di Gabriele Vecchioni e Narciso Galiè
(foto di Nazzareno Cesari, Umberto De Pasqualis, Claudio Ricci e Gabriele Vecchioni)
Qualche settimana fa, l’amico Roberto Gualandri ha pubblicato sulla rivista inNatura un interessante articolo sui Monti Gemelli (I monti dell’anima); il pezzo si chiudeva con un elenco di orrori, le opere progettate per la “valorizzazione” delle montagne dell’Italia centrale, pensando solo a (presunti) vantaggi economici.
Ci è sembrato opportuno riproporre, in questo pezzo, gli interventi subìti dal territorio nel corso dei decenni, effettuati sempre con lo scopo dichiarato del benessere (?) delle popolazioni. Per la stesura dell’articolo abbiamo attinto, in larga misura, a quanto avevamo scritto (nel 2011) nella nostra guida escursionistica relativa al territorio in esame perché, nonostante sia passato un decennio, non è cambiato molto da allora!
I Monti Gemelli costituiscono un forte punto di riferimento territoriale per gli abitanti della Vallata del Tronto, da Ascoli Piceno fino alla costa, e per le terre finìtime dell’Abruzzo teramano. Le Montagne dei Fiori e di Campli e il Monte delle Tre Croci (della Magnanella per i teramani, terzo rilievo della piccola dorsale calcarea dei Gemelli) sono montagne “storiche”: frequentate dall’uomo fin da epoche remote, sono state lo scenario di eventi, anche recenti, che ne hanno segnato la storia. Al tempo stesso, costituiscono un comprensorio che, per buona sorte, è ancora ricco di biodiversità e di paesaggi magnifici.
Nel corso dei millenni, l’uomo ha provocato il cambiamento da territorio naturale di foreste a territorio abitato di campi e boschi («È difficile pensare a paesaggi “naturali”, a terrae incognitae e incontaminate: esiste un paesaggio che è il prodotto dell’uomo e della sua economia, che a sua volta riflette la sua cultura. […] Storicamente, esso è mutato in continuazione, anche se con tempi ora meno ed ora più veloci, S. Anselmi, 1989»).
Senza voler ripercorrere una storia già conosciuta (sono ben note le iniziative del mondo dell’associazionismo contro lo stupro del territorio dei Sibillini, della Laga e dei Gemelli), ricordiamo che l’amore per la montagna non si manifesta solo con la semplice frequentazione ma anche con il rispetto e la difesa dell’ambiente.
Sui Monti Gemelli sono stati numerosi gli interventi a danno del territorio. Quelli storici sono legati al denudamento del versante orientale, dovuto agli incendi appiccati dai Piemontesi durante l’assedio della Fortezza di Civitella, per togliere ai briganti fiancheggiatori dei Borbonici la possibilità di nascondersi, e allo sfruttamento intenso dei boschi: aree di ceduazione sono state (ri)aperte anche sul Pianoro di Colle San Marco, “a due passi” dalla città. Il continuo taglio per “fare legna” o per produrre carbone, ha portato all’impoverimento dei boschi, dove è raro rintracciare esemplari vetusti.
La posizione laterale della dorsale calcarea dei Gemelli rispetto alla catena degli Appennini e la vicinanza al Mare Adriatico comporta, rispetto a montagne di pari altitudine situate sull’opposto versante tirrenico, un clima più freddo e una maggiore nevosità, per l’influenza del clima continentale della regione balcanica. La permanenza del manto nevoso per un periodo medio di 60-80 giorni l’anno ha favorito lo sfruttamento delle aree di maggior altitudine della Montagna dei Fiori (zona di Monte Piselli, 1400-1600 metri) per la costruzione di impianti legati alle attività sciistiche. Per questo, tra le opere più recenti, troviamo l’apertura delle piste da sci di Monte Piselli, con il conseguente disboscamento di ampie fasce della faggeta, realizzato anche per permettere il posizionamento dei piloni della seggiovia, il ramo inferiore della quale è ormai in disuso.
Come ricorda Gualandri nel suo articolo, c’è un progetto (speriamo sia solo un “pio desiderio”) per il loro ampliamento, «nonostante le evidenti situazioni di criticità che attualmente investono gran parte dei comprensori sciistici dell’Appennino».
Strade e mulattiere. Il ridotto spazio a disposizione ci permette di analizzare un solo, significativo elemento, quello delle strade di montagna. Una fitta ragnatela di sterrate copre le nostre montagne e le aree dell’entroterra: è paradossale la proliferazione di piste in un periodo che vede un forte spopolamento dei borghi delle aree interne. Le strade, aperte “senza tanti complimenti” da pale meccaniche, hanno lo scopo di favorire il raggiungimento dei pascoli da parte delle greggi di ovini e dei conduttori (i pastori) e di aiutare l’esbosco. Il risultato è una rete di tracciati sottoutilizzati che, però, hanno “graffiato” profondamente il territorio. Un esempio per tutti: nell’area della Laga, a Rocca Santa Maria, in Contrada Piana dei Morti (un nome che ricorda le difficoltà incontrate dai residenti per l’inclemenza del tempo) è stata aperta una sterrata – mai utilizzata! – sfruttando il percorso della mulattiera che conduceva al borgo, ormai abbandonato, di Valle Pezzata. La costruzione di strade sul tracciato di mulattiere le espone all’erosione meteorica e al degrado, senza contare la “strana” predisposizione della vegetazione a (ri)occupare gli spazi originari, chiudendo di fatto le vie non utilizzate. È quello che è successo qui e che sta accadendo in diversi altri posti, per l’assoluta mancanza di manutenzione: quasi sempre l’opera, magari realizzata con grave danno al territorio, viene letteralmente abbandonata a sé stessa.
La riqualificazione. Quello della riqualificazione paesaggistica e ambientale dell’area dei Monti Gemelli è un problema ben conosciuto, tanto da essere presente già nel Piano Regionale Paesistico della Regione Abruzzo del 1990 (trenta anni fa!) dove si prendeva atto che le diverse infrastrutture realizzate lungo le pendici montuose (piste di penetrazione per miglioramento pascoli, strade forestali, elettrodotti, acquedotti, impianti di risalita…) avevano agito da pesanti detrattori ambientali e si affermava, come principio generale, che «riqualificare l’ambiente equivale ad aumentare il valore d’insieme delle zone montane favorendo ipotesi di fruizione turistica organizzata ed impedendo l’evolversi di situazioni di danno ambientale». Tra gli interventi previsti c’erano la definizione della funzione delle piste di penetrazione per miglioramento pascoli e delle piste forestali (da utilizzare solamente per attività agro-silvo-pastorale), con la chiusura delle stesse tramite sbarra mobile, l’inerbimento delle scarpate, la ricopertura con pietra locale e la schermatura con essenze vegetali delle opere in cemento armato, oltre alla ricomposizione del cotico erboso. Il Piano rivelava, inoltre, che era previsto che un elettrodotto ad alta tensione dell’Enel avrebbe dovuto attraversare (addirittura con due linee) le Gole del Salinello. La realizzazione dell’opera (paesaggisticamente – e non solo – devastante) fu, fortunatamente, accantonata.
Quanto riportato può sembrare l’interpretazione di chi scrive ma non è così. Proviamo a leggere un brano del documento (di trent’anni fa!) citato, quello che riguardava la «riqualificazione paesistica di San Giacomo e Monte Piselli»: «Gli interventi effettuati nelle località rappresentano un problema ambientale di impatto percettivo, naturalistico ed idrogeologico. Lo sviluppo edilizio non controllato di San Giacomo, con la cattiva distribuzione spaziale delle strutture, ha determinato una perdita del valore percettivo dell’area, associata ad una generale mancanza di servizi. Va quindi bloccata l’espansione edilizia a vantaggio della crescita dei paesi e per l’esistente bisogna mirare ad un disegno urbano compatibile con l’ambiente.
La realizzazione della pista da sci ed il relativo impianto di risalita ha comportato un danno ambientale. La riqualificazione dell’area comporta un’opera di rimboschimento, utile per il valore naturalistico e per il ripristino paesaggistico, contribuendo alla difesa idrogeologica, per evitare fenomeni d’erosione».
A leggere queste righe di un documento ufficiale, una dichiarazione d’intenti importante come è quella di un Piano Regionale Paesistico approvato dal Consiglio Regionale (atto n. 141/21 del 21.3.1990) – trent’anni fa, lo ripetiamo – c’è da rimanere perplessi: ben poco di quanto dichiarato è stato portato a compimento.
Conclusioni. I Monti Gemelli sono stati marchiati dalle opere dell’uomo, in nome di una non meglio specificata volontà di miglioramento delle infrastrutture (quello delle “infrastrutture” è un discorso al quale la classe politico-dirigenziale italiana è molto sensibile). Sono così apparsi parcheggi di servizio per sciatori (anche se ormai di neve se ne vede sempre di meno), cave per l’estrazione di pietra locale, recinzioni che recingono il nulla, strade sulla cui utilità ci sarebbe da discutere (spesso, non portano in nessun posto). Dopo l’intervento dell’uomo rimane un paesaggio deturpato, vecchie vie acciottolate violentate da piste aperte con gli scavatori, sentieri e boschi non più curati (e in attesa di incendio)…e si potrebbe continuare.
Il filosofo tedesco Martin Heidegger scrisse (1950) il saggio Holzwege. Sentieri erranti nella selva (tradotto in italiano con il bel titolo Sentieri interrotti) ispirandosi ai sentieri della Foresta Nera che era solito frequentare nelle sue lunghe passeggiate. I “suoi” sentieri, che si perdono al centro del bosco senza modificarne le caratteristiche, non portano in nessun luogo, ma sono una metafora del vivere, della continua ricerca di nuove vie da parte dell’uomo. Le tante strade che segnano l’area dei Gemelli, nate per arrivare a un’area di sfruttamento del bosco, a un pascolo, a una radura, invece, piagano il territorio come ferite che non si rimarginano.
Andrebbero evitati interventi speculativi che distruggono preziosi capitali naturali e paesaggistici che, se conservati, possono costituire una ricchezza (materiale e immateriale) per le popolazioni locali e la collettività. I programmi di politica territoriale dei Comuni dovrebbero essere caratterizzati dalla ricerca di sviluppo economico grazie al turismo esperenziale, legato non solo alle caratteristiche qualitative naturali ma anche alle testimonianze storico-artistiche e antropologiche del territorio stesso.
Paolo Cognetti, scrittore di montagna e vincitore del premio Strega 2017, in un’intervista al “Il Sole-24ore” (dicembre 2020) ha affermato: «Dico una cosa banale: in futuro, e non troppo lontano, molte località sciistiche situate non molto in alto rischiano di chiudere per poca neve. O comunque per il clima più mite. Adesso, non domani, bisogna che si diano da fare per offrire qualcosa di alternativo allo sci da discesa. Bisogna reinventare il turismo invernale. E anche quello estivo. Aggiungo un’altra considerazione: visto che con lo smart working si può lavorare in remoto, chi ha la possibilità si è trasferito con la propria famiglia dalla città verso luoghi più piacevoli. Anche in montagna, magari non troppo in quota. Qualche paese si è ripopolato. Si vedono anche bambini. Per questo dico che nulla è immutabile, anche la montagna può evolvere. Invece si spera sempre che il prossimo inverno porti un sacco di neve. Può succedere, ma poi torniamo al punto di prima».
La “chiusura” dell’articolo può partire proprio dalle parole di Cognetti. La bellezza dei luoghi, la loro fruibilità e vivibilità, grazie alla tutela e allo sviluppo dei servizi, possono essere sicuramente uno stimolo a scegliere di vivere nelle zone montane, frenando l’emorragia di risorse umane che costituisce il vero problema di fondo dell’abbandono in cui versano tante zone.
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