riferimenti geografici precisi perché quello che abbiamo scritto si adatta a tutte le realtà di questo tipo, come si può apprezzare dalle foto che raccontano ambienti dove è vissuta gente che forse non ha scritto la Storia (quella con la “esse” maiuscola) ma ha comunque vissuto in maniera degna la sua storia personale.
Concludiamo questa breve dissertazione sui borghi abbandonati (uno qualsiasi di essi) con una frase ripresa da un lavoro del già citato antropologo Vito Teti: «Questi non sono posti per chi non ha tempo».
Per poter lasciare o votare un commento devi essere registrato.
Effettua l'accesso oppure registrati