testo e foto di Gabriele Vecchioni
Il 17 marzo 1861 fu proclamata a Torino l’Unità d’Italia, un atto che sanciva la riunificazione della Penisola in una nazione unica (allora, l’Italia era divisa in sette diversi Stati). È una ricorrenza che non viene celebrata in maniera ufficiale anche se una legge (la n. 222 del 23 novembre 2012) prevede la commemorazione della “Giornata dell’Unità nazionale, della Costituzione, dell’Inno e della Bandiera”.
Il percorso dell’unificazione, iniziato con la Prima e la Seconda guerra d’indipendenza, si concluse con la spedizione dei Mille di Giuseppe Garibaldi; anche il Piceno ebbe un posto importante nella realizzazione del sogno unitario. La nostra zona fu, infatti, la location di diversi, rilevanti episodi dell’epopea: il territorio marchigiano, e quello piceno (in particolare, l’area di confine costituita dalle Marche centro-meridionali e l’Abruzzo settentrionale), furono il teatro di eventi importanti – quelli conclusivi – che permisero il raggiungimento dell’unità nazionale. Vediamoli, in ordine cronologico.
La battaglia di Castelfidardo. L’ultimo avvenimento guerresco del Risorgimento italiano ebbe luogo a Castelfidardo, non lontano da Ancona. Le truppe pontificie, forti di circa diecimila volontari al comando del generale francese Lamoricière, stavano raggiungendo la piazzaforte di Ancona ma furono intercettati – sembra casualmente – dall’esercito sardo-piemontese, al comando dei generali Cialdini e Fanti e costituito da quattordicimila effettivi, provenienti da ogni parte della Penisola.
La battaglia fu combattuta il 18 settembre 1860 e si concluse con la vittoria dei piemontesi; le truppe papaline superstiti, dopo una difficile fuga per i sentieri selvaggi del Conero, si asserragliarono nella piazzaforte anconetana dove, il 28 settembre, furono definitivamente sconfitte dall’esercito sardo, dopo un breve ma cruento assedio. Conseguenza diretta dell’evento fu l’annessione al Regno di Sardegna delle Marche e dell’Umbria, dopo un plebiscito: appena sei mesi dopo, il 17 marzo 1861, fu proclamata la nascita del Regno d’Italia.
Vittorio Emanuele II a Grottammare. Vittorio Emanuele II, re di Sardegna (sarebbe diventato Re d’Italia solo l’anno dopo), sbarcò ad Ancona il 3 ottobre 1860, accolto nell’area portuale dalle truppe schierate e da una folla festante. Senza fermarsi nella città dorica (farà una breve sosta a Loreto), il sovrano iniziò il suo viaggio verso sud.
Lo storico locale Gabriele Nepi riferisce che «… come a Castelfidardo si ebbe l’evento militare, a Grottammare si verificò l’evento politico».
Arrivato a Grottammare, il re alloggiò nella villa dei Marchesi Laureati dall’11 al 15 ottobre, mentre il suo Stato Maggiore e le truppe (ben 40.000 effettivi, accompagnati da 4 fanfare militari!) si accamparono sulle alture vicine. Il 13 ottobre Vittorio Emanuele ricevette la Deputazione Partenopea – venuta a offrirgli la corona del Regno di Napoli – capeggiata da Ruggero Bonghi, futuro Ministro della Pubblica Istruzione del Regno d’Italia (dal 1874 al ‘76); della delegazione faceva parte anche l’intellettuale Luigi Settembrini. Il Bonghi scrisse che l’incontro avvenne «in Grottammare, piccolo e misero borgo, in sulla spiaggia dell’Adriatico, e a’ confini del regno».
La municipalità grottese volle ricordare l’evento con una lapide – ancora in situ – il cui testo recita: «In questa casa/ che alle genti latine/ sarà storico monumento/ Vittorio Emanuele II/ nell’ottobre dell’anno 1860/ meditò per cinque giorni/ la redenzione dell’Italia intera/ che iniziata dai suoi padri/ a San Quintino a Goito a Peschiera/ ebbe in questo luogo/ un principio/ di eroica esecuzione/ col ricevimento/ della Deputazione partenopea/ deferente a lui/ colla corona di Napoli/ la corona d’Italia/ Il Municipio di Grottammare/ decretò unanime/ la ricorrenza immortale/ dell’avvenimento».
La mattina di lunedì 15 ottobre, alla testa del suo Stato Maggiore, il Re passò a cavallo per San Benedetto del Tronto e poi superò il Tronto, annullando di fatto il confine tra lo Stato Pontificio e il Regno di Napoli («Il superamento dell’ultima frontiera [riferita al fiume Tronto] nel compimento dell’Unità d’Italia», P. Craveri, 2011). Dopo essersi fermato a Giulianova, si diresse verso lo storico incontro di Teano con Giuseppe Garibaldi.
La presa della Fortezza borbonica di Civitella del Tronto. Il borgo di Civitella del Tronto è legato in maniera indissolubile alla sua Fortezza; essa occupa l’intera parte sommitale di una dirupata collina di travertino che si innalza sulla campagna circostante, dominando maestosa l’incasato. La posizione del complesso fortificato, e quella del paese stesso, costruito su una rupe facilmente difendibile, in un sito dal quale era agevole controllare l’importante via di comunicazione (la strada “Mare Monti”, attuale strada statale n. 81 o Piceno-Aprutina) che univa le città di Ascoli e di Teramo, ne fecero l’importante punto di riferimento strategico in un antico sistema difensivo integrato, del quale aveva fatto parte anche il castellum di Macchia (un luogo che aveva visto il passaggio di Svevi, Angioini e Aragonesi).
La Fortezza visse l’ultimo periodo della sua storia militare come punto difensivo avanzato del Regno di Napoli: fu l’ultima piazzaforte borbonica a cedere ai Piemontesi, dopo quelle di Gaeta (la cosiddetta “imprendibile”, la prima a cadere!) e di Messina, resistendo fino al marzo del 1861, nonostante la municipalità di Civitella avesse decretato la propria unione al Regno d’Italia fin dal settembre del 1860 e lo stesso Francesco II, Re di Napoli, si fosse arreso (articolo precedente, leggilo qui).
Gli assedi al Forte. Il nucleo primitivo dell’opera militare è precedente all’anno Mille; molto probabilmente era, in origine, la fortificazione di un punto elevato, contrapposto al Monte Santo, dove è situata I’Abbazia benedettina omonima, anch’esso luogo munito (leggi qui l’articolo relativo). Le prime notizie storiche certe risalgono al 1225, anno in cui la Fortezza fu espugnata dagli ascolani. Tre secoli dopo, nell’anno 1557, durante la “Guerra del Tronto”, fu assediata per oltre cinque mesi dalle truppe francesi del duca di Guisa ma resistette agli assalitori. Nel 1798, invece, il comandante spagnolo Lacombe cedette la Fortezza, senza combattere, al generale Duchesne.
All’Ottocento risalgono gli ultimi due assedi, entrambi sfortunati per la roccaforte. Nel 1805 truppe francesi e italiane assediarono la Rocca per quattro mesi: essa cadde, nonostante gli episodi di eroismo dei difensori, guidati dall’irlandese Matteo Wade, al quale è dedicato il monumento funebre canoviano, situato all’interno della cittadina. Infine, il già ricordato assedio piemontese dell’anno 1861: la prolungata resistenza irritò a tal punto gli assedianti che essi, dopo la conquista, iniziarono una sistematica opera di distruzione del fortilizio, minandolo e facendo saltare in aria. La Fortezza è rimasta allo stato di rudere per circa un secolo; restaurata negli anni ’60 del Novecento, costituisce attualmente il fulcro attorno al quale ruotano importanti iniziative culturali e turistiche.
I cippi di confine tra il Regno borbonico e lo Stato Pontificio. L’antico confine tra i Regni preunitari dello Stato Pontificio e delle Due Sicilie era lungo circa 300 km (267 miglia) e andava dal Mar Tirreno al Mare Adriatico, dalla foce del fiume Canneto (tra Fondi e Terracina) fino al ponte di barche sul Tronto, a Porto d’Ascoli, passando per zone impervie dell’Appennino. Il confine era segnalato da 686 cippi di confine, colonnine di pietra collocate in punti significativi (articolo precedente, leggilo qui).
Le strutture accessorie del confine. Sul territorio sono presenti anche due strutture appartenenti al vecchio confine preunitario (articolo precedente, leggilo qui).
A Colle San Giacomo c’era una casa doganiera dello Stato Pontificio. L’edificio viene citato, in alcuni testi, come chiesa di San Francesco perché, in origine, era un romitorio francescano; nel corso della Seconda Guerra Mondiale, la costruzione fu minata e distrutta dai tedeschi, per evitare che fosse utilizzata come rifugio occasionale dai partigiani. Le rovine sono ancora visibili dietro la principale struttura alberghiera della località.
A Villafranca, poco dopo Castel Trosino, è presente, ai bordi della strada, una casa fortificata, già dogana pontificia. Il borgo ha origini antiche: il Marcucci (1766) lo fa risalire all’epoca di Carlo Magno, re dei Franchi: un cavaliere del suo seguito avrebbe fondato, nell’anno 801, la villa che avrebbe preso il nome di Franca in onore del suo popolo. In realtà, il paese deve il nome al fatto che i suoi abitanti erano affrancati (cioè esentati) dal pagamento di tributi, per la pericolosità delle loro condizioni di vita.
Villa Franca era un posto di frontiera, con tutti i vantaggi e gli svantaggi del fatto. Per le obiettive condizioni di rischio, basti pensare alle possibili sortite di briganti (leggi qui l’articolo dedicato al singolare fenomeno sociale del brigantaggio), il 25 aprile 1538, il comune di Ascoli diede «a li devoti et servitori de la Università et huomini de Villa Franca l’esenzione a vita da gravecze et impositioni. Con questa franchigia, la città picena intendeva premiare quelli che in essa andorno ad abitare per defensione de li confini di questa città». Nonostante un incendio avesse distrutto, nello stesso anno, la pergamena che attestava l’esenzione perpetua, Ascoli confermò la condizione di favore e tale franchigia durò fino ai primi anni dell’Ottocento, epoca dell’invasione francese. Villa Franca perse ogni diritto nel 1816, quando il Papa, tornato a Roma, abolì tutti i privilegi risalenti al Medioevo. Il borgo diventò poi frazione di Ascoli e fu annesso al centro di Valloni, del quale seguì le sorti. Nel secolo scorso, in base all’accordo del 1852 tra lo Stato della Chiesa e il Regno di Napoli, Villa Franca entrò a far parte di quest’ultimo, sotto l’Amministrazione di Teramo; nel 1861 il Regno d’Italia confermò tale appartenenza.
Per poter lasciare o votare un commento devi essere registrato.
Effettua l'accesso oppure registrati