di Maria Nerina Galiè
Età media: 82 anni. Patologie pregresse: nel 96,2% dei casi. Così vengono “catalogate” le persone che non ce l’hanno fatta a causa delle conseguenze del Covid. Nelle Marche 2.464 dall’inizio dell’emergenza, di cui 194 nel Piceno, secondo l’ultimo report della Regione Marche.
Saranno ricordati tutti oggi, 18 marzo, insieme alle altre migliaia in Italia nella prima “giornata nazionale in memoria delle vittime del Coronavirus”. Bandiere a mezz’asta sui palazzi municipali e minuto di raccoglimento.
Dietro a ciascuna delle vittime del Covid c’è una storia. Ci sono famiglie che hanno visto diventare realtà uno dei peggiori incubi di questa pandemia: perdere una persona amata senza potergli dire addio. Morta da sola in un letto di ospedale.
Senza essergli accanto negli ultimi momenti. Per certi versi anche senza conoscere il decorso della malattia, vivendo nell’attesa di una telefonata di aggiornamento che ha il potere di risollevare la giornata o gettare nella disperazione, in un tira e molla estenuante che dura anche mesi. E in qualche caso quella telefonata è foriere della tragedia.
Ma è tutto quello a cui si può ambire dal momento in cui, per colpa delle conseguenze del virus, le famiglie si smembrano e le vite di mariti e mogli, padri e figli si separano, a volte per sempre.
L’incubo è diventato realtà per Stefania e Barbara Canala che hanno perso l’amato padre Franco, vittima del Covid, morto lo scorso 19 dicembre dopo tre mesi di “pellegrinaggio” in diversi ospedali della regione.
«E’ inaccettabile – è Stefania che parla – che ancora oggi, dopo un anno di emergenza sanitaria, nessuno abbia trovato il modo per mitigare l’atrocità di questa prassi, per abbattere le distanze tra i ricoverati e i familiari che sono a casa.
Non sono un politico né un medico, ma so quanto sia importate essere vicini alle persone care nel momento in cui più ne hanno bisogno.
A fine giugno è morta una mia cara zia, ma non per Covid. Anche lei se n’è andata senza il nostro conforto, da sola, in ospedale. E’ stato durissimo farmene una ragione, ignara di quello che stava per accadere di lì a poco».
Stefania è una donna adulta e affermata nel lavoro, aveva fatto «i suoi calcoli con il destino. Non potevo pensare che i miei genitori vivessero in eterno. Ma ho rischiato di perdere entrambi con il Covid e sono stata testimone di un imbarbarimento dell’umanità».
IL FATTO – Tutto è iniziato a metà settembre e “l’occasione” è stata la festa della prima comunione del nipote. «Uno degli invitati – racconta Stefania – era positivo, lo ha scoperto il giorno dopo. Appena ha avvisato mia sorella ci siamo tutti sottoposti a tampone.
Era il 17 settembre. La mia famiglia si è riunita per l’ultima volta davanti al piazzale dell’ospedale “Mazzoni”.
Il 19 settembre la risposta: contagiati io, mia sorella, mio padre e mia madre. Dopo due giorni anche mio figlio.
L’attenzione ovviamente è stata subito rivolta verso miei genitori, entrambi di 82 anni, mamma addirittura ossigeno dipendente. Papà stava bene. Da giovane aveva avuto la tubercolosi ed in seguito l’asma curata in un centro specializzato a Firenze. Ma sono episodi che risalgono ad anni fa».
“Acciacchi” senili o serie malattie che rendono pericoloso il contagio: difficile percepire il confine quando si parla delle “patologie pregresse” che immancabilmente arricchiscono il bollettino dei decessi per cause legate al Covid.
«All’esito del tampone ci siamo tutti isolati, ciascuno a casa propria. Poi i primi sintomi per mamma e papà.
Non ero con loro, prima ci passavo due volte al giorno. Mi sentivo impotente.
Chiamavo il medico di famiglia. Diceva di aspettare, che aveva attivato le Usca.
Poi la situazione è precipitata e sono dovuti ricorrere all’ambulanza. Il loro medico aveva attivato le unità speciali si, ma all’ultimo. Per farla breve: l’ho denunciato penalmente perché ho motivo di ritenere che non abbia fatto bene il suo lavoro. Ma di questo se ne occuperà la giustizia non io».
Il racconto di Stefania prosegue con il ricovero per Franco e la mamma Romana al “Murri” di Fermo, il 26 settembre. Gli ospedali piceni si stavano attrezzando per i Covid proprio in quei giorni in cui la richiesta di cure ospedaliere cresceva, mettendo a dura prova il sistema sanitario locale, impreparato alla violenza ed alla rapidità della seconda ondata.
«Quei primi giorni si sono consumati nell’attesa di avere notizie. Nessuno mi diceva nulla. Non sapevo dove sbattere la testa e non mi potevo muovere perché in isolamento anch’io.
Nel frattempo mamma peggiorava. L’hanno trasferita al “Madonna del Soccorso” di San Benedetto in semi intensiva e sottoposta a c-pap.
Papà è rimasto a Fermo, preoccupatissimo per mamma.
Poi, lo stesso giorno due telefonate. Una con buone notizie: mamma stava meglio e la stavano riportando a Fermo. Una bruttissima: papà doveva essere intubato e trasferito al “Torrette” di Ancona.
Ci hanno concesso una video chiamata ed il peso ce l’ho ancora tutto sul petto. Ho cercato di rassicurarlo in tutti i modi. Gli ho detto che mamma stava meglio. Che dovevamo essere ottimisti.
E’ rimasto intubato almeno 10 giorni. “Tutto sta andando come deve andare”, mi dicevano i medici.
In effetti era migliorato e lo hanno estubato.
Io il 13 ottobre mi ero negativizzata e sarei andata in Ancona per parlare di persona con i dottori e capire come stesse procedendo.
Ma mi hanno richiamano per dirmi che era necessario intubarlo di nuovo. Poi che dovevano fargli la tracheotomia e che la sua nuova destinazione era l’ospedale di Pesaro».
Stefania si è resa conto che la strada sarebbe stata ancora più tortuosa. Le cose non andavano bene nei primi giorni a Pesaro. Franco non reagiva alle cure, i suoi organi iniziavano a cedere. Ma poi si era ripreso. Ancora una volta, a poco a poco, lottando come un leone anche grazie al conforto della figlia, attraverso il tablet.
«Può essere trasferito in una struttura con un livello di cure più basso», hanno detto finalmente i medici di Pesaro a Stefania.
Ad Ascoli non c’era posto, quindi Franco è andato all’ospedale di Fano, fino a che è stato deciso che poteva passare alla riabilitazione. Nel frattempo si era negativizzato (il 17 novembre), quindi poteva andare ovunque.
Dopo attente valutazioni sulla struttura più adatta, a metà dicembre Franco è tornato ad Ascoli, al “Santo Stefano” dove però ha avuto un calo di pressione ed è stato portato al Pronto Soccorso del “Mazzoni”, poi in Cardiologia e a Medicina.
«I quel periodo ricoveravano dove si poteva», commenta Stefania che intanto aveva avuto risposta per una collocazione del padre, sempre per seguire una terapia riabilitativa, nella casa di cura “San Giuseppe”, sempre di Ascoli.
E’ stato durante il trasferimento dal Santo Stefano al Pronto Soccorso che Stefania e suo padre hanno potuto riabbracciarsi, dopo mesi: «Non potevo immaginare che non l’avrei fatto mai più.
Il 19 settembre alle 8,15 mi arriva una telefonata dall’ospedale di Ascoli: “Suo padre è deceduto”.
Era la fine.
Nulla più in cui poter sperare.
Mio padre è morto proprio quando si stava concretizzando la prospettiva di una riabilitazione, di un futuro».
Domani, 19 marzo, ricorrono tre mesi dalla morte di Franco. Ed è anche la Festa del Papà. La prima che Stefania non festeggia con Franco: «Ho comprato le zeppole. Papà le adorava. Le porterò a mamma».
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