di Walter Luzi
“L’asculà”, il cocomeraio più popolare della riviera adriatica, festeggia i settant’anni di attività. Dai primi di giugno fino al 31 agosto, anche in questo fatidico 2021, sarà punto di riferimento storico delle lunghe estati sambenedettesi. Settant’anni di vita, tondi tondi, compie quel chiosco. Un pezzo di vita, e di storia, sambenedettese che resiste con fierezza.
Sono Giancarlo e Manuela Farnesi a perpetuare, per primi, la memoria e le fatiche dell’asculà. Adriano Farnesi. Il loro papà. Che nel lontano 1951, a San Benedetto, avviò l’attività. Una bella storia che merita di essere raccontata.
Lui, Giancarlo, in realtà, si chiama Gianfranco, ma lo ha scoperto solo il primo giorno di scuola, alle elementari. All’appello, ovviamente, non rispose “presente!”, quando il maestro chiamò Gianfranco. Succedeva spesso a quei tempi, quando si andava a registrare in Comune la nascita dei figli anche diversi giorni dopo il lieto evento. Classe 1954, lui diventa presto “l’Asculanitte”, figlio cioè dell’”Asculà” originale, il papà Adriano.
Ma la storia di questa famiglia di cocomerai inizia nelle campagne di Ascoli molto tempo prima. A Castagneti, in aperta campagna alle porte della città. Periferia predestinata alla nascita incombente della sua prima zona industriale, già a metà degli anni Cinquanta. Il nonno di Giancarlo, Cesare, i cocomeri li vendeva già al chiostro di San Francesco in Ascoli. Era conosciuto con il nomignolo di “Settepannella” per il suo vezzo di portare sempre canotte e camice fuori dai pantaloni. Con i figli Adriano, Alighiero, Arnaldo e Alceo, in estate vendeva i cocomeri anche all’incrocio per il viale della stazione. Nonno Cesare e i suoi figli andavano a coglierseli di persona nelle piantagioni della Sentina e della Val d’Aso. Oppure li acquistavano a Borgo Sabotino e Borgo Grappa, piccoli centri rinomati per questa coltura proprio a ridosso del Circeo, o ad Aprilia, sempre in provincia di Latina.
Il papà di Giancarlo, Adriano, aveva il suo banco frutta al mercato del bellissimo chiostro maggiore di San Francesco a due passi da piazza del Popolo. Destino vuole, proprio davanti alla pescheria comunale, ospitata nell’adiacente oratorio San Francesco. Lì dentro vende il pesce fresco, esposto sui grandi tavoli in marmo, Alba Pasquini, una giovane e bella sambenedettese. Se ne innamora, e la sposerà nel 1953. Per lei si trasferisce in riviera, e si integra perfettamente nella sua città. Al di là di ogni campanilismo. Basti pensare che arriverà anche ad abbonarsi alle partite interne della Samb, l’asculà. Un appellativo che non assumeva alcuna accezione discriminatoria, ma che era solo indicativa della sua provenienza…geografica.
L’attività di cocomeraio Adriano la inizia a San Benedetto, come detto, nel 1951. Ha il bancone proprio vicino alla fontanella del vecchio mercato ortofrutticolo. Ambulante a posto fisso, in società con i cognati anche nell’esercizio di frutta e verdura che, invece, opera tutto l’anno. Il cognato Nazzareno Pasquini, Zì Nanitt’, Vincenzo “Aldo” Pignotti, e, più tardi, Lino Gaetani, sono i suoi soci.
A sei anni Giancarlo passa già i pomeriggi d’estate alla bancarella insieme alla mamma. Solo qualche anno dopo si occupa anche delle consegne del pesce nei piccoli centri dell’interno. La nonna baratta infatti il pesce con altri beni, come salsicce, o formaggi fatti in casa. Non gli fornisce indirizzi, non c’è google maps a indicare la via. La gente si rintracciava, soprattutto nei piccoli paesi, solo grazie al proprio soprannome. Quando il bancone dei cocomeri si sposta, nel 1960, in piazza Garibaldi, Farnesi, “l’asculà”, e i suoi soci trovano preziosa collaborazione in Emma Feliziani. La signora, che abita nella casa proprio alle spalle del chiosco (dove oggi c’è un negozio di ottica), permette loro di allacciare un cavo elettrico volante per garantire l’illuminazione del bancone di notte.
«Il cavo lo lasciavamo sempre steso – racconta Giancarlo – e quando imbruniva giravamo la lampadina per accenderla. Non c’era infatti nemmeno l’interruttore. E fu Raffaele Braccetti, che gestiva la tabaccheria a fianco, a dirimere la disputa su quale dovesse essere la potenza della lampadina. “Ve ce la vuole da 100 candele”, sentenziò lui. E così facemmo».
La tabaccheria Braccetti c’è ancora, come allora. «Le bucce si buttavano in grossi barili di olio usati e riciclati tagliandoli a metà – racconta sempre Giancarlo – a cui poi applicavamo dei maniglioni per poterli trasportare. Le bucce erano molto richieste dagli allevatori dell’entroterra e non esisteva il moderno problema dello smaltimento, perché si davano in pasto agli animali. Ricordo bene la montagna di bucce in strada, dopo la grande festa della Madonna della Marina, quando in città scendevano per l’occasione migliaia di persone dall’intera provincia. In piazza San Giovanni Battista posteggiavano i tantissimi pullman che li portavano a San Benedetto. In quei tre giorni ininterrotti di festa le bucce di cocomero ricoprivano completamente la strada. Ci si camminava sopra addirittura, tante ne erano. I contadini venivano poi con i carri, o con le apette, il giorno successivo, a caricarsele. E ci ricompensavano pure, con salsicce, salami e caciotte».
I cocomeri, allora, l’asculà e i suoi soci li tenevano freschi con il ghiaccio che prendevano, a blocchi, da Biagini, per poi immergerli nei tini di legno. Un sistema artigianale di refrigerazione che però dava luogo a qualche piccolo inconveniente. «Anche se coprivamo poi i tini con i sacchi di iuta -racconta sempre Giancarlo- per non far disperdere il freddo, il lato dei cocomeri a contatto con i blocchi si raffreddava infatti molto di più rispetto a quelli non lo avevano. Ci voleva fortuna poi a beccare sul bancone la fetta giusta, quella più ghiacciata. Ricordo ancora i vaffa degli amici più cari, quelli che passavano ogni notte a trovarci dopo la chiusura della Palazzina Azzurra. Falà, Totozz’, Tato Tatuscia, Bacò, ‘U baron’, fra i tanti altri, si sedevano sempre a mangiarsene una fetta prima della chiusura, intorno alle due».
Una goduria, dopo la calura della giornata. Una gioia per il palato e per lo spirito, sotto le stelle, in ottima compagnia. Il massimo della vita, da condividere insieme agli amici, in un’epoca che non offriva tante alternative di svago e relax. Ma che non faceva neanche sentire, nonostante tutto, desiderio di altri, più trasgressivi, sballi notturni. Che oggi, invece, abbondano. Ma che non riescono a riempirci il cuore come riusciva a riempircelo il poco di allora. I più giovani, Giancarlo, Giacomo Cumò Gaetani e Francesco Ceccò Pignotti, restavano poi, a turno, a guardia dei cocomeri fino alla mattina dopo. Si sacrificavano volentieri per permettere così ai rispettivi padri di riposare.
«È stato durante quelle notti insonni – continua sempre Giancarlo – che cominciai a pensare ad una maniera migliore di raffreddamento dei cocomeri. Pensai ai nostri vecchi che, una volta, li mettevano a raffrescare nel pozzo. Immersi nell’acqua. Noi dovevamo fare come loro. Ne parlai con un amico frigorista, Nazzareno Galieni, che passava anche lui a tarda ora, dopo la chiusura della sua gelateria, a gustarsene una fetta. Notte dopo notte, concepimmo insieme un prototipo artigianale di condizionatore che potesse permetterci di raffreddare un gran numero di cocomeri, contemporaneamente, e in maniera uniforme, nelle vasche in vetroresina piene d’acqua. Dopo quasi trent’anni quel prototipo, costruito artigianalmente, funziona ancora perfettamente. Ed è un toccasana per il frutto, che, raffreddato in un liquido, non si asciuga, e non perde sapore».
«Una volta – continua sempre Giancarlo – aprivamo la bancarella l’8 luglio e chiudevamo il 25 agosto. Nel 1966, lo ricordo perché feci la prima comunione quell’anno, la prolungammo fino a ottobre perché piovve tutta l’estate e dovevamo pur smaltire tutti i cocomeri acquistati. Oggi la stagione è più lunga ma il clima è impazzito. Pranzavamo al ristorante “Vittoria”, che con il “Roma” sorgeva nei pressi della stazione, e da lì davanti potevamo sorvegliare la nostra bancarella. Oggi non esistono più. Ai loro posti ci hanno costruito due palazzi».
I tavolini, che fecero la loro comparsa nel 1990, per permettere agli avventori di potersi gustare la fetta comodamente seduti, oggi hanno anche gli ombrelloni. Tappa abituale per molti. Sambenedettesi e non. «Durante un soggiorno con amici alle Terme di Abano un cameriere veneto ci ha raccontato, senza sapere chi fossimo, di una sua vacanza passata sulla Riviera delle Palme, e dell’immancabile, indimenticabile, quotidiana fetta di anguria, come la chiamano loro, gustata fresca e dolcissima, a piazza Garibaldi». Era il ricordo più vivo della sua vacanza. Sono soddisfazioni.
Oggi si scoprono proprietà provvidenziali del principe della famiglia delle Cucurbitacee, che comprende anche meloni, zucche, cetrioli e zucchine. Basso contenuto calorico, dissetante, zeppo di vitamine, minerali e antiossidanti. Previene ipertensione, cistiti e infiammazioni. Dicono anche che funzioni parecchio, pensate la Divina Provvidenza, anche come una sorta di Viagra naturale. Benedetto Citrullus Lanatus.
Giancarlo ha due sorelle. Manuela e Daniela “Elena”. Anche la moglie di Giancarlo, Basilia Olivieri, originaria di Castorano, lavora ai banchi della frutta. Si sono sposati nel 1978. L’anno dopo nasce Elisa. Nel 1986 arriva Laura.
L’asculà se ne è andato nel 2006, quattro anni dopo essere rimasto vedovo. Un lutto che lui non era mai riuscito a metabolizzare. Ma fino alla fine non ha smesso di affettare cocomeri, in estate, con il grande coltello, sul tavolo della sua bancarella.
Oggi, la notte, c’è un vigilantes a guardia dei cocomeri in piazza Garibaldi. Al bancone, con Giancarlo ci sono solo donne a raccogliere, degnamente, l’eredità di Adriano, l’asculà. C’è la sorella Manuela, le nipoti Teresa ed Alba, due figli di cugini e qualche aitante giovane assunto stagionale. Perchè per fare il cocomeraio ci vuole un fisico bestiale.
Lo scarico dai camion, a settanta, ottanta quintali alla volta, uno ad uno, di braccia in braccia, a catena, è una festa ogni volta. Perchè questo è un lavoro che riesce a mettere allegria anche alla fatica. Ma è tosta, perché i cocomeri pesano. E bisogna anche trattarli con delicatezza, quasi con amore, per evitare che si danneggino. Vanno selezionati, e posizionati man mano che maturano, sapientemente accatastati.
«Cerchiamo comunque di continuare a dare questo servizio. Anche se ogni anno che passa, Covid a parte, è sempre più difficile – va avanti Giancarlo – i cocomeri oggi arrivano dalla Sicilia e dal Veneto, da Pachino e da Rovigo ma anche dal vicino Abruzzo».
«Privilegiamo prodotti di alta qualità – illustra sempre Giancarlo “l’asculà” – e dal bassissimo utilizzo, nella loro coltivazione, di prodotti chimici. Non ci preoccupiamo dei controlli sanitari, che pure sono sempre più serrati, ma, principalmente, di servire un prodotto sano ai nostri clienti».
Ma da che cosa si capisce se un cocomero è veramente buono? Ogni avventore ha la sua ricetta, ma di fronte all’asculà c’è solo da imparare: «La pelle chiara ti dice se è maturo – spiega– ma quello che conta davvero è il sapore. Alla gente piace vedere il colore rosso vivo, ma spesso accade che proprio questo deluda per il sapore. Noi dobbiamo vendere il sapore, non il colore. E il sapore più dolce ce l’hanno i frutti di Pachino. Sicilia. Terra bella. Terra forte».
Con due figlie femmine che hanno già la loro vita, l’Asculà guarda con preoccupazione al futuro dell’azienda. Elisa, è psicologa e insegna, ma d’estate è lei che gestisce il secondo chiosco, quello sul lungomare, nei pressi dell’ex camping. La secondogenita, Laura, ha sposato invece un calciatore, Cristian Bonaiuto, che ha giocato nell’ultima stagione a Cremona, in serie B, e gira per l’Italia insieme a lui. Sta cominciando un’altra lunga estate a San Benedetto. I turisti tornano a cercare refrigerio al chiosco di piazza Garibaldi. Non c’è niente di meglio che una fetta ghiacciata di buon cocomero. Ma anche ma gli anni cominciano a pesare ai figli di Adriano, l’asculà.
«Abbiamo ricevuto anche delle buone proposte per cedere l’attività – conclude Giancarlo – ma sono certo che se tornasse papà, ci ammazzerebbe già solo per averla pensata una cosa del genere. Ne abbiamo parlato insieme. Finchè ce la faremo andremo avanti, io e mia sorella Manuela, con l’aiuto delle nostre figlie. Teresa, Alba, Elisa. Abbiamo un nome da difendere, una tradizione. In quel chiosco di cocomeri c’è tutta la storia della nostra famiglia».
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