di Andrea Ferretti
Renato Campanini è tornato tante volte ad Ascoli dopo aver smesso la casacca bianconera. Che, però, gli è inevitabilmente rimasta attaccata addosso per sempre. Lui, bomber impareggiabile, tanto amato dai tifosi del Picchio quanto temuto dagli avversari sul campo e sugli spalti. All’Ascoli ha regalato 76 reti che oggi sarebbero molte di più considerando che nel periodo in cui ha giocato bastava che un avversario solo sfiorasse la palla prima che entrasse in rete, e quel gol sul tabellino diventava un autogol.
“Campana” ce lo ripeteva sempre che nel corso della sua carriera gliene saranno stati “scippati” almeno una trentina, lui capace di vincere ugualmente la classifica dei marcatori in tutti e tre i gironi dell’allora Serie C. Con la maglia dell’Ascoli di gol ne ha segnati tanti. Cominciò in C in quella Del Duca che in passato aveva punito diverse volte, anche con Carlo Mazzone giocatore perno della difesa ascolana.
E fu proprio Mazzone a chiedere al presidente Costantino Rozzi di ingaggiare quel “moro” (uno dei tanti nomignoli che gli vennero affibbiati, oltre a “Faccia da gol” e “Faina”) che aveva già superato i trenta e che qualcuno magari pensava fosse sul viale del tramonto. Altro che. Campanini segnava sempre, al “Del Duca” e in trasferta”, nei tranquilli campi del centro Italia e in quelli del sud dove faceva paura solo avvicinarsi. Di piede, di testa (a volte sembrava restasse sospeso in aria, agganciato a chissà cosa, con tutti i difensori che avevano già… toccato terra), di rapina o sfruttando la sua falcata felina, tipica del predatore che non perdona.
Spesso ai vari Vivani e Gola bastava buttare la palla oltre la linea difensiva, poi ci pensava lui. Oppure erano i traversoni dalla fascia di Vezzoso, o di Minigutti, o di Perico a giungere nel mezzo dell’area affollata ad essere trasformati in gol grazie a un suo colpo di testa o qualche inspiegabile acrobazia.
Campanini avrebbe meritato palcoscenici maggiori, questo è sicuro. Alla fine, però, lui si diceva fiero di quello che aveva fatto in B e in C. Eppure segnò anche in A, proprio nell’anno dell’esordio dell’Ascoli nella massima serie. Fu suo il gol bianconero nella prima partita della storia disputata dall’Ascoli in Serie A. Lo realizzò al “San Paolo” di Napoli. E si ripetè anche la settimana dopo, in casa contro il Torino, nella prima gara giocata dall’Ascoli in A al “Del Duca”. Chi doveva far gol se non lui? Era scritto che fosse così. E così fu.
D’estate la sua presenza sulla spiaggia di San Benedetto era fissa. Era in Riviera che ogni volta avveniva l’annuale rimpatriata con i vecchi amici con cui aveva condiviso gioie e dolori sui campi di mezza Italia, come Carlo Mazzone o Paolo Beni, simbolo della Samb di quegli anni. L’ultima tre anni fa quando lo incontrai, come ogni anno, con mio fratello Bruno. C’erano anche i nostri amici e colleghi Lino Manni e Walter Luzi. Cenammo e poi gli consegnammo un premio. Il nostro premio. Una simbolica targa con dedica, niente di che. Lui fu contento come se avesse ricevuto il “Pallone d’Oro”. E noi più di lui, perché l’avevamo dato a Renato Campanini. Una serata con lui valeva per noi decisamente più di mille serate da oscar del calcio con lustrini e paillettes.
Numerosi i messaggi di cordoglio giunti ai familiari, ma anche si suoi numerosi ex compagni di squadra. Ci piace ricordarlo anche con una frase che Carlo Mazzone – un “fratello” per Renato – riportò nel libro che ripercorreva la sua vita e la sua incredibile carriera: “Ho allenato tanti campioni e a ognuno di loro credo di aver trasmesso qualcosa. Solo a uno non ho dato nulla, ricevendo in compenso più che da tutti gli altri. Il suo nome è Renato Campanini”.
Ora, sono sicuro, starà raccontando quello che magari aveva dimenticato di dirci quella sera. E mi immagino Bruno che, con la sua inseparabile agenda, starà aprendo appunti incalzandolo con una montagna di domande. Da una parte, a “controllare” l’intervista, magari aggiungendo inedito aneddoto, il Presidentissimo. Già, anche lui. Lui c’è sempre.
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