Ascoli Piceno e San Benedetto del Tronto. Oltre alla rivalità sportiva, talvolta becera, c’è di più. Ci sono realtà figlie di passati gloriosi, che ai due centri hanno conferito prestigio. Ci sono state persone, popoli, storie e culture diverse, di pari dignità, separate solo da una manciata di chilometri, da conoscere, raccontare e tramandare. Accomunate, tutte, da un “eroismo” straordinario, che nessun astio, fazioso e municipalistico, può e deve cancellare. Di cui andare, tutti insieme, indistintamente, orgogliosi. L’amore cieco e sordo per il proprio campanile, il fanatismo che, in ogni campo, tutto avvelena, rischiano di farci ignorare, sia sotto il Torrione che in Piazza del Popolo, il meglio che, su entrambe le sponde, nei più diversi campi, con valore, sacrificio e abnegazione, durante lo scorrere degli ultimi secoli le nostre genti sono riuscite a costruire. A puntate, su Cronache Picene, racconteremo senza presunzione la Storia dei due centri. Sportiva e non. Scritta dai grandi personaggi del passato, soprattutto quelli meno celebri, da tramandare ai più giovani, e ai posteri, spesso ignari. Attraverso le glorie e le infamie, i fasti e le tragedie. Le pagine più esaltanti e i giorni più neri. Senza partigianerie e autoincensamenti di sorta. Senza sconti, che la Storia non può concedere a nessuno. Ascoli Piceno e San Benedetto del Tronto. Non più cugine invidiose e malevoli. Ma sorelle unite. E regine, entrambe, del Piceno e delle Marche. Non solo sui campi di calcio.
PUNTATA n. 18
Il gioco del calcio e l’operosità, il valore, della nostra gente si sublimano nella figura di un personaggio ascolano, forse troppo poco celebrato. Emidio Lazzarini. Una bella storia davvero la sua. Classe 1915, Emidio è nipote e figlio di calzolai, attivi fin dal 1886, in via della Fortezza nel cuore di Ascoli. Un’arte tramandata, come tutte, di padre in figlio, in tempi duri, quando al dovere, alle privazioni, alla fatica quotidiana, al sacrificio, si cominciava a dare del tu fin da piccoli. Quando si cominciava ad imparare la vita, in casa e dalla strada, e nei campi, nelle officine, nelle stalle o nelle botteghe artigiane, come nel caso di Emidio, già negli anni della propria infanzia. Quando i mezzi, come gli svaghi, erano pochi per quasi tutti. La scuola, gli studi, un lusso. E la fame tanta. E, si intenda bene, non solo come esigenza, pur primaria, di buttare qualcosina nello stomaco ogni giorno. Ma, soprattutto, quella fame, più nobile, di conoscere per crescere, di capire per apprendere, di imparare per emanciparsi, di sacrificarsi per riuscire a farsi strada nella vita. Con caparbietà. Prima possibile. Perciò si cominciava subito. Fin da bambini. In qualsiasi maniera si potesse.
A otto anni il papà Pasquale, che non è certo uno tenero neppure con lui, lo mette a drizzare i chiodini. Seduto al deschetto di lavoro apprende, a testa bassa, giorno dopo giorno, tutti i segreti di quell’arte, che il papà è andato a carpire fino a Vigevano, ai maestri calzaturieri del nord Italia. E’ una vita dura per il bambino, che interrompe gli studi in quarta elementare, e sogna di fare altro nella sua vita. A dodici anni comincia anche a frequentare la palestra Malaspina. Spera, grazie alla lotta, di poter crescere un altro pò, perchè è basso e magrolino. Anche nello sport darà il meglio di sè. Nelle discipline più dure ovviamente. Uno come lui è tagliato dalla sua natura solo per quelle. Il pugilato prima, e la lotta libera poi. Entrambi fatti di fatica e sudore, cuore e tecnica, coraggio e dolori, forza e astuzia, rapidità e potenza.
Fa spesso a pugni con i coetanei, ma lo temono anche i più grandi. Diventa un promettente peso mosca dei Giovani Fascisti. A diciassette anni, pesa quaranta chili e misura soli 149 centimetri di altezza, Emidio Lazzarini, ma è un vero gigante in capacità e determinazione, come vedremo. 1932. Finali nazionali in Sardegna. Ci arriva da solo, con i guantoni nella sua valigetta di cartone. L’avversario è un sardo, ma lui lo fa nero lo stesso. Non ha dubbi. Ha dominato nettamente il match. Aspetta solo che l’arbitro gli sollevi il braccio alla fine, al centro del ring. Ma il verdetto è uno scandalo. Vince il sardo. Emidio non ci vede più. La palese ingiustizia patita viene prontamente lavata da un gancio vendicatore che molla subito all’arbitro. La squalifica a vita che, inevitabilmente, segue, gli impone il ritorno alla lotta. Intanto arrotonda pulendo i tavoli da biliardo in un bar vicino alla bottega di via della Fortezza. Impara presto Emidio, anche con la stecca in mano. Diventa imbattibile a bazzica, e, giocando, ci tira su anche qualche soldo.
Nel ‘37 ne ha abbastanza di stare al deschetto, a fare e riparare scarpe nella bottega del padre, che ormai gli va stretta, ed emigra in Germania. Non in un posto qualsiasi però. A Berchtesgaden. Proprio sotto il nido dell’aquila di Adolf Hitler. Lavora sodo come manovale, vittima delle angherie di un energumeno che fa il capo senza rispetto per nessuno. Un giorno Emidio si arrabbia e, anche se il crucco pesa il doppio, lo mette ko in cantiere fra il tripudio dei colleghi. Il titolare anzichè licenziarlo lo premia, destinandolo ad altro incarico, alla mensa degli uomini del Fuhrer, e nominandolo allenatore di lotta dei suoi figli. Non è la trama tutta inventata di un film. E’ la vita vera di Emidio Lazzarini. La vita di un ascolano straordinario.
Dopo il ritorno in Italia si laurea campione nazionale nel 1940 nella lotta greco-romana. Ha iniziato da un pò a costruirsi gli scarpini, da allenamento e da gara, con le sue mani. Scarpini magici, perfetti, le cui qualità uniche si risanno in giro, nell’ambiente sportivo, passando di bocca in bocca. Senza bisogno di social e campagne di marketing. Subito brevettata, soletta in morbida pelle di vitellino, bandito il più duro cuoio. Una vera pantofola appunto. La chiamerà così la sua azienda, “Pantofola d’Oro” .
Ma i lottatori sono pochi e sconosciuti, mentre i calciatori sono tanti e famosi. Il primi clienti giocano, ovviamente, nella squadra della sua città. Uno di loro, Cesarani, è milanese, e ne parla entusiasta negli ambienti calcistici del Nord Italia, da dove cominceranno a fioccare le richieste delle sue magiche scarpette chiodate. La Sambenedettese milita, in quegli anni in serie B. Emidio passa molte domeniche intorno allo stadio “Ballarin” dove vengono a giocare tante squadre blasonate e tanti campioni di questo sport. E’ qui che aggancia Occhetta e Bean, che gli porteranno in bottega Mora e Sivori per farsi fare gi scarpini chiodati su misura anche loro. Da allora in poi ne confezionerà moltissime altre.
Il suo nome, Emidio Lazzarini di Ascoli Piceno, e quello della sua scarpetta, confezionata su misura, morbida, resistente e leggera, che avvolge il piede come un confortevole guanto, una Pantofola d’oro appunto, cominciano ad essere conosciuti dai maggiori big del pallone. I suoi clienti più famosi, fra i tanti di quei primi anni, si chiamano Di Stefano, Angelillo, Bernardini, Boniperti, Valcareggi, Suarez, Mazzola, Charles, Altafini, Puskas, Rivera, Gigi Riva. L’azienda cresce, si espande, ma lo spirito, la cura, la qualità, le peculiarità delle scarpette Pantofola d’Oro rimarranno le stesse di sempre.
L’elenco dei grandi giocatori di serie A e B degli anni Settanta e Ottanta che le vogliono ai loro piedi si fa infinita. Al Mundial di Spagna del 1982, Emidio, con la sua famiglia, fa la spola fra i ritiri delle varie nazionali per salutare i tanti campioni suoi clienti. Tutti diventati, immancabilmente, suoi amici per aver risolto, grazie a lui, i problemi dei loro principali strumenti di lavoro. I piedi. Fra tanti, Bruno Conti, Falcao e Toninho Cerezo. Oltre, in precedenza, al portierone russo Lev Jashin, che di piede portava il 47, o il fuoriclasse olandese Johan Cruijff, che aveva un piede più piccolo dell’altro. Quest’ultimo diventerà anche suo partner commerciale con una linea del prodotto destinata ai mercati del nord Europa.
La moglie trentina, Ida Toss, sarà la prima, e più preziosa, collaboratrice di Emidio Lazzarini. La sua azienda arriverà, alla fine degli anni Ottanta, ad occupare oltre cento operai che produrranno, artigianalmente, 1.500 paia di scarpette Pantofola d’Oro al giorno, e fatturando cinque miliardi di lire all’anno. Niente male per “little man”, come lo chiamava affettuosamente il gigante buono gallese della Juventus, John Charles, uno dei primi, celebri campioni, disinteressati e grati testimonial di Emidio Lazzarini. Un grande ascolano.
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