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Le storie di Walter: Armando Lotti, una vita in Elettrocarbonium

ASCOLI - Folignate, oggi 91enne, è arrivato nello stabilimento ascolano da quello Narni nel 1957. Con i suoi operai ha scritto, fino al 1990, le pagine più epiche della storica fabbrica ascolana, contribuendo a portarla fra i siti produttivi più qualificati ed efficienti del mondo. Una epopea che vide la nascita del tavolo battente, il segreto della altissima qualità degli elettrodi ascolani. Che tenteranno, senza successo, di copiare e riprodurre all’estero
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Armando Lotti, oggi

 

di Walter Luzi

 

Elettrocarbonium. La leggenda di questa fabbrica passa da storie come quella di Armando Lotti. Novantuno primavere che non riesci proprio a dargli, neppure neanche lontanamente ad immaginare per uno come lui. Magari quindici, o anche venti anni di meno, sì. Uno spirito vivo che puoi leggere in quello sguardo ancora fiero, a tratti emozionato, scavando nei suoi ricordi. Sempre lucidi, sempre nitidi. Perchè ad Armando Lotti, come a quasi tutti quelli che in Elettrocarbonium hanno speso, con orgoglio, le energie e gli anni migliori, il suo lavoro piaceva. Nonostante le condizioni infernali dell’ambiente da cui erano, tutti quanti, completamente circondati. Ogni giorno, ogni notte. Il rumore. Il calore. Le polveri. Nere. Come il carbone e la pece. Ma con la capacità e la soddisfazione diffuse, condivise, di saper fare bene il proprio lavoro. Con il desiderio, comune, di volere fare, sempre e comunque, il massimo. Il meglio. Non solo. Armando Lotti, e tantissimi altri come lui, hanno intuito, ideato, progettato, realizzato e perfezionato, dal nulla, sistemi, macchine, ed accorgimenti di aumento della produzione, della sua qualità, ma, soprattutto, tesi al continuo, costante, miglioramento delle condizioni di vita e di sicurezza degli operai. Quando ancora non c’erano neppure obblighi specifici di legge, che arriveranno con decenni di colpevole ritardo, o imposizioni da parte degli enti antifortunistici preposti. Perchè per l’azienda, in ogni epoca, sfruttando costantemente le innovazioni tecnologiche che si sono susseguite, la salvaguardia dell’ambiente e della salute dei propri dipendenti sono state sempre prioritarie. Checchè se ne dica. Checchè se ne sparli. Come è stato fatto per anni. Invocando, da più parti, una chiusura che ha rappresentato l’inizio della fine, economica in primis, ma non solo, della città.

 

Armando Lotti in cima alla ciminiera di 150 metri dell’Elettrocarbonium

IL FAI HA RISCOPERTO LA STORIA DI ARMANDO LOTTI

 

La recente riapertura, dello stabilimento ascolano dell’Elettrocarbonium durante le tradizionali giornate di primavera del FAI, ad opera della brillante sezione locale Giovani, ha riportato alla luce tante storie legate alla secolare vita della storica fabbrica ascolana. Storie di tanti uomini come Armando Lotti. Vite legate a filo doppio con quella fabbrica. Sacrifici immani compensati dall’orgoglio di essere spesi per una “causa” nobile, un senso di appartenenza forte, che prescindeva abbondantemente dal peso, che è sempre stato considerevole, di quella busta paga a fine mese. Armando Lotti, nativo di Foligno, classe 1930, si diploma Perito Meccanico all’Istituto Tecnico Industriale, quando il pezzo di carta aveva un valore, e la scuola era selettiva. Nella sua classe, quell’anno, ce la fanno solo in tre su ventitre a diplomarsi. Poi il servizio militare come ufficiale nella Scuola di Motorizzazione. Quindi, dopo il congedo, la domanda di assunzione nello stabilimento di Narni. L’ingegner Lomi ne è ora il direttore, dopo esserlo stato, in passato, anche il quello di Ascoli. Alla fine del colloquio lo sfotte. «Possibile che a lei non lo abbia raccomandato proprio nessuno?… Che sò io… il solito vescovo… oppure un cardinale?». Lo stimerà sempre moltissimo l’ingegner Lomi, ad Armando. E sarà una stima ricambiata. Viene assunto subito nel reparto spazzole per motori elettrici. L’anno dopo gli propongono di traferirsi in Ascoli insieme al perito Siro Ciaberna, responsabile della Manutenzione dello stabilimento di Narni, per rimetterne in sesto gli impianti produttivi, a lungo trascurati e bisognosi di manutenzione e rinnovamento. «A dirle tutta non avevo neanche idea di dove si trovasse Ascoli Piceno – ammette Lotti – con mia moglie eravamo sposati da poco e l’azienda mi pagò prima la stanza all’albergo Posta poi l’affitto di un appartamento a Piazza Immacolata. Era il 1958. Trovai una struttura produttiva abbastanza malridotta pechè l’antracite è un minerale fortemente usurante, duro, abrasivo. Quando viene lavorato con materiali ferrosi c’è la necessità di usare leghe speciali, al manganese, o similari».

 

Lotti all’ex Seminario di Carpineto ristrutturato dall’Elettrocarbonium

IL TAVOLO BATTENTE

 

Armando Lotti è subito a capo dell’Officina alle dipendenze del responsabile della Manutenzione, l’ingegner Piva. Direttore di stabilimento è Saverio Pepicelli. Ha in forza ventitrè manutentori. Quando andrà in pensione saranno centoventi. Imballaggi all’inizio, poi manutenzione edile, di cui necessitano quotidianamente i due forni su tre in attività.

«Erano tempi in cui ogni intervento – ricorda Armando – ogni richiesta di spesa alla direzione generale doveva essere illustrata con disegni e circostanziata, dimostrando l’effettiva redditività per l’azienda». La direzione tecnica italiana a Milano, con l’ingegner Genevois, sta ancora nella vecchia sede di via Borghetto, prima del trasferimento nella storica sede di via della Liberazione. In cima alla piramide siede il dottor Nespoli. «Quando a capo dello stabilimento di Ascoli tornò l’ingegner  Lomi – racconta sempre Lotti – producevamo anodi e catodi in alluminio. Usavamo già il tavolo battente. Credo che fossimo gli unici al mondo. Era un eccentrico che sollevava di qualche centimetro un piano e poi lo faceva cadere in caduta libera comprimendo così il contenuto. Il contenitore era interrato per circa due metri e sporgeva solo per una cinquantina di centimetri dal piano di lavoro. Inizialmente avevamo provato a migliorare la compattezza dei prodotti con degli eccentrici vibratori della Venanzetti, ma il risultato non ci soddisfava. Allora, a partire già dagli anni Sessanta, commissionammo alla Mascheroni di Milano un tavolo battente che ci costò anche parecchi soldi».

 

Il primo progetto di modifica tavolo battente di Armando Lotti

ARMANDO LOTTI, L’INVENTORE

 

Allora, non è stato lei l’inventore del tavolo battente, come ci hanno raccontato i suoi ex colleghi durante le recenti visite guidate del FAI nello stabilimento dismesso?

«Assolutamente no. Però, all’Elettrocarbonium di Ascoli  ci abbiamo messo del nostro successivamente – racconta sempre Armando Lotti – e mi spiego. Quando dagli elettrodi di un metro e dieci di diametro per tre metri e venti di altezza, pieni, senza fori interni, che pesavano una trentina di quintali ognuno passammo a produrre elettrodi di dimensioni maggiori dovemmo modificare tutte le attrezzature. Ora facevamo il diametro da centoquaranta centimetri sempre per tre metri e venti di altezza ma il peso passava a otto tonnellate ognuno. E dovevamo farci anche un foro passante nel mezzo, che favoriva la cottura ottimale della mescola di antrace, pece e del catrame al suo interno. Venne da me l’ingegner Lomi, che mi aveva assunto a Narni anni prima, e mi ordinò di mettere mano al progetto. Ero preoccupato più per i disegni e le dettagliate relazioni che Milano ci avrebbe inevitabilmente richiesto. Ma lui era un toscanaccio, classe 1906, senza paura di nessuno. Ci metta mano subito, mi disse. Alle scartoffie ci penso io. Con disegni iniziali approssimativi, ma con tanta buona volontà ci si imbarcò nell’impresa. A braccio. E senza intralciare minimamente la normale produzione che andava avanti regolarmente mentre noi lavoravamo giorno e notte al progetto. Avevo dei collaboratori molto bravi – ricorda ancora Lotti – che si chiamano Giovanni Sospetti e Uriel Morganti con l’elettricista Aldo Collina. Poi ho avuto il piacere di lavorare con Filippo “Pino” Alesi, una persona straordinaria, di poche parole, ma che sapeva fare bene veramente di tutto. Tornando alla nostra “creatura”, in fondo si trattava di un cubo di quattro metri per quattro e alto altrettanto, idoneamente coibentato e montato su ruote semoventi, che veniva bloccato in corrispondenza dei riempitori. Studiammo una illuminazione adeguata per poter sorvegliare tutte le fasi, e un piatto distributore per la colata uniforme del carbone nello stampo. In più, oltre all’azione compattatrice del tavolo battente sottostante, che potenziammo adeguatamente, prevedemmo dei pestelli superiori che dall’alto piovevano sul contenuto dello stampo per costiparlo ulteriormente. Attrezzammo anche una conduttura per l’aspirazione di tutti i fumi attraverso un idrofiltro esterno. Il direttore, Fernando Giordani venne più volte a raccomandarsi durante l’approntamento della macchina. Mi raccomando Lotti, cerchiamo di fare uscire almeno un pezzo al giorno, ci supplicò. Arrivammo a produrne otto ad ogni turno, Ventiquattro ogni giorno». 

 

Una veduta dell’Elettrocarbonium durante le recenti giornate del FAI

IL NOSTRO SAPER FARE BENE

 

Gli occhi di Lotti brillano ancora di soddisfazione al ricordo: «L’ingegner Lomi portò i tedeschi della Siemens e altri grossi clienti in stabilimento per mostrare loro nostro prototipo. Del  funzionamento della macchina potevano capire poco, ma davanti alla qualità del risultato, alla vista dei grandi elettrodi con il buco in mezzo, lisci, compatti, praticamente perfetti, strabuzzavano gli occhi. Eravamo gli unici al mondo a farli così bene. E dopo di noi nessun’altro c’è riuscito».

Quando, negli anni Settanta, si realizzano cinque nuovi altoforni, gli operai dell’Elettrocarbonium di Ascoli se li costruiscono in casa. Da soli. «Sì, facemmo tutto noi, curando particolarmente che non si verificassero perdite con il succedersi dei cicli di produzione. Ricordo un operaio in particolare, Silvio Sestili che tutti qui a Poggio di Bretta chiamavano S’sì, che era un vero maestro nel sigillare una per una, con pezzi di carbone tagliati a misura, le crepe che si aprivano sulle pareti dei forni. Per pulire gli elettrodi inventai anche un altra macchina. Sia le pareti esterne, che l’interno del foro». All’Elettrocarbonium gli hanno fatto fare quella fine, ma pare proprio che oggi, in Italia, non siamo più capaci di produrre nulla:«E’ una tristezza infinita – si rabbuia Armando Lotti – quante esperienze buttate scioccamente via. Abbiamo svenduto i nostri know how. I tedeschi venivano spesso …in pellegrinaggio ad Ascoli per cercare di copiarci, anche sui processi di lavorazione dei nostri grafitati. Peccato. Ma facevo un lavoro che avrei pagato io per farlo, tanta era la passione che avevo».

 

L’IMPEGNO PER L’AMBIENTE E LA SICUREZZA

 

Hanno cercato di far passare l’Elettrocarbonium come una seconda Ilva di Taranto: «Quando sono arrivato io – ricorda sempre Armando Lotti – gli impianti di depurazione e filtraggio erano pochi, e, comunque, non funzionanti, essenzialmente per incuria generale. Quando si rompevano venivano abbandonati. Poi la musica è cambiata. L’azienda è arrivata a spendere fino a undici miliardi all’anno delle vecchie lire solo per limitare l’inquinamento ambientale. E non ha mai, e sottolineo mai, risparmiato su ambiente e sicurezza. Una delle mie soddisfazioni è stata proprio quella: ho lavorato sempre per migliorare le condizioni di vita degli operatori e salvaguardare l’ambiente circostante. Quando non c’erano nemmeno gli obblighi di legge noi avevamo già creato, di concerto con la Commissione Interna dei sindacati, un comitato per la prevenzione e la sicurezza. Il C.a.p.s. Ogni tre mesi ci riunivamo per monitorare gli incidenti, le criticità, e studiare insieme le modifiche a impianti e procedure necessarie a rimuovere le cause che li avevano generati. Abbiamo persino anticipato – conclude – le leggi in materia, nate anni e anni dopo, e quando finalmente siamo arrivati a raggiungere emissioni zero nell’atmosfera, ci hanno fatto chiudere per sempre. Questa era l’Elettrocarbonium. Altro che Ilva».


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