di Gabriele Vecchioni e Narciso Galiè
(foto di Gianfranco Alessandrini, Carlo Perugini e Gabriele Vecchioni)
Una delle ricchezze culturali dell’Ascolano e delle aree limitrofe è costituito dalle chiese rurali, diffuse capillarmente sul territorio e spesso affrescate, all’interno, in maniera mirabile; oltre ad essere un interessante esempio di architettura minore, sono testimonianze significative della religiosità e della devozione popolare. Qualche anno fa, dietro invito della sezione ascolana di Italia Nostra e in occasione della campagna per il restauro degli affreschi di una piccola chiesa del comprensorio di Mozzano, dedicammo un volumetto a queste singolarità del nostro territorio; tema approfondito nel corso di una riuscita conferenza della suddetta associazione. In questo articolo, una breve sintesi della relazione tenuta in quell’occasione.
Una ricchezza sottovalutata del territorio. Come premessa riportiamo alcune frasi di Emma Simi Varanelli (1998) sulla realtà storico-sociale altomedievale, relative al territorio dell’Alto Maceratese ma che ben si adattano al Piceno.
«La fitta maglia dei castelli e luoghi di culto e di preghiera le cui tracce ancor oggi possiamo osservare un po’ ovunque, sono lì di fatti per testimoniare che la vita è risorta assai prima dell’anno Mille e di conseguenza che anche l’arte ha avuto una fioritura più precoce e in termini più vari e qualitativamente validi di quanto si sia soliti immaginare. Inducono a pensare, inoltre, che la civiltà medievale in toto possedeva qualche verità che ci sfugge e che solo il fascino delle consunte pietre e la sapienza delle antiche scritture possono ancora trasmetterci. Convincono cioè che – come credevano i romantici – nel Medioevo il sacro si è mescolato quotidianamente, intimamente al profano, le memorie dell’antico sono state generalmente conservate con ogni cura e venerazione, re e signori si sono inchinati davanti alla voce del sacro che si credeva albergasse anche nei santuari più modesti, il più spesso, con la medesima attitudine semplice e devota consona agli spiriti umili. Tali constatazioni dovrebbero agire su di noi quale formidabile stimolo alla conoscenza di queste nostre così diverse e sapide radici».
L’esistenza di tanti edifici sacri sparsi fa pensare a un popolamento stabile del territorio. Fra la seconda metà dell’VIII e la fine dell’XI secolo, proprietari fondiari di origine franca e longobarda, ormai integrati nel tessuto sociale delle terre da loro occupate in passato, vescovi e chierici diedero un forte impulso alla costruzione di chiese, cappelle e monasteri in città e in campagna; anche l’istituzione statuale contribuì con una propria rete di chiese patrimoniali che garantirono la cura animarum e l’inquadramento pastorale della popolazione. Queste rustiche costruzioni devozionali marcavano il territorio, occupando i luoghi di antichi culti pagani.
Il secondo Concilio di Nicea (sec. VIII) permise il culto delle immagini e le raffigurazioni sacre poterono diffondersi (per inciso, fra le tre grandi religioni monoteiste, solo quella cristiana ammette la venerazione delle immagini). Nel sec. XVI, il Concilio di Trento (che durò circa vent’anni), per contrastare il nascente Protestantesimo, incentivò la venerazione della Vergine e dei Santi: il contesto storico favorì la costruzione ulteriore di chiese e cappelle, spesso decorate, anche in aperta campagna.
Già nell’antichità romana, nei campi e ai crocicchi, venivano posti tempietti con immagini di divinità agresti perché proteggessero raccolti e percorsi: erano le aediculae, ipocoristico di aedes (tempio). La nuova religione cooptò questi edifici sacri, modificandone la dedicazione e riadattandoli alle proprie esigenze; essi erano importanti punti di riferimento sociale per un abitato sparso, sovente impreziositi da affreschi realizzati da pittori sconosciuti ma spesso artisticamente dotati.
Sono diverse le chiese rurali della nostra zona degne di una visita, anche solo per godere della loro posizione, spesso panoramica, inserite in uno splendido contesto appenninico, immerse in fitti boschi o isolate sui poggi. Qualche anno fa, il giornalista Luca Villoresi scrisse «… certe chiesette semiabbandonate circonfuse da un fascino che risale all’anno Mille; […] i piccoli cimiteri, eredi di una storia e di una suggestione ancora direttamente collegata alla natura circostante. Gli antichi non avevano la nostra idea del paesaggio. Ma, attenti agli spiriti connaturati alle piante, alle rocce, allo scorrere dell’acqua e al volo degli uccelli, individuavano in certi luoghi – che oggi definiamo panoramici – una sintesi, una concentrazione di forze. Lì erano sorti templi, altari, aree sacre, poi riciclati dalle chiese e dai cimiteri cristiani». Le parole si adattano perfettamente a diverse emergenze dell’Ascolano (e delle aree limitrofe) che fanno pensare a una scelta dettata da una voluta “immersione” nella natura circostante – senza modificare i caratteri del paesaggio – dove il “costruito” si fonde alla perfezione con il “naturale”.
Nella vicina Umbria, a volte, le chiese erano affrescate anche esternamente. Frequente, oltre alla figura del Cristo, quella di San Cristoforo, considerata beneaugurante: era convinzione popolare che chi ne avesse visto la figura al mattino, per quel giorno non sarebbe morto (Christophorum videas postea tutus eas, per la credenza magica dello sguardo). La figura del gigante che trasporta Cristo bambino sulle spalle attraverso le acque del fiume, è un chiaro simbolo di purificazione.
L’affresco. L’affresco (dalla locuzione “a fresco”) è una tecnica pittorica molto antica. Viene eseguito stendendo colori terrosi di origine minerale, diluiti nell’acqua, sull’intonaco ancora fresco di una parete: il colore ne è chimicamente incorporato per carbonatazione e acquista una particolare resistenza all’acqua e al tempo. Gli affreschi dovevano essere realizzati rapidamente: la tecnica pittorica necessitava di notevole perizia da parte dell’autore perché non permetteva pentimenti “artistici”; eventuali ritocchi andavano fatti successivamente, sull’opera asciutta, con colori a tempera.
Gli affreschi costituivano, nel Medioevo, la “Bibbia dei poveri”, stante l’altissima percentuale di illetterati, incapaci di leggere il Libro: era la muta praedicatio, l’insegnamento delle immagini per la massa di analfabeti. Nel sec. VI, in un’epistola a Sereno, vescovo iconoclasta di Marsiglia, Papa Gregorio Magno scrisse che «[…] quello che lo scritto procura a coloro che sanno leggere, la pittura lo fornisce agli analfabeti che la guardano: in tal modo, gli ignoranti vedono ciò che devono imitare. Le pitture sono la lettura degli illetterati».
Le figure affrescate. Gli affreschi presenti nelle chiese e negli oratori dell’Ascolano sono tutti a soggetto religioso, come era lecito aspettarsi, data la loro funzione devozionale. Spesso il frescante cercava il coinvolgimento emotivo dello spettatore, con la scelta di scene patetiche quali la Passione di Cristo e con immagini di santi popolari. Un esempio è quello di Vitavello (articolo precedente, leggilo qui), dove il pittore, oltre a utilizzare una tecnica prospettica avanzata, ha rappresentato il Cristo in croce con il particolare toccante del sangue che cola lungo le braccia.
Uno dei soggetti più raffigurati è la Madonna, spesso col Bambino o affiancata da altri personaggi, come i santi Rocco e Sebastiano, invocati a protezione dalle epidemie di peste. Frequente l’immagine della Madonna della Misericordia (o del Soccorso), che protegge con il manto la massa dei fedeli che implorano la sua benedizione, e le raffigurazioni del Cristo portacroce, della Crocifissione (con la Vergine, la Maddalena e San Giovanni) e della Deposizione. Altri soggetti sono papi e santi (dal latino sancti, cioè “sanciti”, riconosciuti ufficialmente dalla Chiesa); erano raffigurati quelli con maggior seguito popolare: tra gli altri, c’erano Sant’Antonio Abate, figura molto amata nelle aree rurali, Sant’Agata e Santa Lucia, riconoscibili dalla raffigurazione delle parti anatomiche oggetto del loro martirio. Infine, gli angeli: in coro o in volo per glorificare Cristo e la Madonna. Particolarmente significative le figure dell’angelo “messaggero” Gabriele e del “guerriero” Michele.
Conclusioni. Le chiese rurali e i loro affreschi sono vere e proprie epifanie del paesaggio; sul nostro territorio insiste un gran numero di chiese e oratori affrescati, una stratificazione di storia e di memoria, un vero scrigno di bellezza. Purtroppo, oltre ai danni inferti dai recenti eventi sismici, il disinteresse e l’incuria stanno cancellando queste preziose testimonianze, un patrimonio da salvaguardare e tutelare. Sarebbe opportuno, per motivi di memoria storica e per l’intrinseco valore artistico delle decorazioni e degli affreschi, sviluppare progetti di recupero-restauro di questi edifici, prima che tali testimonianze della ricchezza materiale e religiosa vadano perdute, per accrescere il patrimonio storico-artistico del territorio e restituirlo all’ammirazione e alla devozione popolare. Un piccolo passo perché l’Italia non diventi il “Paese dei paesaggi perduti”.
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