testo e foto di Gunther Pariboni
L’illusione di un Natale normale, la voglia anzi, la speranza che prima o poi i preparativi per la cena della vigilia e di Natale vengano svolti dentro una vera casa, non nelle Sae, le “soluzioni abitative emergenziali” dove vivono da cinque anni.
Ad Arquata del Tronto come il tutti i paesi del cratere sismico ci si illude, il ricordo del terremoto è sempre vivo, lo rinnovano gli edifici smembrati e le macerie sparse che puntano un dito ogni giorno.
Ma i festeggiamenti per il Natale non si toccano. Tra le casette di pochi metri quadrati, non mancano presepi, alberi decorati ma anche addobbi e ghirlande colorate e luminose. Le finestre sono allegre, quasi stonate per quell’ambiente grigio.
Si conoscono tutti tra quelle casette, ecco perché un volto nuovo viene visto non sempre come un estraneo ma come qualcuno a cui aprire le porte di casa e fargli respirare un po’ della propria vita: che sia una rivincita o un gesto generoso, non è dato di capirlo.
«Mi manca tanto il Natale che passavamo prima» racconta una signora che mi accoglie dentro casa mentre prepara il sugo di magro con olive e tonno.
«C’era la tradizione del ciocco, un tronco messo a bruciare dentro il camino e il bambino più piccolo che versava sopra, per bagnarlo, un bicchiere di vino».
Tra una chiacchierare e un racconto si ascolta qualche pacata lamentela, la ricostruzione tarda a partire oppure non è partita oppure è partita e si è fermata. I cantieri ci sono, svettano orgogliosi come le torri di una partita a scacchi, ma l’unica cosa tangibile è che con un contratto a tempo indeterminato, queste persone resteranno dentro una casa che non è la loro.
Un pensiero che subito svanisce, almeno per un po’, mentre si preparano i frittelli di baccalà o i dolci a base di noci.
«Certo, dentro casa prima eravamo di più» proseguono i ricordi «mentre qui, per motivi di spazio, dobbiamo limitarci».
Fa caldo dentro quelle casette prefabbricate, a differenza del vento gelido che soffia fuori. Ad Arquata quando nevica tutto si isola e spesso manca la corrente per colpa di impianti elettrici delle volte arrangiati per via di un emergenza che dura da 1.948 giorni.
1.948 giorni che alternano oblio e commemorazioni, tra le maglie di una burocrazia che pare il labirinto del Minotauro.
Il villaggio di casette è piccolo, eppure ci vuole un po’ per percorrerlo tutto perché bisogna camminare lenti. Ci si saluta, si augura “Buon Natale”, si offre un caffè a quel volto sconosciuto.
Suon Gennarina è napoletana, appartiene all’ordine delle Figlie della Santissima Vergine Immacolata di Lourdes, terziarie francescane. Una parte della loro confraternita si è trasferita nei luoghi del terremoto per dedicarsi a portare la parola di Dio dove sembra essere assente. Si cimenta a preparare delle vongole per condire gli spaghetti ed un po’ di pesce misto prima che insieme alle due consorelle dell’America latina, vadano in giro come fossero Babbo Natale, a portare un po’ di conforto a chi è solo.
Prima di andar via provo a mangiare qualcosa e mi dirigo al “Blu Bar” che è sulla Salaria. Quel container, regalato ai proprietari dall’allora vescovo Giovanni D’Ercole, è uno dei punti di riferimento di chi vive in quelle zone. Chiedo se è possibile mangiare qualcosa e i proprietari mi invitano a pranzare con loro, una vigilia alternativa e sincera di resilienza.
Tra poche ore nascerà il bambinello oppure passerà Santa Claus: qualsiasi sia la credenza, la voglia di ricominciare una vita normale è il regalo che si aspetta sotto l’albero.
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