testo e foto di Gabriele Vecchioni
Questo articolo è la prosecuzione del precedente, dedicato all’opera dei monaci nella valle del Chienti, un territorio segnato profondamente dalla loro presenza, che ha contribuito a scrivere la storia quotidiana della gente (leggilo qui). La relazione dei monaci con la popolazione era costante: oltre all’aspetto religioso, la loro presenza ha dato impulso allo sfruttamento razionale del suolo, favorendo i lavori agricoli e permettendo il miglioramento delle condizioni di vita dei contadini.
Nella bassa valle cluentina il presidio territoriale benedettino era notevole, costituito da una fitta rete di edifici religiosi, ben quattro abbazie e diverse chiese. La prima struttura, quella di Santa Maria a pie’ di Chienti, a Montecosaro, è stata analizzata nel precedente pezzo; ora è il “turno” delle altre.
San Claudio al Chienti. All’abbazia, sita nel territorio comunale di Corridonia, si arriva percorrendo un viale alberato lungo 1 km circa, sul modello toscano (la piantumazione dei cipressi avvenne nel 1934 grazie a Mons. Attuoni, Arcivescovo di Fermo). Già dall’esterno, il tempio appare “doppio”: l’edificio sacro è costituito, infatti, da due chiese sovrapposte, ognuna con un proprio ingresso, collegate da uno scalone esterno.
San Claudio era una “chiesa plebana” (chiesa rurale con fonte battesimale); quella superiore era riservata al Vescovo di Fermo che aveva qui la residenza estiva e la cui diocesi era proprietaria dell’abbazia.
Documentata dal sec. XI, ma eretta fin dai secc. V-VI sui resti di una villa romana, è una delle più importanti e antiche testimonianze dell’architettura romanica nelle Marche, ancora integra nella sua conformazione originaria. Nel volume Italia romanica (2002), l’architetto Paolo Favole definisce San Claudio e le altre tre chiese “simili” delle Marche (un’altra è San Vittore alle Chiuse, a Genga), come «deutero bizantine a croce greca inscritta in un quadrato».
La chiesa presenta numerose particolarità tipologiche: ha una pianta articolata internamente con quattro pilastri a formare una croce greca (con i bracci uguali) inscritta in un quadrato, una forma legata a influenze bizantine, con le torri circolari vicine al modello ravennate. Sono presenti absidi semicircolari sui fianchi e sul lato orientale; i volumi e le superfici murarie esterne, con archetti ciechi e lesene, rivelano influenze lombarde.
Studi recenti fanno derivare la costruzione da modelli occidentali dell’Europa settentrionale, rintracciabili nelle cappelle palatine a due livelli, nelle terminazioni absidali triconiche di area tedesco-lombarda e nelle facciate affiancate da torri (con esempi presenti in Normandia, in Germania e in Lombardia).
All’abbazia e ai suoi presunti legami con la corte di Carlo Magno e la Cappella Palatina di Aachen-Aquisgrana sono stati dedicati diversi volumi e documentari, alcuni dei quali rintracciabili in rete: chi volesse approfondire l’interessante tema può fare riferimento ad essi.
Abbazia di Chiaravalle, a Urbisaglia. Il nome è tipico delle abbazie cistercensi perché allude alla trasformazione della “valle di lacrime” (la lacrimarum valle del Salve Regina) in una valle luminosa, la clara vallis. Ricordiamo, poi, che spesso le abbazie cistercensi assumevano il nome della casa-madre, essendo loro gemmazioni (in questo caso, Milano).
Nel 971 era presente, sul luogo, una piccola chiesa; nel 1142, il duca di Spoleto, Guarniero II, donò il vasto territorio compreso tra il Chienti e il torrente Fiastra all’abate Bruno dei monaci cistercensi dell’Abbazia di Chiaravalle di Milano.
I dodici monaci inviati per insediarsi nelle nuove proprietà, scelsero un’insenatura del torrente e iniziarono la costruzione dell’abbazia, impiegando materiale di spoglio proveniente dalla vicina città romana di Urbs Salvia, distrutta dai Visigoti di Alarico nel 408-409. Nel contempo, iniziarono un’opera di bonifica del territorio, paludoso e ormai inselvatichito. I monaci organizzarono il territorio agricolo dell’abbazia in sei grange (aziende agricole), la più importante delle quali è il Castello della Rancia di Tolentino.
Una breve digressione. Sotto le mura del castello ebbe luogo (1815) un importante scontro che vide gli Austriaci del generale Bianchi battere l’esercito napoletano di Gioacchino Murat; dopo l’evento (considerato la prima battaglia del Risorgimento), il legato apostolico Tiberi affermò: «Ci lusinghiamo che più non esistano partigiani di una chimerica indipendenza [i fatti lo smentirono dopo appena quarant’anni…, NdA]».
Oltre alla chiesa, fu costruito il complesso monastico, composto di chiostro, refettorio, con annessi produttivi e tutto quanto potesse servire alla vita dei numerosi monaci.
Nel sec. XIII, il monastero ospitava ben 200 monaci e controllava 33 chiese e gran parte del Maceratese, fino a Numana, nell’area del Cònero. Oltre ad essere un rilevante centro economico, l’abbazia diventò importante anche per il suo Scriptorium, come testimoniano le 3194 pergamene (le cosiddette Carte Fiastrensi), conservate presso l’Archivio di Stato di Roma. Nei secc. XIV e XV il monastero si avviò verso un lento declino, a cominciare da una serie di eventi disastrosi come il saccheggio da parte di Giovanni Acuto (1381) e quello per mano della soldataglia di Braccio da Montone (1422), durante il quale fu abbattuta la copertura a vòlte della chiesa e la torre nolare (sopraelevata dalla crociera del transetto) e furono uccisi numerosi religiosi.
Dal 1456 l’abbazia fu sottoposta a regime commendatario (l’affidamento di beni ecclesiastici a una persona di fiducia nominata non dalla comunità monastica ma dal Pontefice – una nomina politica, insomma), prima del cardinale Borgia (il futuro papa Alessandro VI) e poi del cardinale Sforza.
La loro gestione fu il colpo di grazia, come scrisse Andrea Antinori (1987), riferendosi alla situazione di crisi del sec. XVI: «In un quadro di crisi ambientale, rispetto ai secoli precedenti, ma anche economica e sociale […] Un periodo in cui tutte le fondazioni monastiche registrano una crisi profonda e i monasteri più isolati vengono abbandonati e a volte scompaiono del tutto, mentre altri vengono ceduti alla gestione commendataria che dissolverà l’intero patrimonio accumulato nei secoli precedenti».
Nel 1586 Gregorio XIII l’affidò ai Gesuiti ma la convivenza durò ben poco e i monaci se ne andarono; nel 1773 (alla soppressione dei Gesuiti), la Chiesa e tutti i suoi beni furono donati a Alessandro Bandini e, alla sua morte, al figlio Sigismondo che, nei primi anni del sec. XIX, fece costruire sul lato sud del chiostro la sua residenza in stile neoclassico. Alla sua morte senza eredi, il tutto fu affidato alla Fondazione Giustiniani Bandini che ancora oggi la amministra.
Il chiostro, ricostruito nel sec. XV, conserva al centro il pozzo che si apre sulla cisterna per la raccolta di acqua piovana. Intorno ad esso prospettano gli edifici della struttura monastica: la sala del capitolo, l’auditorium, lo scriptorium, il dormitorio (sostituito in parte dal Palazzo Bandini), la sala delle oliere, il refettorio dei conversi e il cellarium.
Completano la struttura il magnifico parco, un’area naturalistica con percorsi escursionistici e per mountain bike, il Museo del Vino (nelle cantine del monastero) e la Raccolta archeologica dei reperti di Urbs Salvia (nella Sala delle Oliere).
Dopo essere tornati (nel 1984), i monaci cistercensi hanno di nuovo “abbandonato” la struttura nell’agosto 2018, nell’ambito di una politica generalizia che prevede di lasciare in via definitiva l’abbazia di Chiaravalle di Fiastra. La comunità monastica di sei elementi (ma nel 2011 erano 14) è stata “ritirata” nonostante costituisse ormai un sicuro punto di riferimento per i frequentatori: probabile preludio alla trasformazione definitiva dell’area in un altro, banale polo commerciale e turistico.
Alla “lista” appartiene un’altra antica, magnifica chiesa, quella di Santa Maria di Rambona, a Pollenza. Purtroppo, l’edificio ha subito gravi danni per il terremoto del 2016-17 ed è attualmente inagibile.
Dell’antica costruzione, innalzata sui resti di un tempio pagano dedicato alla dea Bona (il nome Rambona deriva da Ara Bonae), rimane solo il presbiterio e la cripta; le navate sono state trasformate (già in epoca altomedievale) in abitazione privata. In pratica, solo le tre splendide absidi semicircolari ricordano le linee dell’edificio primitivo (secc. XI-XII). All’interno, un interessante affresco raffigura Sant’Amico (che fu anche abate di Rambona) che parla con il lupo e lo ammansisce, qualche secolo prima dell’analogo episodio che vide protagonista San Francesco.
La valle delle abbazie Presenze monastiche in Val di Chienti
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