di Gabriele Vecchioni
(foto di C. Perugini e G. Vecchioni)
Torre di Palme è una frazione del comune di Fermo; si tratta di un bellissimo borgo medievale, un’antica sede vescovile costruita su una rupe a picco sul mare. Come altre realtà similari e poiché il territorio lo consentiva, presentava una doppia funzione, difensiva e commerciale: il paese alto e la cosiddetta “marina” (nell’attualità, Marina Palmense), sviluppatasi nel tratto pianeggiante vicino all’arenile. Torre di Palme è uno dei borghi storici più belli delle Marche, perfettamente conservato e con una grande omogeneità stilistica degli edifici.
Lo schema compositivo del borgo è ricorrente nelle Marche e contraddistingue i castra medievali del nord del Pesarese fino ai centri fortificati dell’Anconetano. Nella zona meridionale della regione le marine erano semplici attracchi costieri, al servizio dei centri più importanti dell’interno; più tardi si svilupparono gli attuali centri costieri d’altura. All’argomento è stato dedicato un articolo qualche tempo fa (leggilo qui).
In quella occasione, la storia quasi millenaria del borgo fu sintetizzata in poche righe: «Torre di Palme (secc. XII-XIII) è uno dei borghi storici più belli delle Marche, perfettamente conservato e con una grande omogeneità stilistica degli edifici. Era l’avamposto dell’antica Palma, fondata nel sec. VI AC dai Piceni e definita dal greco Strabone “approdo navale strategico” dell’Ager Palmensis (la zona costiera tra i fiumi Tesino e Chienti); la colonia romana di Fermo (264 AC) ne controllava i traffici. Intorno alla turris d’avvistamento si insediarono i monaci agostiniani e gli abitanti sopravvissuti di Palma, semidistrutta dalle ripetute incursioni piratesche: nacque così Turris Palmae».
Il centro merita una visita non superficiale perché, oltre ad essere uno dei balconi panoramici più interessanti delle Marche – con una veduta realmente spettacolare sull’Adriatico e la linea di costa – presenta, all’interno dell’incasato, diverse emergenze monumentali: la chiesa di San Giovanni (sec. XI), il Palazzo dei Priori (il nucleo originario è del sec. XII) e la parrocchiale di Sant’Agostino (sec. XIV) che, all’interno, custodisce un polittico di Vittore Crivelli, fratello del più famoso Carlo); nel punto più elevato, la chiesa romanica di Santa Maria a Mare (secc. XI e XVIII) e l’Oratorio di San Rocco (sec. XII), entrambe sulla Piazza del Belvedere, chiudono lo scenografico balcone panoramico sull’Adriatico e sui centri litoranei vicini.
Nei pressi del paese, c’è il Boschetto di Cugnòlo (così denominato dal nome della contrada cui appartiene territorialmente), che vegeta su una duna fossile di sabbie marine giallastre del Pliocene (5-2,5 milioni di anni fa), in alcuni tratti ghiaiose e ciottolose; si raggiunge con un facile sentiero che costeggia la forra del Fosso Cupo, a meridione delle case; il percorso offre suggestivi scorci dell’incasato di Torre di Palme e, in alcuni tratti, del litorale. Il bosco (una fascia lunga circa 500 metri, estesa poco meno di 10 ettari – 7 ettari e mezzo, per l’esattezza) è uno dei rari lembi residui della macchia mediterranea del litorale adriatico, insieme ai boschi del Cònero e a quelli della penisola del Gargàno, in Puglia. Per la precisione, è un’area degradata di macchia primaria – foresta sempreverde; è un’ “area relitta” inclusa nell’elenco delle Aree Floristiche Protette della Regione (LR 52/74).
Nel volume “Le emergenze botanico-vegetazionali della Regione Marche” (1992) Ballelli e Pedrotti specificavano che «Si tratta di un piccolo boschetto relitto di macchia mediterranea, completamente circondato da coltivi, in prevalenza abbandonati, governato a ceduo con matricine di notevoli dimensioni e querce secolari isolate. La vegetazione arborea e arbustiva presenta una composizione abbastanza eterogenea […] Si tratta di un bosco di leccio che, pur essendo situato a ridosso del mare, per la presenza di specie mesofile come Carpinus betulus, Quercus robur e Laurus nobilis [rispettivamente, càrpino bianco, farnia e alloro, NdA], si inquadra nelle leccete di tipo mesofilo».
Tra la vegetazione lussureggiante è possibile incontrare querce, corbezzoli e piante di alloro allo stato spontaneo. Riguardo a quest’ultima pianta, il Bosco del Cugnòlo è, insieme con l’area del Cònero, il posto più a settentrione della Penisola dove è possibile incontrare il Laurus (l’alloro) allo stato spontaneo.
Un breve percorso di circa 2 chilometri, segnalato e attrezzato con staccionate e ponti di legno, conduce alla cosiddetta Grotta degli Amanti, singolare struttura geologica aperta nei depositi ghiaiosi e nascosta nel folto della macchia. Il sentiero è segnalato e ben curato e non presenta difficoltà escursionistiche.
La Grotta degli Amanti. Alla grotta – una piccola cavità con due aperture – è legata una storia recente, romantica e tragica al tempo stesso.
Gli eventi risalgono all’inizio del secolo scorso. Nel 1911, durante la guerra coloniale intrapresa dall’Italia contro la Turchia per la conquista della Libia, al giovane soldato palmense Antonio fu concessa una licenza di pochi giorni. Tornato a casa e ritrovati gli affetti familiari e quelli della promessa sposa Laura (Laurina, figlia di contadini dell’Agro palmense) non ebbe la forza di tornare a combattere una guerra che sentiva “lontana”; decise di disertare, senza pensare alle conseguenze del suo gesto estremo (era tempo di guerra).
I due ragazzi (gli “amanti” della storia) si nascosero in una grotta, all’interno del Bosco del Cugnòlo, per un’intera settimana; venivano aiutati dai pescatori del luogo che fornivano loro pane e sarde. L’avventura terminò quando seppero che Antonio era ricercato come disertore dai Carabinieri; si nascosero per un po’ in una chiesetta silvestre ma poi, presi del rimorso e impauriti dalle conseguenze del loro gesto, si gettarono dal dirupo del Fosso San Filippo, legati dallo scialle della ragazza. Il volo di circa 70 metri su fatale per la donna che morì sul colpo; il ragazzo rimase paralizzato e fu piantonato in ospedale in attesa di essere processato. Morì dopo qualche mese.
Il drammatico evento viene ricordato dal toponimo che nasconde, dietro la romantica definizione, la tragica realtà dei fatti.
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