di Walter Luzi
Ottant’anni di età, e sessantacinque di attività, festeggiati nel 2020, l’anno del Covid. Giulio Azzari continua a lavorare ancora dodici ore al giorno nel suo laboratorio di pasticceria artigianale, a San Benedetto, fra i più longevi della riviera picena. Un patrimonio inestimabile di esperienza e conoscenza nel suo campo, che rischia di disperdersi senza un ricambio generazionale nell’azienda di famiglia. Vi raccontiamo la sua storia.
Giulio Azzari, quarto di quattro figli, è abruzzese di Sant’Egidio, precisamente della località Villa Mattoni. Classe 1940. Ha 5 anni quando, per malattia, muore il padre Giuseppe. La sua famiglia perde, oltre all’affetto, anche l’unico sostegno economico. Sono anni difficili. Al dolore si somma la miseria. Mamma Anna è costretta a tornare a casa dei genitori per sfamare i suoi figli. Parenti che coltivano la terra aiutano dando quello che possono. È la solidarietà più nobile. Quando si divide il poco che si ha con chi non ha nulla.
Giulio ha 11 anni quando la mamma Anna decide di trasferire tutta la famiglia a Rieti. Giulio, con le due sorelle, Olivia ed Ersilia, raggiungono così il primogenito Giovanni, trasferitosi nel Lazio già durante la guerra su chiamata dello zio Emidio.
«Non so neppure se ci fossero corriere di linea per Roma all’epoca – ricorda Giulio – certo è che non avevamo nemmeno i soldi per comprare i biglietti. Così come per il viaggio di ritorno, un paio di anni dopo, ci diede uno strappo un amico di parenti con il suo camion che andava e veniva dalla capitale».
Lo zio Emidio, detto “Bombolo”, aveva iniziato proprio a San Benedetto a fare bomboloni in casa del cugino, dalle parti dello chalet Medusa. Se li andava a vendere poi lui stesso, o in spiaggia, d’estate, oppure al porto, ai marinai. I pescatori meno giovani se lo ricordano ancora.
“Bombolo” si era poi trasferito a Rieti durante la guerra. Qui, inizialmente, i suoi clienti migliori erano stati proprio i soldati Alleati, quindi, con il lavoro che non mancava di certo, aveva chiesto al nipote Giovanni di raggiungerlo. Ma dura poco. Nel 1953 la famiglia di Giulio ritorna nelle Marche. Un cugino del padre trova loro casa a San Benedetto. Poco dopo li raggiunge anche Giovanni. I due uomini della famiglia aprono bottega il 22 dicembre 1955.
Nasce la pasticceria Fratelli Azzari.
«Anche se il pasticcere vero era lui – precisa Giulio – io avevo solo quindici anni e ancora troppo poca esperienza».
Il locale, piccolino, affaccia proprio sul centralissimo viale Moretti, dove oggi c’è il negozio “Verderosa”.
«Ci transitavano ancora le automobili all’epoca – ricorda sempre Giulio – che potevano parcheggiare proprio davanti ai pochi esercizi. All’isola pedonale di oggi ancora nessuno poteva pensare. I pochi chalet sulla spiaggia arrivavano, più o meno, fino all’altezza dell’odierno “Pescatore”. Tutto il resto, fino al campo Europa, era bellezza incontaminata di aperta campagna sul mare».
L’anno successivo una ulteriore spinta alla crescita delle neonata pasticceria arriva dal cielo.
«All’inizio del 1956 anche San Benedetto – racconta Giulio – venne colpita da eccezionali precipitazioni nevose. Il traffico restò bloccato a lungo, e dalla pasticceria di Acquaviva non poterono arrivare così in città i loro tradizionali maritozzi. Noi fummo molto avvantaggiati da questo involontario e imprevedibile, pur se momentaneo, quasi monopolio. In più, in bicicletta, io potevo assicurare lo stesso anche le consegne a tutti i bar e agli spacci di alimentari della zona che ci richiedevano i nostri prodotti».
Nel 1963, al rientro dal servizio militare di leva prestato in Sicilia, Giulio trova però ad attenderlo una brutta sorpresa.
«Il vecchio proprietario si era venduto il nostro locale dove eravamo in affitto – continua sempre Azzari – e l’acquirente ci aveva subito sfrattati. Ci siamo fatti intimorire dagli eventi, ma non sopraffare dall’incertezza del futuro. Non disponevamo di grandi mezzi economici, e così, in un locale che usavamo come magazzino in via Balilla, io e mio fratello abbiamo spostato subito il laboratorio. Nello stabile proprio di fronte, invece, ne abbiamo affittato un altro dove poter svolgere la vendita dei nostri prodotti».
La pasticceria Azzari comincia a farsi un nome. Gli affari vanno benone, e quando i proprietari lombardi del locale dove sono in affitto propongono loro di acquistarlo, non esitano. Anzi, scottati dalla precedente esperienza di viale Moretti, si comprano anche tutto il primo piano. Ci vogliono sacrifici, certo, per far fronte ai debiti, ma la soddisfazione di crescere ripaga abbondantemente la grande famiglia Azzari.
Giulio ha nel frattempo sposato Patrizia, una giovane e bella ragazza sambenedettese, che comincia subito a dargli una mano in negozio. Gli darà anche tre figli: Fabiola nel 1968, Annalisa nel 1971 e Giuseppe nel 1978. Anche Giovanni, dal canto suo, aveva già trovato, a Rieti, l’anima gemella. Nel 1975 i due fratelli Azzari ristrutturano la palazzina dove vanno ad abitare e dove, ancora oggi, al pianterreno c’è la pasticceria.
«Il nostro è un mestiere che non si improvvisa e non si apprende con un corso il pasticcere non finisce mai di imparare -rivela Giulio-. Deve vivere e respirare il laboratorio. I suoni e i vapori, i tempi e i profumi. C’è bisogno di buoni maestri, e di aggiornamenti continui. Ma ci devi mettere anche del tuo. Sperimentare. Provare e riprovare. Creme, sfoglie, lievitazioni. Le moderne tecnologie e le nuove materie prime possono aiutare, ma quasi mai migliorano la qualità del prodotto finale. La crema è fatta di latte, uova, farina e zucchero. Oggi invece basterebbe tirare fuori una polvere da un sacco, impastarla con l’acqua, e la crema è fatta. Un cornetto fatto in serie e congelato non è che faccia male, ma la pasticceria artigianale è un’altra cosa».
La coppia vincente dei fratelli Azzari si scioglierà nel 1993. I problemi di salute di Giovanni, e l’indisponibilità dei suoi figli a continuare nell’attività di famiglia, impongono la messa a riposo. Giulio invece continua. Rinnova le attrezzature e ristruttura il laboratorio. Il suo regno.
Sia Giulio che il fratello Giovanni non hanno ancora nessuno in famiglia intenzionato a raccogliere la pesante eredità. Nessuno a cui tramandare i mille segreti della pasticceria. Ci proveranno tutti a fare il mestiere dei papà. Ma è dura. Molto dura.
«Il mio lavoro richiede molti sacrifici che alle nuove generazioni pesano troppo -spiega Giulio-. Le grandi pasticcerie artigianali a gestione famigliare che c’erano a San Benedetto prima di noi, come la Giammarini o la Pierazzoli, oggi non ci sono più, o hanno cambiato gestione. Se non c’è ricambio in famiglia non vai avanti. E il ricambio generazionale, oggi, è sempre più difficile. Sempre più raro che figli o nipoti prendano in mano certe aziende di famiglia. Soprattutto quelle ti fanno iniziare alle due di notte, ogni notte, e lavorare, senza pause, fino alle due del pomeriggio. Tutti i giorni dell’anno. Ma noi, quelli della mia generazione, avevamo passione e fame, voglia di far bene, e di farci strada nella vita. I giovani di oggi non hanno alcuna necessità, bisogno, o ambizioni per sopportare i duri sacrifici che un mestiere del genere, inevitabilmente, comporta».
Se non cominci alle 2, non puoi uscire in consegna con i cornetti caldi, appena sfornati, alle quattro e mezza. Ogni mattina. Ci hanno provato, suo figlio e il figlio di suo fratello. Non ce l’hanno fatta. Oggi sono rimasti in due i laboratori artigianali di pasticceria a San Benedetto: Azzari e Bruni. Quest’ultimo era un ex allievo della pasticceria Perazzoli, che successivamente ha passato la mano facendo mantenere il nome all’attività.
«Nel mio mestiere -confessa ancora Azzari- ci vuole innanzitutto passione. E serietà. A cominciare dalla scelta delle materie prime. Le migliori. Ognuno poi ha i propri segreti. Magari rubati. Ma ci vuole amore per le cose che fai. Solo così arrivano i complimenti da chi assaggia, ogni giorno, quelle delizie che tu crei, dal nulla, ogni notte».
Giulio a 80 anni, che non dimostra, e che non gli pesano, fa ancora casa e bottega. Sempre reperibile, anche a negozio chiuso. I vecchi clienti affezionati e gli amici lo sanno, e un po’, se ne approfittano pure. Cinque dipendenti oggi, dai tredici degli anni d’oro. Ma la sua presenza costante in laboratorio è sempre indispensabile. Anche solo per guardare come vanno le cose, come scorre il lavoro. Un occhio esperto a vigilare su ogni fase. E non solo.
«Non riesco ad essere spettatore – confessa – all’occorrenza metto spesso e volentieri anche le mani in pasta. Quando è il momento di darci dentro, sono il primo a non risparmiarmi. Stento ad immaginare la mia vita senza il mio laboratorio. Questa città ci ha accolto con calore. Questo lavoro ci ha dato il benessere. Ma credo che un po’ di merito sia stato anche nostro. Qualcosa di buono ci abbiamo messo anche noi…».
Quattro nipoti. Tre studiano, anche brillantemente. «Sono bravi. Gli augurerei del male ad augurargli di fare il mio lavoro», ci scherza su amaro, Giulio.
L’unico nipote che porta il suo cognome è il più piccolo. Si chiama Iago e ha dieci anni. Viene spesso a salutare nonno Giulio in laboratorio. Gli piace stare a impiastricciarsi le dita con le creme e imbiancarsi le mani di farina insieme a zia Fabiola. Per lui è solo un gioco. Però è un buon segno.
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