di Luca Capponi
C’è chi sostiene che il destino a volte sa essere più che beffardo. E poi c’è chi sbaglia. Se un anno fa, era il 9 marzo del 2020, nessuno avrebbe ipotizzato ciò che stava per accadere di lì a poco, alzi la mano chi pensava che esattamente 365 giorni dopo saremmo finiti di nuovo, quasi, punto e a capo. Come in un gioco dell’oca cinico e spietato. Non conta quanta strada hai fatto, torni al punto 1. Tant’è.
Un giro intero di lancette e tra un’ondata e l’altra tutto sembra uguale a ieri. Non c’è Conte più ad annunciare in diretta a reti unificate cosa accadrà. Ora il premier è Draghi. Ma il finale (suggerito), tra un coprifuoco e misure ulteriormente restrittive in arrivo, è lo stesso: restate a casa.
Di diverso, quel clima di incertezza che un anno fa stringeva come un cappio, rendendo tutto più plumbeo. Perché oggi sul virus ne sappiamo giusto qualcosa in più. E alcune cose (forse) le abbiamo imparate. Poi ci sono i vaccini, che si spera ci tireranno fuori da questa situazione nel più breve tempo possibile.
Per il resto, identicità; dall’eroico personale sanitario in trincea a lottare al Piceno già martoriato dal sisma che resiste, oggi come allora, ultimo baluardo delle Marche a non cedere alle restrizioni più dure.
Ma siamo fantasmi lo stesso, proprio come dopo quel maledetto 10 marzo. Anzi peggio. Svuotati e ottenebrati da un anno di tira e molla. E le immagini di quelle città vuote, spettrali, di quelle piazze prive del suo ingrediente principe, le persone, sono più vive che mai. Il silenzio domina ancora. Lo straniamento, il disorientamento, la paura, la sofferenza. La morte, intorno.
Nessuno mai aveva visto la Piazza del Popolo di Ascoli completamente deserta nel pomeriggio di un giorno qualsiasi. Senza nessuno. Nemmeno durante guerre e carestie. Invece eccola. Così come il lungomare di San Benedetto o i borghi dell’entroterra Piceno. Tutto vuoto. Come le anime. Come i cuori.
“Sembra un film“, dicono in molti il 10 marzo del 2020. Parole fino a quel momento ignorate, divengono di uso comune: quarantena (e l’inevitabile contraltare inglese “lockdown”), dispositivo di protezione, igienizzante, assembramento, bollettino, tampone, pandemia e chi più ne ha più ne metta. Il Coronavirus è una rivoluzione a 360 gradi.
“Durerà poco“, aggiungono e sperano, forse per farsi forza. E invece, tra autocertificazioni, scuola a distanza, appelli dei sindaci (anche con gli altoparlanti in strada), cibo da asporto, musica che arriva dai balconi (con l’Inno d’Italia a farla da padrone), Pasqua, 25 aprile e 1 maggio, i giorni di chiusura totale si allungano continuamente. Come ombre. Martoriando anime, corpi, relazioni, vita sociale. Cambiando tutto, per sempre. Alla fine della conta saranno ben 55. Un’eternità.
Da cui si esce (gradualmente) fuori a primavera inoltrata, il 4 maggio. Inizia la cosiddetta “fase 2”. Manca poco più di un mese all’estate. Stagioni che arrivano portando con sé l’illusione di una vita pronta a tornare normale. Se il copione è quello, sarà così anche stavolta. Ma, si spera, senza la componente illusoria. E senza tornare più al punto 1 di questo gioco dell’oca cinico e spietato.
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