di Gabriele Vecchioni
Le zone di frontiera hanno visto, spesso, forme di ribellismo verso le autorità, con contrasti sanguinosi e vere e proprie azioni di guerriglia: il cosiddetto “brigantaggio”, movimento socio-economico e politico connotato da figure di personaggi caratteristici. Anche le “nostre” Montagne Gemelle e le aree limitrofe della Laga furono investite dalle azioni dei ribelli: la presenza dei briganti nelle grotte della montagna e nei paesi alle sue falde è stata una delle caratteristiche identificative del territorio.
Il brigantaggio è un complesso fenomeno al quale sono stati dedicati volumi, articoli e pagine web (lavori ai quali si rimanda chi fosse interessato ad approfondire l’argomento). La parola stessa, dall’etimo incerto, forse derivata da briga, voce del sec. XIII che indicava lo scontro – nel Medioevo, il “brigante” era il soldato irregolare, che combatteva a piedi – lo contrassegna in maniera sfavorevole.
Si possono distinguere due fasi del fenomeno: quello cinquecentesco aveva motivazioni prevalentemente sociali ed era giustificato dalle condizioni di miseria in cui viveva gran parte della popolazione; quello più recente (anti-francese negli anni a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo e anti-piemontese dopo l’Unità d’Italia) fu più che altro politico, fomentato dalla Chiesa.
IL PERSONAGGIO – Al ribellismo della fase più antica appartiene la figura del famusissimus caput bannitorum (“bandito” era la persona colpita da un bando, cioè da una condanna) Marco Sciarra, brigante della Valle Castellana, definito da alcuni storici «il primo dei briganti dell’età moderna». Proprio di questo personaggio fuori dell’ordinario ci occuperemo in questo pezzo, nei limiti consentiti dalla brevità del testo dell’articolo.
La personalità di Sciarra si attaglia perfettamente all’analisi di Henri Beyle (scrittore francese attivo a cavallo dei secc. XVIII e XIX, più noto con lo pseudonimo letterario di Stendhal), innamorato dell’Italia e acuto osservatore delle sue realtà sociali, che, pur rapinato da briganti sulla Via Appia, scrisse: «Questa professione [il brigante, NdA] fu inizialmente esercitata da uomini che trovavano più onorevole conservare in tal modo la propria indipendenza che non piegare le ginocchia davanti all’autorità pontificia. Il ricordo delle repubbliche medioevali agiva ancora potentemente sugli animi, turbava ogni mente: in poche parole, il fine sembrava giustificare i mezzi. Uomini dotati di una così selvaggia energia erano animati più da un sentimento di opposizione al governo che non da una premeditata intenzione di attentare la vita o alle sostanze di privati cittadini». Per inciso, Stendhal cita il “nostro” brigante in uno dei racconti di Cronache italiane (La badessa di Castro).
MARCO SCIARRA, nato nel 1550 in Contrada Castiglione di Rocca Santa Maria (solo un casale diruto è rimasto dell’antico insediamento che si affaccia sulla sottostante valle del Tordino), era «homo, benché di vil condizione, d’animo e di spirito elevato», come lo definì lo scrittore napoletano Tommaso Costo (secc. XVI-XVII). Come riferisce lo storico teramano Niccolò Palma, Sciarra non era il suo vero cognome: si trattava di un soprannome che gli diedero i compagni per il suo carattere rissoso.
Figura carismatica, aveva grande seguito popolare e conosceva la psicologia della gente: si presentava annunciato da un banditore, in groppa a un vivace cavallo bianco, preceduto da un vessillifero. Iniziò la sua “carriera” brigantesca nel 1584, dopo un doppio omicidio per ragioni passionali (aveva sorpreso e ucciso a pugnalate la sua donna e l’amante) e dopo essere sfuggito alla repressione di Sisto V che, nel 1585, aveva inaugurato il suo pontificato con una politica di premi per contenere il banditismo; il papa aveva emanato infatti una direttiva: «Havendo mostrato l’esperienza che il premio facilita l’estirpazione delli Banditi, latroni, homicidari, sicarii e simili scelerati che, deposto il timore del S. Iddio, del Principe e della Giustizia non cessano di effondere il sangue Humano, romper le strade, svaligiare i viandanti, commettere incendii, rapine et altri orrendissimi delitti, per ordine espresso del N. S. al quale infinitamente preme la quiete et salute de’ suoi popoli, acciò che li suddetti malfattori ricevano il condegno castigo, col presente pubblico bando si notificano gli infrascritti premii, indulti et remissionii […]».
Col tempo, Sciarra riuscì a comporre una banda numerosa, stabilmente composta di circa 1.000 uomini (che erano addirittura pagati per fare i briganti! Dovevano però rispettare il codice comportamentale imposto da Sciarra), «simile a una formazione militare che marciava con insegne (Treccani)». Come ricorda Alessandro Fiorillo (2004) «…lo storico Rosario Villari ha teso a sottolineare il fatto che quella di Marco Sciarra più che “un’accolta di fuorilegge disperati… era una vera e propria formazione di guerriglieri”».
Sciarra non era un “brigante di confine” ma operava in zone ben distanti dal natìo Abruzzo. La sua banda si appostava sul Regio Tratturo che collegava l’Abruzzo interno con il Tavoliere di Puglia e rapinava gli armentari (i proprietari di greggi), completando le azioni con il sequestro di giovani donne nei paesi attraversati nel corso delle iniziative delittuose («Il famoso bandito Marco Sciarra era capo d’una masnada di gente la più ribalda che mai, T. Brogi, 1900»). Un’altra location delle sue gesta era l’Agro romano, la ricca campagna laziale dove ebbe diverse scaramucce con la gendarmeria papalina, sconfinando anche nel Granducato di Toscana.
Per il carattere delle sue scorrerie fu soprannominato “Re di campagna”. Nonostante l’illegalità delle sue scorribande, Marco Sciarra diede una forte connotazione sociale alla sua azione, tanto da poter «essere definito una sorta di Robin Hood nostrano che toglieva ai ricchi per dare ai poveri», un vendicatore che si autodefiniva flagellum Dei, et commissarius missus a Deo (mandato da Dio) contra usurarios et detinentes pecunias otiosas. Interessante quest’ultima, “moderna” definizione (siamo nel Cinquecento!), un’invettiva contro i detentori di patrimoni non produttivi.
Ancora Fiorillo scrive che «È evidente un confuso riferimento a un ideale sociale che portava lo Sciarra a combattere soprattutto quei rappresentanti del potere parassitario, responsabili dei mali del popolo minuto. Del resto, dagli stessi documenti dell’epoca traspare questo atteggiamento da Robin Hood dello Sciarra, che rubava ai ricchi per donare ai poveri, operando una redistribuzione della ricchezza a vantaggio delle classi disagiate». Il documento citato è l’Avviso che, affisso a Roma il 18 marzo 1590, recitava: «Sabato comparvero presso Fara Sabina [dov’è la famosa Abbazia di Farfa, NdA], 18 miglia da Roma, 600 banditi ben armati provenienti da Aquila e dalle Marche. Uno dei capi, Marco Sciarra, si fa chiamare Flagellum Dei […], pone taglie, prende grano ai ricchi e lo divide fra i poveri».
LA STORIA di Marco Sciarra gode del supporto di una ricca aneddotica che ha contribuito alla creazione della sua fama di bandito-gentiluomo, una nomea che si affievolì nell’ultimo periodo della sua vita quando, incattivito per aver subito un tentativo di avvelenamento nel convento di Monte Brandano (Monteprandone), tollerò diverse azioni crudeli.
La vicenda più famosa riguarda la cattura di Torquato Tasso. Durante un’imboscata, gli uomini di Sciarra rapinarono una comitiva di viandanti; uno di essi si rivolse orgogliosamente ai grassatori: «Io sono Torquato Tasso. Il Poeta». Sciarra fermò le operazioni e ossequiò l’autore della Gerusalemme liberata, restituendo il denaro estorto e facendo ripartire la carovana.
In un’altra occasione, Sciarra e i suoi uomini fecero irruzione, nel corso di una festa di matrimonio, in un borgo del Teramano. Il capobanda raccolse una cospicua somma da parte degli invitati e, a sorpresa, ne fece dono allo sposo; chiese il permesso e, dopo aver ballato con la sposa, si dileguò con la banda.
Un’ultima storia, riportata da Vittorio Camacci (2018), riguarda il nostro territorio. Sarebbe stato proprio Marco Sciarra a donare a un suo sodale spelongano (Carlo Toscano o Toscani) «la bandiera turca che Jurissa Sucich [pirata uscocco, NdA] aveva strappato dalla nave di Telli Hasan Pasha», conservata presso la chiesa parrocchiale della frazione arquatana e sul possesso della quale è fondata la “Festa Bella”, rito triennale che si ripete con grande partecipazione popolare (quest’anno riprende dopo la pausa forzata, prima per il terremoto, poi per la pandemia).
La base della banda era sulle Montagne Gemelle e tra i boschi della Laga ma il teatro delle operazioni era vasto: partendo dall’Abruzzo, il suo “esercito” penetrava nel territorio dello Stato Pontificio. Abile stratega, si alleò con la banda del marchigiano Alfonso Piccolomini, duca di Montemarciano – un nobile passato al banditismo – e tenne in scacco le truppe papaline e del Regno di Napoli per diversi anni, senza mai essere sconfitto in battaglia. In un recente lavoro (2021), G. Pitoni e A. Salvi, ci informano che «Marco di Sciarra era abile nella manovra frontale e di aggiramento, era spericolato nell’affrontare l’avversario, era spavaldo con i suoi soldati e con le truppe del Regno delle due Sicilie e dello Stato Pontificio, aveva un carattere duro e difficile».
Luogotenenti di Marco Sciarra erano personaggi anch’essi noti come banditi: Pacchiarotto, il fratello Luca Sciarra (o Sciarpa), Battistella da Fermo (Battista Amici di Monte Guidone, l’attuale Monte Vidon Combatte, nel Fermano).
Per diversi anni, Sciarra godette dell’appoggio delle masse contadine ma le cose cambiarono alla fine del sec. XVI e iniziò la fase decadente della sua banda, come mostra l’episodio di Cerreto Laziale, dove la sua banda fu messa in fuga dagli stessi cittadini; passò allora, con 300 compagni, al servizio della Repubblica di Venezia; utilizzati all’inizio contro gli Uscocchi, furono inviati poi nell’isola di Creta, dove furono decimati dalla peste. Sciarra riuscì a non imbarcarsi; sfuggì al pericolo di essere consegnato agli uomini di Papa Clemente VIII, impadronendosi di un’imbarcazione e sbarcando sulla costa anconetana, fu di nuovo “bandito” e tornò sulle sue montagne. La sua lunga avventura (ben sette anni alla macchia!) stava però per terminare: fu ucciso a tradimento nel 1593 sui Monti Gemelli in località La Croce (versante settentrionale, vicino al confine col Regno di Napoli), sgozzato proprio dal suo uomo di fiducia, Battistella che, in cambio, ottenne la grazia per sé e i suoi uomini. Di Battistella si perdono le tracce; l’altro “traditore”, Brandimarte Vagnozzi di Porchia, risultava ancora vivo vent’anni dopo (1613).
Chiudiamo questo articolo con un’altra citazione di Stendhal che, in Promenades dans Rome, scrisse, relativamente alle azioni dei briganti, che «Quella vita libera e avventurosa sedusse spiriti che, se ben guidati, sarebbero stati capaci di grandi cose. Darsi alla macchia era sovente per uno oppresso il solo modo per vendicarsi della tirannia di un gran signore o di un abate importante».
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