testo e foto di Gabriele Vecchioni
Un fenomeno misconosciuto del nostro territorio è quello dei vulcanelli di fango, strutture geologiche che si formano per l’emissione in superficie di materiale argilloso, spinto da una miscela di idrocarburi liquidi o gassosi (di solito, l’85% circa è costituito da metano, acqua salmastra e materiale solido, fango e detriti).
Si tratta di «piccole emissioni di fango che formano un minuto apparato eruttivo, non molto dissimile, salvo le ridottissime dimensioni, da quello vulcanico. Il fango fuoriesce a temperatura ambiente ed è frammisto ad acqua spesso salata, in colate che raccolgono argilla tenera, morbidissima. Alla sommità del cono le acque melmose gorgogliano per la pressione di gas (B. Egidi, 1998)».
I vulcanelli di fango non sono una rarità: in Italia, si trovano in diverse aree dell’area appenninica, dove si manifestano in maniera a volte spettacolare, soprattutto in Emilia Romagna e in Sicilia. Anche nella nostra zona, e nel vicino Abruzzo, è possibile apprezzare questo “strano” fenomeno naturale: è recente l’iniziativa della costituzione di un Parco geologico a Borgo Santa Maria di Pineto (Te), che ingloba l’apparato lutìvomo (il termine che indica il vulcanello di fango) noto come Cenerone, descritto da Luigi Ercole già nel 1804 («un Colletto Conico da un picciol pantano d’acqua torbida di argilla sciolta, che bollendo ad intervallo di circa un minuto erutta il limo all’intorno») e dal naturalista teramano Antonio Amary nel 1854 («… mezzo miglio lontano dal mare in un terreno marnoso-argilloso evvi un bollitoio»).
Nelle Marche le aree interessate al fenomeno sono diverse: nel territorio di Jesi (An) sono denominati bagni o salse; a Montegiorgio (Fm), quello non più in attività era conosciuto come sdrao (drago); a Montappone (Fm), l’ultima attività del vullicariu è del 2013; quelli di Monteleone di Fermo sono l’argomento di questo articolo; a Rotella è in attività (2013) solo quello in contrada Laura; a Offida, i vulcanelli (le salse) erano segnalati in località San Lazzaro (Lu lache).
La manifestazione più vistosa nell’area dell’Ascensione avvenne nel 1959 a Offida, dove un’eruzione, anticipata da boati e scosse telluriche, produsse l’emissione di fango caldo e la formazione di un edificio conico alto ben sei metri; sul Bollettino dell’Istituto Geografico Militare (1964), il Damiani lo definì «vulcanello di fango o salsa».
Qualche anno dopo (1969), il geologo Odoardo Girotti informava, relativamente alla presenza di questi fenomeni geologici nella nostra zona, che «Nelle argille plioceniche dei dintorni di Rotella si rinvengono alcuni edifici conici di argilla, detti vulcanelli di fango, legati a sorgenti con acqua salsa, gorgoglianti per emissione di sostanze gassose». Nella zona i vulcanelli di fango sono localizzati nei comprensori di Castignano e Rotella e noti con il nome di sagnasughe (sanguisughe) perché, secondo la tradizione popolare, sarebbero capaci di inghiottire tutto quello che dovesse cadere al loro interno. Una leggenda racconta della “sparizione” di una coppia di buoi intenti al lavoro dell’aratura, una favola riportata anche nell’area del Fermano.
Questi fenomeni pseudovulcanici sono stati osservati anche nel Fermano, soprattutto nel territorio comunale di Monteleone di Fermo, dove ne sono stati localizzati ben sei, dislocati lungo le rive del fiume Ete Vivo, tanto che il borgo è conosciuto come “il paese dei vulcanelli”. Ce ne occuperemo proprio in questo articolo, cercando di ricorrere il meno possibile al difficile linguaggio tecnico.
Prima di descrivere il fenomeno, vediamo la definizione scientifica dello stesso: «Per “vulcanello di fango” si intende un apparato morfologico connesso all’emissione intermittente di fanghi in sospensione in un fluido vettore (in genere acqua e subordinatamente piccoli quantitativi di idrocarburi); la modellazione dello stesso appare dipendere fortemente dalle condizioni idrauliche del sottosuolo (agenti endogeni), mentre l’evoluzione risulta condizionata dall’azione degli agenti esogeni e, talora, dall‘intervento antropico, con le lavorazioni agricole del terreno (R. Di Francesco e G. Scalella, 2004)».
Il fenomeno dei vulcanelli è presente su gran parte del versante adriatico della catena appenninica; i più grandi si trovano in Emilia-Romagna (le salse). In alcuni casi, se c’è emissione di idrocarburi gassosi, si possono verificare spettacolari casi di autoaccensione: sono le fontane ardenti. La loro formazione non è legata a un’attività vulcanica secondaria ma a un fenomeno definito “vulcanismo sedimentario” per somiglianza. Si tratta di risorgive che portano acqua da grande profondità, arrivata in superficie per la risalita di gas pressurizzati correlati a depositi di idrocarburi; con essa viene trasportato il silt (materiale sabbioso e argilloso a grana fine) che, depositatosi, costruisce la caratteristica forma conica “a vulcano” delle bocche di uscita.
I vulcanelli sono strutture attive: spesso c’è una fuoriuscita di sostanze gassose e, a volte, la presenza di incrostazioni di sali di zolfo; se c’è emissione di gas, in letteratura vengono denominati “bollitori”. Le sorgenti salate dei vulcanelli di fango sono ubicate nei fondivalle e nei fossi e, in alcuni casi (terreni alluvionali), alla base dei pendii; sono strutture diffuse nella zona pedoappenninica, nei terreni argillosi pliocenici della cosiddetta Successione sedimentaria Umbro-marchigiana (peliti plioceniche, cioè rocce derivate da un sedimento fangoso e risalenti al Pliocene, 2-5 mln di anni fa).
Tra le cause che possono facilitare la formazione o la ripresa delle attività dei vulcanelli di fango ci sono le forti piogge ripetute (la quantità di fluidi immessa fa aumentare la pressione), gli eventi sismici (anche non particolarmente distruttivi) o frane che generano fratture nel terreno e facilitano la risalita del materiale secondo le vie preferenziali di faglie e fratture del terreno.
La caratteristica specifica dei vulcanelli di fango è la loro intermittenza, legata al regime pluviometrico, che provoca variazioni del gradiente idraulico nel terreno. I periodi di maggiore attività sono stati rilevati, anche recentemente, in coincidenza di attività sismiche ma, secondo testimonianze degli abitanti della zona, le “eruzioni” di fango sono concentrate in prevalenza nei periodi più piovosi dell’anno, quando la maggiore quantità di acqua risale in superficie, trasportando fango in sospensione.
Monteleone di Fermo era uno dei castelli difensivi della Marca Fermana (castrum versus montes), posto su una collina vicino al fiume Ete vivo, a circa 20 chilometri dalla costa. Il borgo ha probabilmente origine picena ma la nascita di questo e di altri centri d’altura si fa risalire intorno all’anno Mille, poco dopo le invasioni barbariche e lo stravolgimento della struttura economica, politica e sociale precedente; essi andarono a occupare i luoghi degli antichi pagi piceni, situati in posizioni elevate, su versanti assolati.
Passeggiando fra le vie del ben conservato centro storico si ha l’impressione di tornare indietro nel tempo. Il paesaggio del circondario è rurale, tipicamente “marchigiano”, con campi curati e strade vicinali in buone condizioni, con i poggi collinari coronati da borghi d’altura; nella valle dell’Ete, poi, si trovano ampie aree calanchive, peraltro non eccessivamente vaste come quelle presenti nell’Ascolano. Dai punti panoramici si gode una magnifica veduta sulle aree interne del Fermano e del Maceratese, oltre che sulle catene dei Sibillini, dei Monti della Laga e del Gran Sasso d’Italia.
La visita escursionistica ai vulcanelli può partire sia dal borgo di Monteleone sia dall’area attrezzata (con un ampio parcheggio) di Santa Maria in Paganico (toponimo legato al fatto che, fino al sec. XIII, qui era attestata un’antica chiesa di origine longobarda).
Considerazioni conclusive. È sempre più difficile “trovare” i vulcanelli. A tale proposito, una testimonianza diretta: non è stato possibile rintracciare quello segnalato in località Lu lache di Offida, nonostante l’aiuto di una “guida” locale.
La “sparizione” dei vulcanelli è dovuta, il più delle volte, all’azione dei coltivatori. L’abbandono dei campi, lo spianamento dei terreni con mezzi meccanici, la carenza di leggi nazionali o regionali che permettano la protezione dei siti come “geotipi”, hanno spesso distrutto o reso irraggiungibili questi interessanti fenomeni geologici: non essendo inseriti in un piano organico di protezione, essi spesso vengono letteralmente “arati” dai conduttori agricoli, per non perdere superficie utile per le coltivazioni.
L’esempio abruzzese, esposto all’inizio dell’articolo, potrebbe essere un esempio di valorizzazione del territorio, con possibili ricadute anche economiche (ormai è la tendenza-necessità dei nostri tempi). Nel caso di Pineto, il Parco è sotto il “controllo” del già esistente Parco dei calanchi di Atri.
Per poter lasciare o votare un commento devi essere registrato.
Effettua l'accesso oppure registrati