di Walter Luzi
C’è una lapide come tante su uno dei tanti vecchi loculi del piccolo cimitero di Cossignano. Sulla pietra c’è inciso il nome di Luigi Ghidòli. Un nome, che può dire poco a tanti. Ma di una persona che può insegnare, però, molto a tutti. Definire Luigi Ghidòli un eroe potrebbe apparire esagerato, ma non ne troviamo, per lui, uno più appropriato. La storia della sua vita va raccontata in questi tempi, che vedono l’orrore della guerra tornato di stretta attualità, e quindi, pian piano, quasi percepito come rientrante nella normalità. O anche le ideologie più ripugnanti rifarsi il look, pretendere di riscrivere la storia che le hanno condannate senza appello. Di riproporsi come modello vincente. Le vecchie storie di persone semplici come Luigi Ghidòli invece non vanno mai dimenticate. Fatte di amori e sofferenze. Di coraggio e di altruismo. Di ideali mai traditi. Di valori e sacrifici da far conoscere alle nuove, e spesso del tutto ignare, generazioni. Storie che servono a capire da dove veniamo. E ad insegnarci verso dove andare.
FRA GROTTAMMARE E COSSIGNANO
La mamma di Luigi Ghidòli, Maria Del Duca, era originaria di Cossignano. E’ la figlia del medico condotto, un abruzzese, Alessandro Del Duca, che in paese è molto stimato e benvoluto, ed ha sposato una nobildonna del posto, Matilde Fassitelli. Una famiglia oggi estinta che ha lasciato il nome all’omonimo palazzo, un vero monumento nel cuore del paese. Annibale Ghidòli, il papà, è impiegato nelle Ferrovie dello stato a Roma, ma viene anche lui in vacanza a Grottammare. E’ qui che conosce Maria. L’amore fra i due sboccia in spiaggia. Dopo il matrimonio la coppia si stabilisce a Roma, in via Principe Amedeo, dalle parti di via Nazionale. Ma torneranno tutte le estati, divise fra le case di Cossignano e di Grottammare. Entrambi figli unici, avranno anche loro, solo un figlio. Luigi.
Che nasce nel 1921, ma rimane troppo presto privo dell’affetto della sua mamma. A causa di un brutto male, all’epoca inguaribile, che gli diagnostica proprio suo padre, il dottor Del Duca. Una scoperta che lo farà morire di crepacuore, quattro mesi prima della prematura scomparsa, a soli trentatrè anni, della figlia. La tragedia segna il piccolo Luigi, che di anni ne ha solo dieci. E non ha nemmeno zii, o cugini, che possano consolarlo. Una grave perdita che lo legherà ancor più al padre, e, in maniera indissolubile, a Cossignano. Il paese dove affondano le radici della mamma, e che gli ricorda le lunghe estati sulla spiaggia di Grottammare, e i pochi anni felici della sua infanzia. Dopo la Maturità Classica conseguita al Liceo Ginnasio romano “Torquato Tasso”, si iscrive a Giurisprudenza, ma, per dirla con la dialettica ampollosa del Duce “…l’ora segnata dal destino batte nel cielo della Patria…”. E’ il giugno del 1940. L’Italia entra in guerra.
DA SOTTOTENENTE AL FRONTE
Luigi Ghidòli dopo la scuola ufficiali, in Toscana, a Poggio alla Croce, presta servizio come sottotenente in fanteria. Destinato quasi subito alla guardia di Frontiera sul fronte jugoslavo, dove premeranno, di lì a poco, minacciose, le bande partigiane del maresciallo Tito. L’otto settembre lo sorprende a Villa del Nevoso, il piccolo comune della Venezia Giulia, che oggi è diventata una cittadina slovena: Ilirska Bistrica. Tutti gli alti ufficiali del suo battaglione, nottetempo, sono scappati con la cassa, abbandonando con ignominia i loro uomini. Luigi è l’ufficiale il più alto in grado ora, ad essere rimasto al suo posto.
Un giovane sottotenentino di ventidue anni chiamato a decidere il destino di una truppa dove in molti hanno l’età di suo padre. Tutti gli si fanno intorno sgomenti. «Che cosa dobbiamo fare adesso signor tenente?…» gli chiedono. Il sottotenente Ghidòli non ha esitazioni. Si torna tutti a casa. Fa dividere gli abiti borghesi delle nuove reclute arrivate da poco, ma le scarpe non bastano per tutti, e da quelle militari che calzano è facile essere riconosciuti in mezzo alle lunghe colonne di civili sfollati che stanno, a piedi, lasciando l’Istria e la Dalmazia. A Trieste saranno proprio i suoi scarponi militari a tradirlo. Viene catturato dai tedeschi e incolonnato, insieme ad altri prigionieri, verso destinazione ignota ma facilmente immaginabile. Un campo di concentramento, o un plotone di esecuzione. Luigi lo sa bene a cosa va incontro. Si attarda in fondo alla fila, elude la sorveglianza per abbeverarsi ad una fontana. Alcune donne triestine, nei pressi anche loro per riempire le conche d’acqua, istintivamente lo coprono alla vista mentre la colonna si allontana.
Quando uno dei tedeschi si accorge della sua fuga, e lancia l’allarme, Luigi scappa via di corsa, mentre gli inseguitori gli sparano addosso raffiche di mitra. Approfittando della confusione anche altri prigionieri tentano di scappare. Qualcuno di loro resta, ferito, sul selciato. Corre Luigi, cercando un ultima possibilità di salvezza. Scavalca con la forza della disperazione l’alta recinzione di una casa, e si nasconde fra il fitto fogliame degli arbusti in giardino. Resta lì, acquattato, impaurito, fino alla mattina dopo, quando i proprietari della casa lo scoprono. Ma non lo denunciano. Anzi, lo aiutano. Rifocillandolo, e fornendogli vestiti e scarpe civili. Grazie a quella famiglia, gli Zelen, la sua fuga verso casa può continuare. A piedi, o sfruttando, quando va bene, qualche occasionale strappo sui pochi carretti di passaggio. Cammina per seicento chilometri, prevalentemente di notte. Di giorno infatti preferisce nascondersi. Dopo i partigiani slavi infatti, ora il rischio, altissimo, di fare brutti incontri è con le squadracce repubblichine fasciste, e con i tedeschi in ritirata a caccia di banditen.
Arriva a Cossignano dopo mesi, debilitato dalla fatica ed affamato, con la barba lunga, e seminudo, perché i suoi abiti sono quasi completamente laceri dopo la lunga marcia. Ma vivo. Qui può riabbracciare, finalmente, l’amatissimo padre, sfollato nel frattempo dalla capitale, che quasi non crede ai suoi occhi, dopo mesi senza notizie da parte del suo unico figlio. I paesani, che gli sono corsi incontro lungo la strada brecciata che dalla Valtesino sale fino a Cossignano, gridano al miracolo. Luigi è vivo. E’ tornato dalla guerra. Ora può riassaporare la pace, il riposo in un letto, un piatto di minestra calda, il tempo per l’amore, dopo tante sofferenze. Incrocia infatti lo sguardo di Anna Rosini. Lei è sambenedettese di nascita, ma suo padre, celebre musicista originario di Ripatransone, aveva trasferito la sua famiglia a Roma, da cui ora erano sfollati anche loro. Si innamorano. Ma non fanno in tempo neanche a dirselo. L’incubo della guerra non è finito. Si riaffaccia ancora nella vita di Luigi Ghidòli. E la morte torna, di nuovo, ad accarezzarlo.
LASCIATO IN STRADA E DATO PER MORTO
Una squadraccia di fascisti imperversa nelle campagne di Cossignano da tempo. Pare che abbiano la base dei loro raid in una villa di Marino del Tronto, soprannominata la villa triste, teatro di violenze e torture sui malcapitati caduti nelle loro mani. Sono esaltati. Reduci dalle imprese belliche, ben più gloriose, compiute nella X° Mas. Molto temuti dalle popolazioni civili per la ferocia usata durante le loro scorrerie. Si spingono fin nei paesini dell’interno per rastrellare “volontari” da inquadrare nell’esercito della Repubblica Sociale Italiana. Chi rifiuta di arruolarsi, è passibile di pena capitale. Quel pomeriggio del due aprile 1944, una domenica delle Palme, arrivano a Cossignano a bordo di una Balilla. Sono in tre, tutti armati. Nei pressi di Villa Trocchi acciuffano i primi giovani che incrociano in strada. Si chiamano Giorgio Cocci e Primo Grossetti. Hanno, rispettivamente, ventidue e vent’anni. E non possono nascondere la paura. Vengono insultati e malmenati dalle camice nere, che li caricano a forza sull’auto e li portano sulla piazzetta del paese per esporli al pubblico ludibrio. «Se ne va a spasso questa gioventù – urlano ai presenti i fascisti, continuando a strattonare e schiaffeggiare sotto la minaccia dei fucili, i due giovani – mentre la Patria ha bisogno di loro. Traditori. Si meritano la fucilazione».
Le loro madri, straziate, assistono impotenti e imploranti. Luigi Ghidòli si fa largo fra la piccola folla che si è raccolta, e interviene subito per cercare di evitare a quei ragazzi il peggio. «Non è il vostro un dovere da soldati questo – li ammonisce – siete dei vigliacchi a fare i forti contro dei civili inermi». Uno degli squadristi irato dall’ardire di Luigi, cerca subito di colpirlo con un pugno, mentre gli altri continuano ad urlare insulti sprezzanti verso tutti. Ne nasce una colluttazione a cui pone fine un colpo di fucile sparato da uno dei fascisti.
La pallottola raggiunge al petto, sotto l’ascella, il giovane reduce, armato solo del suo coraggio. Ed esce dalla schiena dopo aver trapassato il torace. Ghidòli stramazza a terra in un lago di sangue. Viene colpito, a calci, dai tre, anche quando, a terra, appare ormai moribondo. Insensibili allo strazio del padre accorso a difenderlo, disperato, nel frattempo. Imbaldanziti dalla lezione impartita a quegli zotici disfattisti, i fascisti se ne vanno senza portare via, almeno per il momento, nessuno con loro. La notizia si diffonde presto in paese. Vola di bocca in bocca, fino alla casa di Anna. «Il sor Luigino è morto! Lo hanno ammazzato i fascisti!». La ragazza corre subito in strada a cercarlo, sconvolta dal dolore. Ma Luigino è, miracolosamente, ancora vivo, pur se ferito gravemente. Sopravviverà. Ancora una volta. Delatori informano subito però i fascisti della novità. Bisogna quindi completare al più presto il lavoro iniziato. I carabinieri della stazione di Ripatransone vengono incaricati di piantonare il ferito nella sua casa, in attesa della guarigione, e del suo pronto trasferimento alla Fortezza Malatesta di Ascoli, dove verrà fucilato. Luigi resta diverse settimane sospeso fra la vita e la morte, poi, lentamente, si riprende. Quando il dottor Neri, medico condotto a Cossignano, si oppone, a causa delle sue condizioni di salute ancora precarie, al suo trasferimento in carcere, i fascisti minacciano dure rappresaglie contro tutto il paese. A quel punto, non appena riesce a reggersi in piedi, Luigi Ghidòli si consegna ai suoi aguzzini per essere rinchiuso nella Fortezza Malatesta di Ascoli.
LA PRIGIONIA
La sua cella è la stessa che aveva occupato, per poco, Fausto Simonetti. Uno dei tanti martiri della Resistenza ascolana. Tradito da un delatore, catturato e imprigionato, mentre era in attesa dell’esecuzione il direttore del carcere lo aveva consegnato, nottetempo, ai fascisti cedendo, pur malvolentieri, alle loro incessanti pressioni. Quelli lo avevano torturato a lungo, per estorcergli informazioni sui suoi compagni partigiani che non avranno mai. Con odio spropositato lo avevano fucilato infine, per finirlo poi, già agonizzante, accanendosi a colpirlo con i calci dei loro moschetti. Una autentica infamia. Ora il direttore era preda dei rimorsi per quella vigliaccata commessa, e con questo giovane Ghidòli, che i fascisti sono nuovamente così ansiosi di eliminare al più presto, non vuole rifarsi loro complice. Tergiversa, prende tempo, invoca il regolamento carcerario, lo sposta più volte di cella, anche perché sa dell’imminente arrivo in città degli Alleati. In quei giorni passati in carcere Luigi conosce e fraternizza con gli altri detenuti antifascisti. Paolini e Fiordelmondo di Ancona, Martorelli di Porto San Giorgio, i fratelli Loreti e i fratelli Perini di Ascoli. C’è anche un medico polacco ebreo, Jarub Heliezer, che verrà trucidato anche lui.
Gli dicono che in una cella vicina è imprigionato anche un tedesco. Un disertore che fucileranno con disonore. Un soldato non più giovane che piange per la sua famiglia lontana. Luigi non prova odio per lui, ma compassione. E con lui dividerà, passandoglielo di mano in mano, da cella a cella, un po’ del cibo che gli hanno fatto avere da casa. Che gli sembra troppo, per i pochi giorni che, ne è convinto, gli restano da vivere. Un po’ di pane e un pezzo di salsiccia. Sarà quella l’ultima cena per il tedesco disertore. Con lo stesso dolore e affetto provato quella sera per quel nemico accomunato dalla stessa sorte, Luigi gli dedicherà, anni dopo, anche una poesia. Perchè, ancora una volta, lui, invece, riesce a scampare alla morte. Come sperava il direttore del carcere, ritardando la sua esecuzione, arriveranno infatti prima gli Alleati a spalancare a tutti i reclusi i cancelli della Fortezza Malatesta. La guerra, stavolta, per Luigi, e per tutti, è finita davvero.
TUTTI A CASA
Finalmente si può pensare la futuro. Luigi Ghidòli riprende subito i suoi studi universitari. Si laurea in Giurisprudenza. In un solo anno, approfittando degli appelli di esame ravvicinati riservati ai reduci. E’ studente brillante, ma ha anche uno stimolo in più per buttarsi a capofitto sui libri. La sua laurea è infatti anche l’unica condizione posta dai genitori di Anna per acconsentire alle loro nozze. Si celebrano il 15 marzo del 1947. La sposa deve rinunciare al tradizionale abito bianco in segno di lutto. L’amatissimo padre di Luigi, Annibale, è morto infatti pochi mesi prima. Ghidòli si impiegherà subito come avventizio in Catasto e, successivamente, al Ministero delle Finanze, dove farà una discreta carriera. Dalla moglie avrà quattro figli: Maria Luisa, ex dirigente dell’Ufficio del Registro di Ascoli, dove vive, Alessandra, storico dell’arte a Roma presso il Ministero dei Beni Culturali e il Quirinale, oggi in pensione, Francesco, che gestisce un locale di ritrovo per musicofili a Roma, e Natalia che lavora anche lei nella capitale, al Ministero dei Beni Culturali. Li amerà immensamente. Come Anna. Affetti che ricolmano i vuoti di una adolescenza a cui la morte della mamma gli ha troppo presto rubato la spensieratezza, e l’assurdità sanguinaria della guerra strappato, a lui e alla sua generazione, la giovinezza. Affetti che leniscono le cicatrici sulla sua carne, ma solo in parte le ferite che porterà per sempre impresse nell’anima.
Negli anni Cinquanta Luigi fa ristrutturare la vecchia casa di Grottammare, perché i suoi figli possano continuare a goderne. E come i suoi nipoti e pronipoti continuano a fare ancora oggi. Per non spezzare il legame con la terra degli avi. Di cui conserva gli ideali più alti, e custodisce gelosamente la Memoria. Insofferente ai salotti romani della politica, cercherà, ogni volta che potrà, serenità e svago fra la campagna di Cossignano e la spiaggia di Grottammare. Anche continuando a coltivare con devozione quelle terre, la vigna, insieme alle amicizie con i vecchi pescatori. Ama infatti molto il mare, e la pesca subacquea. Spesso si imbarca da marinaio sul loro peschereccio per guadagnare il largo. Eccelle nella pittura, e, come detto, scrive anche poesie. Sono anime nobili quelle degli artisti. Non smarrisce mai, nel lavoro e nella vita, un’etica profonda. Nel 1960 nei cinema esce il film capolavoro di Luigi Comencini “Tutti a casa” con Alberto Sordi. Luigi lo riguarderà tutte le volte che lo daranno in tv. E ogni volta piangerà davanti a quello schermo. Riconoscendosi in quelle immagini che gli fanno rivivere, fedelmente, una pagina dolorosa della sua esistenza, e che fotografano mirabilmente uno dei capitoli più ambigui e tragici della storia del nostro Paese.
UN EROE DA RICORDARE
Luigi Ghidòli muore a Roma nel 1996 e riposa nel cimitero di Cossignano. Vent’anni dopo il Comune ha voluto ricordare e commemorare la sua figura nel corso di una toccante cerimonia a cui è stata invitata anche la sua famiglia. Alessandra Ghidòli, la seconda figlia di Luigi, ha portato il saluto e il ringraziamento a nome di tutti. Ma, soprattutto, ha rinverdito il ricordo del padre. Conserva ancora la giacca che lui indossava quella domenica delle palme del 1944. E’ ormai lisa, con il foro del proiettile che fu subito rattoppato per poter continuare ad indossarla. E dalla quale Luigi Ghidòli non si separerà più. La indosserà ancora, a lungo, quando dipingerà, nelle tante notti passate davanti alle sue tele. L’alone della macchia del suo sangue, che è rimasta intorno al foro della pallottola rammendato, vicino a quelli dei colori lasciati dai suoi pennelli. Metafora della sua vita. L’afflato artistico come catarsi. La fantasia di quelle pennellate di colore a tentare di addolcire, con sensibilità profonda, le cupe sofferenze di una vita trafitta.
La figlia Alessandra, cresciuta davanti a quelle figure, più spesso paesaggi, che lentamente prendevano forma sulle tele bianche, si appassionerà all’Arte grazie a lui. «Mio padre – dirà emozionata nel suo breve saluto in Comune – mi ha insegnato a perdonare, ma anche a ricordare. Avrebbe potuto insegnarmi ad odiare, invece mi ha insegnato che molto più forte della stupidità è l’amore. Però ricordare è un dovere. E’ il modo per capire, per dare una ragione a tante morti, a tanti dolori. E per dare speranza che tutto quell’orrore non accada mai più».
Poi, inserita nella scaletta della commemorazione, sempre in Comune, i bambini delle scuole del paese hanno portato in scena una pantomima su come tutte le dittature possono nascere. E possono, devono, essere combattute. Alla fine della toccante giornata una signora con i suoi bambini si è avvicinata ad Alessandra per salutarla. Si è presentata. «Mi chiamo Irene Grossetti – le dice commossa stringendole la mano – sono la figlia di Primo Grossetti, uno di quei ragazzi difesi dal suo papà. Mio padre ce lo ricordava spesso a noi figli, e ai suoi nipoti. Se quel giorno a difendermi non ci fosse stato Luigi Ghidòli, voi non sareste mai nati».
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