di Walter Luzi
Elia Gagliardi è ascolano di Ascoli. Classe 1940. Nato in via dei Fiori, ricorda orgogliosamente. Era il 29 febbraio. Una data straordinaria. Come il personaggio. Unico e carismatico, per dirla con le parole di Francesca, una delle figlie. Perchè giornali e televisioni si sono già occupati di lui, e della sua storica attività di famiglia, in passato. Una fra le più longeve della città. Quarta generazione di Gagliardi. Ma il cognome, abbastanza comune da queste parti, può dire anche poco. Provate con Megnitt’, allora, che è meglio. Perchè in Ascoli lo sanno tutti chi è Megnitt’. E dove sta. Se sei rimasto a piedi con la bici, o con lo scooter, solo lui ti può tirare subito fuori dai guai. A ogni ora di ogni giorno. Da sempre.
GLI ALBORI CON IL FERRO BATTUTO
E’ Gualtiero, il bisnonno di Elia, il capostipite della Dynasty Megnitt’. Una buona forchetta, e pare che il nomignolo affibbiatogli da qualcuno, stesse, appunto, per gran mangione. Era un valente artigiano del ferro battuto, Gualtiero, quando cominciò a farsi conoscere in città nei primi anni dell’Ottocento. Poi venne suo figlio Pietro, il nonno di Elia. Le attività un tempo si potevano aprire dall’oggi al domani senza tanta burocrazia. Bastava saper far bene qualcosa. E’ per questo motivo che non esistono documenti ufficiali pubblici che testimonino questi albori. Elia assicura però, e di lui, lo sappiamo bene tutti, ci si può fidare, che la ditta di famiglia ha, a oggi, duecentododici anni di vita. Anche se “solo” centottanta di questi documentati in atti ufficiali. Poi arrivò Francesco, il papà di Elia. Allergico ai debiti e ai salti nel buio. Sempre timoroso di nuovi investimenti per paura di perdere la sua casa. L’unica sua ricchezza. L’unico bene per cui valesse davvero la pena, come per moltissimi altri, di spendere una vita intera di sacrifici.
IL MIO COMPAGNO MEGNITT’
«Mio padre – racconta Elia Gagliardi – insieme al suo socio Pierannunzi, aveva l’officina in un vecchio caseggiato vicino al ponte di Porta Maggiore, poi, poco dopo, si trasferirono in un locale davanti al ristorante Gallo d’oro. Cominciai ad armeggiare in officina già da bambino. Erano tempi duri e si iniziava presto, per necessità, a guadagnarsi qualche soldo». I suoi studi si fermano al secondo anno dell’Istituto Tecnico Industriale. «Non ci andavo mai a scuola – confessa Elia – ma i miei insegnanti me li ricordo ancora bene tutti. Massimo, Di Antonio, Trasatti, Capocolletta, Mariotti, Spanò. Mollai definitivamente la scuola dopo uno scontro con il professor Coppi, che era un democristiano fervente a cui non erano per niente simpatici i comunisti come me. Mi beccava continuamente, mi chiamava il compagno Megnitt’, e così un giorno glielo dissi chiaro che cosa pensavo dei democristiani. Mi diedero quindici giorni di sospensione, e da allora non ci sono più tornato. Lavoravo in officina, fra le biciclette, già da un pezzo, ma da quel giorno iniziai a tempo pieno. Che significava dalle quattro di mattina alle otto di sera. Tutti i giorni».
RIPARAZIONI ARTIGIANALI COME OPERE D’ARTE
Giornate lavorative di sedici ore filate, saltando spesso anche il pranzo. Trecentosessantacinque giorni all’anno. «Non a caso in città – ricorda Elia – girava un detto che finì anche sul giornale: Pasqua, Natale e Capodanno, Megnitt’ lavora tutto l’anno. Ma tutti ci volevano un gran bene. Perchè eravamo una famiglia di persone serie. Stimata per l’onestà. Rispettata per l’attaccamento al proprio lavoro, davvero non comune. Si lavorava sodo. Tutti i giorni per molte ore. Eravamo sommersi di biciclette da riparare. Forature soprattutto. Davanti alle Casermette, per terra, lungo la statale, era sempre pieno di chiovette che si staccavano con il caldo dalle suole degli anfibi dei soldati durante le quotidiane marce. Molti ciclisti si arrabbiavano quando foravano in quel tratto di strada. Succedeva spesso, e la domanda ricorrente ai militari era sempre la stessa: ma voi che volete fare arricchire Megnitt’?… Non avevamo, a quel tempo, neppure il mastice necessario per l’incollaggio delle pezze alle camere d’aria. Che si rovesciavano quando erano piene di rattoppi da un lato. I buchi piccoli li tappavamo producendo dei piccoli bernoccoli che sigillavamo poi con lo spago impeciato. Con i vecchi e logori copertoni rinforzati, alla bisogna, all’interno, da pezzuole di vecchia suola per risparmiare. Per tirare avanti ancora un altro po’ prima di sostituirli, perché la maggior parte dei clienti non aveva soldi da poterci spendere. E la mancanza di pezzi di ricambio, e anche la penuria di materie prime, ci costringeva a lunghe e laboriose lavorazioni artigianali, utilizzando quello che si aveva a disposizione in casa. Si andava di forgia e saldatore e stagno, dopo aver pulito con l’acido, ad esempio, per riparare i fili dei freni utilizzando i niples dei raggi. Ogni operazione diveniva lunga e laboriosa. Le riparazioni all’epoca, potevano essere considerate come delle opere d’arte».
L’UNICO GIORNO DI VACANZA PER SPOSARSI
La mamma Marianna è una Cardi, originaria dell’Acquasantano. Quando la sua famiglia cede le linee dei pullman investe tutto il ricavato della sua quota nell’attività del marito. Il lavoro, che sarà sempre prioritario nella vita di Elia Gagliardi, gli preclude pure le frequentazioni con le ragazze. Anche il sabato o la domenica, giorni normalmente deputati per tutti gli altri agli svaghi e alle socializzazioni, specie con le coetanee del gentil sesso, gli capita quasi sempre di staccare tardissimo. E infatti convola a nozze piuttosto tardi per l’epoca. Quando sposa Giuliana Bellini, Elia ha trentatrè anni. Quel giorno, in compenso, si prende un giorno di vacanza. Il primo e l’ultimo. Quando papà e mamma se ne vanno Elia trova nei fratelli Peppe e Nazzareno e nella sorella Pierina l’aiuto per proseguire nell’attività. Passano a dargli una mano volentieri fuori orario, quando si liberano dei propri impegni, ma poi prenderanno altre strade. «Nei giorni di mercato – prosegue sempre Elia Gagliardi – il mercoledì e il sabato, avevamo duecento biciclette, in media, ammucchiate fuori dall’officina da aggiustare. E se ne vendevano tante in quei giorni. Bastava una stretta di mano per concludere. Se la portavano via, e, non appena conclusa la vendita dei loro prodotti al mercato, tornavano con i soldi per pagarci. Ai cancelli dell’Elettrocarbonium andavamo con un Apetta la mattina a caricare quelle da riparare e le riconsegnavamo in tempo ai rispettivi proprietari per l’orario della loro uscita a fine turno. Altri tempi. Solo in pochissimi ci hanno fregato. Il furbo, o il disonesto, erano una rarissima eccezione. Lavoravamo come matti, a testa bassa. Perchè gli incassi erano buoni. E i prezzi che facevamo, onesti, alla portata di tutte le tasche».
LA CRESCITA
«Da via Giudea – continua sempre Elia – ci trasferimmo in rua del Mattonato grazie ai consigli e all’aiuto di due bravissime persone come Don Nicola D’Angelo e il comandante dei Vigili Urbani Armando Cacciatori. Pian piano, un passo alla volta ci siamo ingranditi, acquistando locali attigui fino ai centottanta metri quadrati complessivi attuali. Tutti i nostri fornitori si fidavano di noi. Ci dicevano sempre di non preoccuparci per i soldi. Ci facevano credito volentieri incassando al venduto. Vendevamo le Alas, dei fratelli Sala e di Di Battista di Monza, che ho conosciuto di persona. Gran signori. Ci spedirono quattrocento biciclette in un colpo solo senza pretendere neanche un soldo. Ci vediamo a Natale ci dissero. Vi portiamo il regalo e facciamo i conti. Per loro vendevamo anche le Bartali. Bellissime biciclette. Fu il dottor Vincenzo Chiaretti a offrirci in affitto dei locali di sua proprietà poco distanti dove poterle riporre, dandoci così modo di ingrandirci».
E’ la metà degli anni Cinquanta e gli affari vanno benone. Ma Megnitt’ non snaturerà mai la sua anima popolare, aperta ai bisogni degli altri, alle necessità dei clienti meno agiati. Concede facilmente credito e fiducia. Qualcuno lo deluderà, ma non smetterà mai, per questo, di credere nel Prossimo. Permette di poter pagare a rate a chi non ha possibilità.
«I nostri fornitori – continua Elia – quando passavano per incassare non credevano ai loro occhi, e i nostri assegni della Cassa di Risparmio li accettavano più che volentieri. Sapevano bene che non avrebbero mai nascosto brutte sorprese. Gagliardi era un nome che, già da solo, valeva come garanzia. I nostri zii infatti, Annibale “Z’m’bttì” e Tanziano, avevano aperto un mobilificio a Castagneti, una delle prime fabbriche della città. Zio Tanziano correva con le auto anche alla Mille Miglia. Da Milano a Taranto. Ricordo gli avventurosi viaggi notturni lungo la strada provinciale Bonifica, che aveva più buche di oggi, fino a Martinsicuro per assistere al suo passaggio. Che poi non vedevamo proprio nulla, oltre a sfrecciare due fari nel buio. Ma eravamo contenti così».
ARRIVANO MOTO E MOTORINI
Megnitt’ inizia con le BSA 500, le prime moto inglesi prodotte fin dal 1910. «Erano rigide, senza ammortizzatori – ricorda Elia – poi negli anni Sessanta iniziammo con i motorini, i primi ciclomotori Milani e poi Garelli ed Aspes. L’ingegner Ramazzotti ed Emilio Giammiro, un amico, proprietario della Sassa Roll Bar, furono fea i primi ad acquistarne uno». Ricorda a memoria, Elia, tutti i tanti nomi dei clienti più affezionati, dei marchi che ha trattato nella sua rivendita. Malanca MM, che stavano per le M dei tre proprietari, Marco, Mario e Michele, e poi Tecnoby, Itom, Colnago, Homer e le Gino Bartali da corsa. E dei rispettivi titolari. Ricorda anche di divertenti aneddotti a loro legati. «C’erano gli industrialotti fascisti – ricorda sempre Elia – che mi venivano ad esternare le loro nostalgie per il Duce. A me. Che non avevo neanche l’acqua corrente in casa. Quando arrivò, grazie al nostro grande sindaco Serafino Orlini, fu una festa collettiva, un secondo Sant’Emidio fuori stagione, con le campane che suonarono a distesa in città». Ricorda anche i concorrenti, a partire da Rirì in piazza Roma con i Morini, le Biemme e le Benelli Leoncino, e Pala con le moto Guzzi. Il fratello di Elia, Peppino, prematuramente scomparso, ha corso per un periodo anche in auto partecipando anche all’allora cronoscalata Ascoli-San Marco, oltre che alle varie Sarnano-Sassotetto e Rieti-Terminillo.
LA FINE DI UN’EPOCA
La città e i tempi, oggi, non sono più gli stessi. «Il lavoro è calato di molto – ammette, intristito, Elia, appoggiato con il mento sopra le mani al suo bastone – oggi sono tutti espertissimi. Studiano su Google, acquistano le biciclette online, o ai grandi magazzini. Nessuno ha più bisogno di buoni consigli. Dopo il terremoto del 2016 la città si è spopolata. Le fabbriche più grandi hanno chiuso. I prezzi delle case sono proibitivi. Le mie due figlie, Stefania e Francesca, nella loro vita fanno altro. I miei amici più grandi non ci sono più. Come Ferdinando Trobbiani di Villa Potenza, nel Maceratese, quello delle biciclette Razzo, un vero galantuomo. Ho lavorato con lui per cinquantasette anni. Ne è nata una amicizia “scorporata”. Se n’è andato a novant’anni, due anni fa». Elia ha qualche difficoltà di deambulazione, aggravatasi negli ultimi anni. Si aiuta con bastoni e stampelle, ma continua a venire ogni giorno nella sua officina. Con lo stesso spirito di sempre. Qui dentro, immerso in questo odore di grasso e copertoni, in mezzo ai raggi lucidi delle biciclette appese, c’è tutta la sua vita. E non esiste nessun altro posto al mondo dove vorrebbe passare, piacevolmente, il suo tempo, oltre a questo. E’ l’ora dei bilanci. E dei timori. «Ringrazio il buon Dio – ci dice Elia – soprattutto per la salute che mi ha sempre dato. Io non mi sono mai misurato la febbre in vita mia. Non ho mai visto un termometro. Non so come si fanno le analisi del sangue. Solo a pensare all’idea della malattia, della sofferenza, me la faccio già sotto. Ho lavorato duramente tutta la vita non per accumulare ricchezze, ma solo perché il mio lavoro mi è sempre piaciuto. Ho lavorato sempre, principalmente, per la soddisfazione. Di vendere buoni prodotti ai miei clienti, di essere di aiuto a chi veniva in officina con un problema da risolvere. Qualcosa di buono, penso, siamo riusciti a combinare».
Oggi in officina, insieme ad Elia, c’è anche il nipote, il figlio di Pierina, la sorella, che purtroppo, invece, non c’è più neanche lei. Si chiama Claudio Paci. E’ la quinta generazione di Megnitt’.
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