Ascoli Piceno e San Benedetto del Tronto. Oltre alla rivalità sportiva, talvolta becera, c’è di più. Ci sono realtà figlie di passati gloriosi, che ai due centri hanno conferito prestigio. Ci sono state persone, popoli, storie e culture diverse, di pari dignità, separate solo da una manciata di chilometri, da conoscere, raccontare e tramandare. Accomunate, tutte, da un “eroismo” straordinario, che nessun astio, fazioso e municipalistico, può e deve cancellare. Di cui andare, tutti insieme, indistintamente, orgogliosi. L’amore cieco e sordo per il proprio campanile, il fanatismo che, in ogni campo, tutto avvelena, rischiano di farci ignorare, sia sotto il Torrione che in Piazza del Popolo, il meglio che, su entrambe le sponde, nei più diversi campi, con valore, sacrificio e abnegazione, durante lo scorrere degli ultimi secoli le nostre genti sono riuscite a costruire. A puntate, su Cronache Picene, racconteremo senza presunzione la Storia dei due centri. Sportiva e non. Scritta dai grandi personaggi del passato, soprattutto quelli meno celebri, da tramandare ai più giovani, e ai posteri, spesso ignari. Attraverso le glorie e le infamie, i fasti e le tragedie. Le pagine più esaltanti e i giorni più neri. Senza partigianerie e autoincensamenti di sorta. Senza sconti, che la Storia non può concedere a nessuno. Ascoli Piceno e San Benedetto del Tronto. Non più cugine invidiose e malevoli. Ma sorelle unite. E regine, entrambe, del Piceno e delle Marche. Non solo sui campi di calcio.
PUNTATA n. 17
A proposito di derby memorabili. Il 3 marzo 1968, ventiquattresima di ritorno, al “Del Duca” finisce 1-0 con un gol di Gasperini. E’ una delle poche vittorie dell’Ascoli nei derby di quegli anni Sessanta, e già questo, da solo,
basterebbe per meritare la citazione. Ma quella data va ricordata soprattutto perchè segna un destino, Quello di Carlo Mazzone. Un destino che sarà per sempre, indissolubilmente, legato a quello dell’Ascoli. Come abbiamo già
scritto nella XIV° puntata, Costantino Rozzi, dopo la fine della carriera di giocatore del suo capitano, che stima moltissimo, gli affida un incarico nel settore giovanile. Mazzone diventerà per lui un punto di riferimento fisso, un
tecnico su cui contare anche in funzione delle alterne vicende della prima squadra.
All’inizio della stagione successiva (68/69) Rozzi gli affida infatti, temporaneamente, per due volte la guida della prima squadra: inizialmente in sostituzione di Malavasi, e, successivamente, di Capelli. Lui risponde con diligenza alle chiamate del suo presidente. Compie, con la capacità e il carisma che già gli appartengono, la missione, e rientra nei ranghi. Costantino Rozzi ci fa l’abitudine e quando si stanca degli allenatori della prima squadra (gli capiterà spesso nella sua quasi trentennale carriera di presidente) lo richiama all’opera. Succede ancora nella stagione successiva 69/70. Il presidente lo rimette alla guida dell’Ascoli nel girone di ritorno dopo l’esonero di Eliani. La squadra naviga in cattive acque. Potrebbe non farcela a portarla in salvo. Nell’accettare l’incarico il tecnico romano ha un’unica preoccupazione. Che Rozzi gli garantisca un posto di lavoro qualsiasi, fosse anche nella sua impresa edile, se le cose dovessero andar male. Invece andranno benissimo. L‘Ascoli chiude la stagione al quarto posto, subito dopo la Samb (terza) nella classifica finale.
Nell’annata successiva (70/71) la panchina dell’Ascoli sarà sua fin dalla prima di campionato segnando l’alba di una nuova, entusiasmante, era calcistica bianconera di cui avremo modo di parlare ampiamente più avanti. Facendo un piccolo passo indietro in tema di derby memorabili, non si può non ricordare quello del primo marzo 1970. Al “Del Duca” si gioca la quinta giornata di ritorno. La Samb è solitaria capolista, tallonata dalla Spal. L’Ascoli, troppo discontinuo nei risultati, cinque punti più sotto, figura comunque fra le prime inseguitrici. Faccenda ha portato la Samb in ritiro a Civitella del Tronto per cercare di sottrarla (invano) alla pressione dell’ambiente. L’Ascoli scende in campo con Capponi, Schicchi, Flamini, Pagani, Pierbattista, Scichilone, Oltramari, Desio, Zeli, Nobili, Campanini. In panchina Massari e Vivani. Allenatore Mazzone. La capolista Sambenedettese schiera invece: Migliorini, Frigeri, Di Francesco, Bovari, Beni, Marchini, Carnevali, Orlandini, Traini, Troli, Urban. In panchina Di Berardino e Bellisari. Allenatore Faccenda. Arbitra Porcelli di Lodi. Pubblico delle grandi occasioni al “Del Duca”, pressocchè esaurito in ogni settore con circa diecimila spettatori.
Numerosa e rumorosa la rappresentanza ospite, con quasi tremila sostenitori al seguito della capolista, in questo derby molto atteso, assiepati lungo tutti gli anelli più bassi e vicini al terreno di gioco della curva nord e dei distinti, e che si faranno sentire parecchio. Dopo un primo tempo molto equilibrato e senza grosse emozioni, nei primi dieci minuti della ripresa succede di tutto, e l’atmosfera, in campo e sugli spalti, si surriscalda subito. L’arbitro, il lodigiano Vito Porcelli, ci mette del suo, con due decisioni che indispongono tutti. Al secondo minuto decreta un calcio di rigore a favore dei padroni di casa per un fallo commesso ben fuori dall’area. Racconterà il capitano Paolo Beni: «Eravamo in testa alla classifica e da San Benedetto i nostri tifosi ci seguirono in massa. Proprio in avvio di ripresa al limite della nostra area fui proprio io l’autore di quel fallo su Oltramari. Il fallo c’era, lo ammetto, ma eravamo almeno tre metri fuori dall’area. L’arbitro invece fischiò il rigore che ci costò la partita. Protestammo energicamente, a lungo, per quel suo clamoroso errore, ma non ci fu niente da fare».
Quando ancora le proteste veementi degli ospiti, e dei loro sostenitori sugli spalti, non accennano a placarsi, sul dischetto va per l’impeccabile trasformazione il capitano bianconero, Abramo Pagani. Sommerso di contestazioni, e forse capendo di averla combinata grossa, per la compensazione che adottano tutti i mediocri, il direttore di gara lombardo espelle, appena un minuto dopo, Mario Vivani per il più innocente dei falli commessi nella sua carriera. Una espulsione che regala alla Sambenedettese, che ancora lo rincorre, continuando ad insultarlo in tutte le lingue, una favorevolissima superiorità numerica. Mario Vivani era entrato al posto di Nobili al rientro in campo delle squadre dopo l’intervallo. La sua gara dura così meno di tre minuti. Forse un record. Ma la girandola di emozioni non è ancora finita, perchè dopo pochi minuti si infortuna il bianconero Pierbattista. Mazzone non può più sostituirlo, e lui è costretto così, restando in campo zoppicando vistosamente fino alla fine, a trascinarsi dietro il dolore e a immolarsi per la causa. In undici contro nove ci si aspetta il ritorno prepotente della capolista, che però non arriva. L’Ascoli serra i ranghi e butta il cuore oltre l’ostacolo. La Samb non riuscirà a farsi mai veramente pericolosa fino al triplice fischio finale che decreta la sua scottante e imprevista sconfitta nel derby.
«Il nostro furioso e confuso assalto finale – continua a ricordare il capitano Paolo Beni – infatti non servì a nulla contro una difesa ben organizzata dal loro libero Pagani, che fra l’altro era anche un ex giocatore della Samb, e che
aveva trasformato anche quel rigore contestato. Ma a perdere quella partita non volevamo starci, perchè sentivamo tutti, in campo noi, e i nostri sostenitori sulle gradinate, che era una sconfitta immeritata, nata da un errore
dell’arbitro». Le proteste dei tifosi della Samb infatti si fanno sempre più veementi man mano che ci si avvicina, a risultato invariato, verso il novantesimo.
Già negli ultimi minuti di gioco i supporter sambenedettesi avevano iniziato ad arrampicarsi e a premere sulla recinzione. All’epoca era una semplice rete metallica assicurata alle sottili paline, metalliche anch’esse, ma, evidentemente, troppo leggere e distanziate, per reggere una sollecitazione del genere. Il peso e l’ondeggiare sistematico dei tifosi arrampicatisi, e aggrappati, alla rete stessa fa infatti piegare facilmente le paline di sostegno alla loro base. La rete metallica di recinzione finisce presto per adagiarsi sulla pista di atletica che corre intorno al terreno di gioco, creando un varco e permettendo così a centinaia di tifosi rossoblù inviperiti di riversarsi sul campo. Alla delusione per la prova non esaltante della loro squadra, che pure sta guidando, autorevolmente, la classifica, si somma la rabbia per quel rigore inesistente che è costato la cocente sconfitta nel derby. La partita più importante dell’anno. Le forze dell’ordine, pure rinforzate per l’occasione, stentano molto ad arginare l’invasione. Qualcuno dei militi viene travolto dagli invasori, e ci sono diversi contusi negli scontri. Un carabiniere finisce all’ospedale dopo aver battuto violentemente la testa per terra. Al Pronto Soccorso finiscono anche due ascolani, vittime di malori al momento del gol-partita, che non riescono a reggere una gioia cosi grande. Alcuni dei tifosi rossoblù più esagitati verranno identificati e subito rilasciati. Fortunatamente, nel frattempo, l’arbitro ha decretato tempestivamente la fine della partita, e le due squadre, insieme alla terna arbitrale, stanno già imboccando la scala del tunnel sotterraneo che porta agli spogliatoi.
Come confermerà anche il capitano Paolo Beni nell’intervista che segue, i giocatori nemmeno ebbero modo di accorgersi del parapiglia in campo alle loro spalle. Nervosismo e delusione sono palpabili fra i giocatori della Samb, che da questa gara si aspettavano, insieme ai loro tifosi, ben altro risultato. «Ci dissero dopo, i nostri dirigenti, dell’invasione dei nostri tifosi dopo il fischio finale – racconterà il capitano Paolo Beni – noi nemmeno ce ne accorgemmo. Eravamo tutti troppo arrabbiati con l’arbitro e continuammo a protestare anche nel tunnel per quel rigore decisivo regalato all’Ascoli. Nel sottopassaggio in compenso, mentre si tornava negli spogliatoi, sentii alle mie spalle una voce che diceva: hai visto che bravi questi sambenedettesi oggi. Ci hanno portato ottanta milioni di incasso, e due punti in classifica. Mi girai di scatto a quelle parole che, in quel momento, mi suonavano come uno sfottò, e mi accorsi solo allora che a parlare così, rivolgendosi ad uno dei suoi collaboratori, era stato Costantino Rozzi. Uno dei personaggi del mondo del calcio, insieme a Carlo Mazzone, che ho sempre stimato, e stimo ancora, di più, in assoluto. Sul momento non la presi per niente bene, ma lui mi consolò. Il calcio è così, mi disse. Non prendertela, stavolta la vittoria è toccata a noi, la prossima volta toccherà a voi».
Costantino Rozzi era diventato presidente dell’Ascoli solo nell’estate di due anni prima. Il 4 giugno 1968. Le ultime gestioni di Pacifico Saldari e di Leone Cicchi erano state le più lunghe della storia della società bianconera, ma ora era arrivato il momento di dare uno scossone alle sue vicende. Lui, a nemmeno quarant’anni, e già personaggio brillante e carismatico, pur se completamente digiuno di calcio, era stato indicato dal consiglio come la persona più adatta a guidare la società. Non si sbagliano. Rozzi accetta, ma a patto che sia solo per qualche mese, una presidenza transitoria insomma, in attesa di trovare qualcun altro più disposto e capace di lui per ricoprire quella carica. Non si sottrae alla nomina più per compiacere le insistenze di chi lo sollecita, che per sua reale convinzione. Diventerà invece il Presidentissimo dell’Ascoli. Lo resterà, ininterrottamente, fino all’ultimo giorno della sua vita. E ancora oggi, dopo oltre mezzo secolo dall’inizio della sua epopea, e a ventisette anni dalla prematura scomparsa, continua ad essere acclamato ogni domenica dai tifosi sugli spalti del “Del Duca”.
(continua)
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