di Gabriele Vecchioni
Quello della transumanza è un fenomeno complesso e affascinante diventato, dal dicembre 2019, Patrimonio immateriale dell’Umanità dell’Unesco e analizzato in numerosi convegni e opere a stampa. Non è facile raccogliere tutte le informazioni relative all’argomento nel breve spazio di un articolo; in questo pezzo esamineremo le linee generali dell’assunto, rimandando quanti fossero interessanti ad approfondire il tema a opere specialistiche. Per la stesura di questo articolo sono stati in parte utilizzati, e rielaborati, testi scritti con l’amico Narciso Galiè per diversi lavori realizzati nel corso degli anni e relativi a percorsi escursionistici nel territorio piceno e abruzzese.
Prima di continuare, è opportuno specificare che la transumanza “classica” dell’Italia centro-meridionale è quella abruzzese e molisana; esisteva, in realtà, anche una transumanza dai territori umbri e marchigiani verso aree della costa tirrenica (i pastori si spingevano fino all’Agro pontino che, prima della bonifica, non aveva altra utilizzazione oltre a quella della pastorizia) e anche nelle nostre zone veniva effettuata, fino agli anni ’60 del Novecento, una migrazione stagionale in scala ridotta: le greggi di ovini venivano portate a svernare alla Sentina, una zona costiera dal clima più mite.
L’area litoranea ricade nel territorio del comune di San Benedetto del Tronto ma è di proprietà di quello di Ascoli; l’anomalìa è dovuta al fatto che essa fu donata all’Amministrazione del comune piceno dall’ultimo conte Sgariglia, morto senza eredi. La famiglia ascolana degli Sgariglia l’aveva acquistata proprio per utilizzarla come luogo per far svernare le sue greggi della Montagna dei Fiori.
La pastorizia (la cosiddetta “industria armentizia”) dei Sibillini, pur se economicamente importante, non ha mai raggiunto la consistenza numerica dell’allevamento ovino del versante adriatico: al massimo, si è arrivati a un milione di capi.
Qui di seguito sono riportati due brani di un precedente pezzo (leggilo qui) che chiariscono perché nell’area dei Sibillini la transumanza veniva effettuata verso la costa tirrenica: «Già a metà Cinquecento le greggi dei Sibillini non possono più transumare nelle valli picene, ormai chiuse al loro passaggio dai campi, e debbono invertire i loro percorsi verso le Maremme toscane e laziali (O. Gobbi, 1994)» e «Tra Ottocento e Novecento, nella spiccata caratterizzazione economica di tipo agricolo, si impone il prevalere dei seminativi nella fascia collinare e della pastorizia in quella montana. Qui l’allevamento ovino avviene secondo lo schema della transumanza in direzione tirrenica, verso la campagna romana e la Maremma, ma anche adriatica. Le greggi seguono sentieri abituali che, se non hanno i caratteri dei tratturi del vicino Abruzzo, rappresentano percorsi ripetuti dai mandriani, dalle loro famiglie, dai migranti stagionali (B. Egidi, 1994)».
Ma torniamo all’argomento dell’articolo. La morfologia dei monti abruzzesi e la natura pietrosa del suolo non consentivano, fino a poco tempo fa, altre attività oltre alla pastorizia che avveniva secondo i ritmi dettati dalle stagioni.
La transumanza legata all’allevamento ovino è sinonimo di pastorizia trasmigrante (il termine deriva dal latino (da trans, attraverso, e humus, terra): era un evento che permetteva di condurre annualmente, fin dalla remota antichità, milioni di pecore dall’Abruzzo alla Puglia.
Ettore Janni, in Pastori d’Abruzzo (1925) così sintetizza l’evento: «Coi primi freddi e con le prime caligini crepuscolari, passano lungo il tratturo – una speciale strada erbosa che va lungo il mare alle Puglie, dai ricchi pascoli e dalla mite temperatura invernale – grandi greggi, agili capre innanzi, pecore obbedienti dietro, formidabili cani ai lati: i pastori dall’alta mazza, memore del lituo etrusco, intagliata di pazienti disegni, di figure e di nomi, vegliano alla compattezza del branco».
La pastorizia. «L’allevamento degli ovini è forse l’attività più antica che l’uomo abbia condotto sulle montagne degli Appennini (A. Antinori, G. Mainini, 1997)»; nasce nella preistoria ed è di tipo nomade: i pastori seguivano le greggi alla ricerca dei pascoli migliori, iniziando a tracciare le vie della transumanza, pratica che veniva attuata orizzontalmente, a differenza dell’alpeggio, effettuato verticalmente (in realtà, nel caso dell’alpeggio, si dovrebbe parlare, per maggiore esattezza, di monticazione).
Al tempo dei Romani la pastorizia era considerata attività tra le più nobili e redditizie e costituiva una voce importante dell’economia. L’allevamento degli ovini si sviluppò notevolmente, sostenuto dagli enormi capitali delle famiglie patrizie (il nome stesso dato al denaro, pecunia, deriva dalla parola pecus, gregge: il “metro” per giudicare la ricchezza delle persone era il numero di pecore possedute).
La pastorizia transumante era praticata già nell’antica Roma (e in epoca precedente) come è testimoniato dal bassorilievo funerario (sec. I AC), rinvenuto nei pressi di Corfinio e conservato nel Museo Civico di Sulmona. In esso sono raffigurati pastori che conducono greggi al pascolo, accompagnati da un carro che trasporta provviste. La transumanza era praticata già dai Sanniti (popolazioni di origine sabina stanziate nell’attuale Abruzzo interno meridionale e in Molise), e fu una delle cause delle guerre sannitiche, intraprese dai Romani dietro richiesta degli alleati dell’Apulia, i Dauni. La pratica venne poi codificata dagli aragonesi nel XV secolo, e diventò obbligatoria per i proprietari di almeno venti pecore.
Il ver sacrum (la primavera sacra) era una ricorrenza rituale di origine italica che veniva celebrata in occasione di carestie e di forte pressione demografica, per cui si rendevano necessari processi migratori. Nasceva dalla consuetudine sabina di “offrire in sacrificio” al dio Mamerte (Marte) i primogeniti nati a primavera (periodo marzo-giugno).
I prescelti erano sacralizzati e, in età adulta, abbandonavano la comunità per cercare nuove terre da colonizzare, seguendo il vagabondaggio di un animale totemico, sacro al dio e intermediario del suo volere (nel caso dei Piceni, sarebbe stato un picchio a guidare i migranti dal lago sacro di Cutilia verso le coste adriatiche). L’origine remota della pratica del ver sacrum si può rintracciare, probabilmente, in una qualche cerimonia connessa con la migrazione stagionale delle greggi.
Le strade. Con la romanizzazione del territorio, la direttrice viaria nord-sud perse importanza, e fu privilegiata quella ovest-est, con la creazione di nuove strade: diverse vie (soprattutto quelle che attraversavano la catena appenninica, come la Claudia-Valeria) ricalcavano antichi percorsi armentizi che scendevano dai pascoli montani dell’Appennino e raggiungevano le pianure costiere adriatiche e del Tirreno.
Questo tipo di allevamento nomade subì un arresto all’epoca dell’invasione dei Longobardi, per l’abbandono e il decadimento della viabilità romana principale e delle vie tratturali. Le vie della transumanza (e del commercio) si riaprirono con l’arrivo dei Normanni (sec. XI). «A seguito della conquista angioina del Regno di Sicilia (1266), l’asse viario che collegava Napoli, la nuova capitale, con Firenze attraverso l’Appennino centrale abruzzese divenne rapidamente una delle principali arterie commerciali e militari della penisola italiana fino al Risorgimento (C. Pasqualetti, 2012)».
Nonostante l’aspra morfologia del territorio, l’itinerario permetteva di evitare l’attraversamento delle malsane Paludi Pontine. In un documento dell’epoca si legge: «Vassi da Firenze a Napoli da 11 in 12 dì… da 5 in 6 dì all’Aquila o a Sermone [Sulmona]»: era la “Via degli Abruzzi” che raggiungeva le città racchiuse tra le montagne abruzzesi, ricche di materie prime tra le quali la lana degli allevamenti ovini. La potente famiglia fiorentina dei Medici aveva importanti interessi commerciali in Abruzzo (Francesco I dei Medici aveva acquistato la Baronia di Carapelle nel 1579), come testimonia la cosiddetta Torre Medicea di Santo Stefano di Sessanio, gravemente danneggiata dal sisma del 2009 e ricostruita (o, meglio, ricomposta) nel 2020.
Il percorso suddetto univa la Sabina al Sannio, passando per l’area degli altopiani e utilizzando le vie – conosciute fin da epoche remote – che permettevano scambi tra gli Etruschi dell’area toscana e i greco-etruschi del sud (area campana).
Le strade romane che attraversavano le giogaie dell’Appennino centrale e che interessavano l’attuale regione Abruzzo sono la Via Cecilia, che si staccava dalla Salaria al 35° miglio da Roma e raggiungeva la costa adriatica ad Hatria (l’odierna Atri), dopo aver toccato l’importante centro di Amiternum, nella piana dell’Aquila); la Via Tiburtina che congiungeva Roma a Tibur (Tivoli). Dopo il restauro (48-49 DC, per volere dell’imperatore Claudio) l’ultima parte del percorso prese il nome di Via Claudia Valeria e, ancora oggi, collega Roma con Chieti e Pescara (è la Strada Statale n. 5 o Via Tiburtina).
La Via Claudia Nova fu fatta costruire nel 47 d.C. dall’imperatore Claudio per congiungere la Via Cecilia e la Via Claudia Valeria: alcune fonti la fanno partire da Amiternum (nei pressi dell’attuale L’Aquila). Il tracciato attraversava la Piana di Navelli e si sovrapponeva, almeno nella prima parte del suo percorso, a quello del Tratturo Magno (l’ampia via armentizia che collegava le attuali L’Aquila e Foggia). Lungo il percorso si incontrava l’importante centro di Peltuinum, i cui resti imponenti sono ancora visibili vicino a Prata d’Ansidonia; un altro centro notevole era Ocriticum, nei pressi di Cansano, abbandonato già nel sec. VI, dopo un forte terremoto.
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