«La Rcf, azienda di Reggio Emilia, leader dei sistemi audio ha annunciato il giorno 12 gennaio la volontà di cessare l’attività presso lo stabilimento di San Benedetto del Tronto (zona Agraria) e di trasferire presso lo stabilimento reggiano i dipendenti che fossero disponibili».
E’ il grido di allarme che arriva dai segretari provinciali della Fiom-Cgil (Alessandro Pompei) e Uilm-Uil (Marco Piattelli) scesi in campo a difesa dei lavoratori di fronte all’aut aut dell’azienda nonostante una produzione a pieno regime nel sito piceno anche nel mese di dicembre 2020.
Quella del trasferimento, in un momento storico in cui c’è il blocco dei licenziamenti fino al 31 marzo deciso dal governo a seguito dell’emergenza Covid, potrebbe essere un precedente non proprio positivo per altre aziende multilocalizzate che non hanno la “testa” nel Piceno.
«E’ stato un fulmine a ciel sereno – continuano Piattelli e Pompei – perché il 20 ottobre 2020, nell’ultimo incontro aziendale congiunto con le maestranze emiliane, l’azienda aveva garantito la tenuta dei livelli occupazionali e la presenza produttiva a San Benedetto del Tronto».
Cosa è successo successivamente a quella data che può aver fatto cambiare idea circa le sorti dello stabilimento sambenedettese?
«Il 12 dicembre 2020 – dicono sempre i sindacalisti – la proprietà annuncia a mezzo stampa di aver ricevuto un prestito garantito da Sace e Mediocredito Centrale, ossia dallo Stato italiano, di 44 milioni di euro da parte di una cordata di 13 banche e il 16 dicembre 2020 l’azionista di maggioranza, l’ingegner Vicari, invia a tutti i dipendenti una lettera in cui invita a tenere duro e si dimostra fiducioso in una ripresa.
E’ mai possibile che si ricevano soldi garantiti dallo stato italiano e si chiudano siti produttivi? E’ stata la chiusura di San Benedetto del Tronto uno dei requisiti di riorganizzazione presenti nel nuovo piano industriale 2021 che ha aperto le porte al finanziamento delle banche?
Come organizzazioni sindacali oltre a manifestare il nostro sconcerto e l’incomprensione, rispetto ad un palese voltafaccia aziendale, abbiamo proposto l’utilizzo di tutte le forme conservative dei posti di lavoro (ammortizzatori sociali Covid, contratti di solidarietà, cassa integrazione ordinaria) al fine di superare le difficoltà dovute alla pandemia in contemporanea all’istituzione di un tavolo di confronto con la regione e le istituzioni locali per trovare insieme tutte le soluzioni possibili al fine di garantire la presenza dell’azienda nelle Marche».
Non ci sarebbero nemmeno problemi di commesse per il sito piceno.
«Dall’inizio della pandemia – rivelano Pompei e Piattelli – lo stabilimento di San Benedetto ha usufruito in maniera sensibilmente inferiore al sito produttivo di Reggio Emilia della cassa integrazione e nel mese di dicembre ha lavorato a pieno regime. Questo perché qui si produce “public address system”, un prodotto che in questo momento non sta subendo flessioni di mercato significative».
«L’azienda – concludono – è stata sorda rispetto alle nostre proposte, negandoci di fatto ogni possibilità di discussione e condannando i lavoratori ad una scelta drammatica o trasferirsi o il licenziamento. L’azienda sa bene che dipendenti con una età media di 45/50 anni, alcuni con problemi familiari, non affronterebbero un trasferimento in una realtà a 400 km di distanza, in cui dovrebbero sostenere spese non indifferenti oltre ad una riduzione del reddito da lavoro dovuta ad una eventuale cassa integrazione.
Come Fiom-Cgil e Uilm-Uil siamo convinti che il sito produttivo di San Benedetto del Tronto ha ragione di continuare a produrre e abbiamo interessato della questione i massimi esponenti della regione marche tra cui il presidente Francesco Acquaroli e l’assessore Guido Castelli».
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