di Gabriele Vecchioni
Chi ha frequentato i sentieri dei Monti della Laga e i suoi borghi per la sensazione di libertà dai vincoli della cosiddetta società civile, per la ricerca della wilderness, ora la trova (o la troverà, norme anti-Covid permettendo) in “quantità” ancora maggiore, grazie allo spopolamento e all’assenza di manutenzione delle aree; la natura sta riconquistando i suoi spazi, gli arbusti invadono i campi trascurati, i boschi arrivano alle case (a volte, anche dentro): è la wilderness di ritorno, il frutto della (ri)naturalizzazione.
La ricerca del paesaggio selvaggio, in un mondo senza più terrae incognitae, è ancora possibile nelle aree interne dell’Appennino come quelle della Laga. La fuga di colline e di montagne fino all’orizzonte, dove si perdono nella caligine, i minuscoli borghi solitari regalano emozioni vigorose a chi frequenta questi luoghi, soprattutto in autunno – per il caleidoscopio di colori – o d’inverno, quando diventano “luoghi del silenzio”.
Un intrico di valli, fossi e sentieri attraversa case e orti abbandonati, dove il tempo sembra sospeso. La ragnatela di cammini, piste e strade, sicura indicazione di una frequentazione assidua, può infastidire l’escursionista che cerca il “respiro della natura” ma è, al tempo stesso, l’indizio che rivela il legame forte degli abitanti (quando c’erano) con il territorio. I boschi che circondano le case sono stati sfruttati dell’uomo nel corso dei secoli per la produzione di legname e tagliati per fare spazio a pascoli e coltivi. Oggi si assiste a un’inversione di tendenza per lo spopolamento e il conseguente abbandono delle attività agricole e pastorali: in prossimità delle case si ritrovano ampi arbusteti che tendono a (ri)colonizzare le terre abbandonate dall’uomo.
Cronache Picene, qualche mese fa, ha dedicato all’argomento un articolo (leggilo qui) nel quale venivano analizzate cause e concause dell’abbandono di queste realtà minori. In quell’occasione, veniva citata una frase di Paolo Rumiz che meglio di altre, esprimeva la fascinazione di questi luoghi; mi piace riportarla: «Lontano dai luoghi della finzione e del frastuono, ho attraversato una soglia invisibile e scoperto luoghi dello spirito: eremi, fonti, santuari, boschi millenari, a volte semplici toponimi. Soprattutto piccole valli, orientate come antenne paraboliche verso un silenzio planetario (La leggenda dei monti naviganti, 2007)».
I paesi, arroccati sulle alture o distesi nelle aree pedemontane, sono un elemento fondamentale del paesaggio della Laga; segnalati a distanza dai campanili a vela delle chiese, spiccano tra i boschi, circondati dalle tracce dei campi coltivati. Sono spesso in rovina ma l‘approccio antropologico (la cosiddetta “osservazione partecipata”) e la memoria cristallizzano i ricordi di una vita nemmeno tanto lontana, collocandoli quasi in una dimensione quasi onirica.
L’Appennino delle aree interne ormai è per eremiti temporanei, cacciatori spesso abusivi, escursionisti romantici. Henry David Thoreau ha scritto che «Perdersi nei boschi, in qualsiasi momento, è un’esperienza sorprendente e memorabile, e insieme preziosa».
Poi, la strada (o il sentiero) arriva a un gruppetto di case abbandonate: «I nuclei abbandonati appaiono all’improvviso, alla fine di una strada o di un sentiero, con gli edifici in rovina assediati dalla vegetazione, e sembrano rianimarsi di vita propria; è solo un’illusione, però… nessuno abita più quei posti. Si incontrano muri caduti, porte e cancelli fuori dai gangheri, metalli corrosi dalla ruggine, tetti cadenti che le travi marcite non reggono più; dappertutto, la desolante sensazione di abbandono».
A volte, càpita di poter parlare con qualcuno che ricorda con nostalgia un’età che non c’è più. Ma il tempo non si ferma, rimane solo il ricordo dei tempi passati, il rimpianto di una vita più a misura d’uomo, meno frenetica e meno legata ai ritmi d’oggi. Si vive però nel presente e bisogna tener conto della realtà oggettiva. Si pensa a improbabili ricostruzioni, si sognano alberghi diffusi e strade inutili (è paradossale la proliferazione di piste in un periodo che vede un forte spopolamento dei borghi delle aree interne) ma la situazione attuale è quella di tetti crollati, muri smozzicati, chiese saccheggiate (una caratteristica di molte piccole chiese appenniniche è quella di avere un buco al posto dell’acquasantiera): è il risultato dell’abbandono.
Ricordiamo che «… l’amore per la montagna non si manifesta solo con la semplice frequentazione ma anche con il rispetto e la difesa dell’ambiente, inteso nella sua accezione etimologica – l’insieme dei luoghi e delle cose in mezzo alle quali si vive, un complesso di relazioni tra elementi fisici, biologici e antropologici, in continua evoluzione (G. Vecchioni, N. Galiè, 2011)».
Oggi molti celebrano (in questi tempi di clausura, soprattutto sui social media) di aver avuto un parente in un borgo (abbandonato) della nostra montagna, altri vorrebbero (ri)costruire e utilizzare la casa di famiglia (ormai diruta), altri ricordano – come Marcel Proust nella Ricerca del tempo perduto – sapori dimenticati, altri ancora si scandalizzano per strade inutili che dovrebbero arrivare non si sa bene dove.
Ma il processo di abbandono del territorio da parte degli antichi abitatori e la riconquista dello spazio trascurato da parte della vegetazione è in atto da diverso tempo e, il più delle volte, con testimoni disattenti e/o silenziosi. Molte volte, le persone che parlano di recuperare il patrimonio abitativo e il “vivere secondo natura” sono le stesse che vedono con fastidio un animale selvatico che si avvicina alla città, favorito proprio da quell’abbandono del quale si è detto in precedenza.
È necessario un atteggiamento equilibrato, una visione diacronica che guardi a questi ambienti peculiari considerando la loro evoluzione nel tempo, secondo dinamiche legate al popolamento e alla natura dei luoghi: oggi, non è possibile ricostruire senza prevedere servizi (uno per tutti, una strada) così come non è corretto lasciare nell’abbandono il patrimonio immobiliare (e storico) che ancora è “in piedi”.
Occorre tener presente che gli antichi (nemmeno tanto, poi…) abitatori dei posti ora abbandonati, vedevano in maniera antinomica il loro lavoro (spesso di mera sussistenza) e la natura libera (quella che oggi definiamo wilderness): tagliare alberi per far legna e creare pascoli, dissodare coste, aprire sentieri e mulattiere nei boschi era il loro modo di stare nell’ambiente (primum vivere) ma, nello stesso tempo, erano i primi manutentori, le “sentinelle del territorio”. Anch’essi, a modo loro, sono stati quelli che il geografo Eugenio Turri, acuto indagatore delle «relazioni tra uomo e natura, tra cultura e natura», definiva “agenti trasformatori della natura e costruttori di forme”.
Una piccola digressione: fino a pochi anni fa, parlando con abitanti della nostra montagna dei benefici che poteva portare l’istituzione di un Parco Nazionale (magari presentando l’esempio del Parco abruzzese più antico) si riceveva, invariabilmente, come risposta: «Eh, ma non può fare più niente…». Ora i problemi sono altri (terremoti, isolamento, disagio negli spostamenti…); una volta risolte le difficoltà (anche parzialmente) si potrà passare alla seconda parte dell’aforisma (deinde philosophari), ai progetti.
Il disagio del vivere in luoghi ormai completamente urbanizzati e distanti dalla natura e dai suoi ritmi è stato espresso dagli scrittori meglio che dai naturalisti, filtrato dalla loro sensibilità; uno per tutti, Cesare Pavese (anche lui citato nell’articolo menzionato). Ma non è facile rinunciare alle comodità e scegliere uno stile di vita più “naturale”.
Una vi(t)a alternativa è quella di Laturo, borgo abbandonato tra i boschi della Valle Castellana e mai raggiunto da una strada: giovani volenterosi lo stanno facendo rinascere, con impegno e passione (leggi qui l’articolo). Ma non è una strada facile: in altre parole, non è pane per tutti i denti.
A questo punto, viene spontaneo domandarsi: è il caso di convogliare risorse su luoghi poco conosciuti (ma potenzialmente validi) o è meglio canalizzare gli investimenti sui principali attrattori storico-culturali, tralasciando altri scenari “minori”? È più opportuno puntare sul “facile e conosciuto” o cercare una via nuova di recupero del patrimonio, non solo culturale, del nostro territorio?
La risposta (o la non-risposta) a queste domande sarà fondamentale per poter salvare il salvabile, prima che i borghi della Laga diventino materia di studio per gli archeologi.
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