di Gabriele Vecchioni
La città antica e le opere di difesa. Ascoli nasce in una posizione strategica, su un’area pianeggiante sopraelevata, ai piedi di una collina (il cosiddetto Colle Pelasgico, attuale Colle dell’Annunziata) e alla confluenza di due corsi d’acqua (il Tronto e il suo affluente Castellano): il luogo eletto era un sito di transizione tra l’area montana e la valle truentina, relativamente ampia, che si apriva verso la costa adriatica («… Ascoli, centro di antica tradizione urbana, significativamente sviluppatosi nel punto di raccordo tra alta e media valle, come baricentro geografico ma anche come punto di incontro tra due diverse “economie del territorio”», E. Giorgi, 2014).
L’architetto fermano Giambattista Carducci, nel suo Discorso su le memorie e i monumenti di Ascoli nel Piceno (1855) aveva riassunto la leggendaria fondazione della città: «L’origine di Ascoli, lasciando le dubbiezze etimologiche, come quella di altre città del Piceno, dileguasi all’occhio dell’erudito, per confondersi coll’epoche oscure de’ remotissimi suoi abitatori.
Posta all’estremità di una penisola formata dalla confluenza del Suino (il Castellano, nda) e del Tronto, sono portato a credere che venisse questa città fondata da alcuna di quelle primitive immigrazioni, che, solendo seguitare il corso delle riviere, nel discendere dai monti Appennini si trovasse costretta tra le profondissime sponde di questi due fiumi, e obbligata a sostarsi nel punto invarcabile del loro congiungimento, quivi propizia nel resto, e quasi che dall’ostacolo stesso prescritta, fermasse dimora».
I resti (urbanistici) archeologici sono limitati sia per le distruzioni feroci della guerra sociale (sec. I AC) sia perché la città nuova (quella medievale e poi quella moderna) sorse “sopra” quella antica. Le origini della città picena sono, probabilmente, anteriori a quello che viene considerato come l’evento leggendario di fondazione (la migrazione sabina legata al ver sacrum, «rituale ben noto nella storia dell’Italia preromana» e più volte ricordato dagli autori classici).
Il nucleo abitato era protetto dalle alte ripe fluviali e la cinta muraria era ridotta, in pratica, alle opere di difesa del lato occidentale della città, quello che aveva maggior bisogno di essere protetto, a differenza di altre zone che potevano sfruttare la “difesa naturale” dei due corsi d’acqua, che scorrevano in alvei abbastanza profondi e difficili da superare. Gustavo Strafforello scrisse (La Patria. Geografia dell’Italia, 1895) che «La città trovasi situata alla confluenza del Tronto col Castellano che stringono Ascoli in tal modo che le mura di cinta sorgono in parte sul ciglio estremo delle dirupate rive di quei fiumi stessi». Già Strabone, nella sua Geografia (sec. I AC), aveva affermato: «…Ascoli Piceno, una località dotata di poderose difese naturali; sia il colle su cui poggia il muro di cinta che le alture circostanti sono inaccessibili agli eserciti».
Alle strutture difensive della città, oltre alla cinta muraria vera e propria e alle opere di protezione delle porte di accesso, apparteneva il Forte Malatesta, eretto sulle sponde del Castellano, a protezione del ponte che lo attraversava e grazie al quale la via consolare Salaria usciva dalla città. Un’altra costruzione di difesa passiva, presente già nel sec. XI, era situata sulle rive del Tronto: era il «castellum de isola», munito di una torre di difesa. Sul posto sorse la chiesa romanica di San Pietro in Castello.
Le mura cittadine. Delle mura urbiche preromane, residuo dell’antico abitato piceno, rimangono i resti (secc. IV-III AC) in potenti blocchi di arenaria, a sinistra della porta romana d’ingresso alla città; sopra, l’alzato di epoca romana in opus quasi reticulatum. Altri resti delle mura di epoca picena, anch’esse costruite con blocchi di arenaria, sono visibili a ridosso del muro perimetrale posteriore della chiesa di San Gregorio, anche come supporto dell’abitato più antico della città.
I centri piceni, solitamente, non erano cinti da mura difensive. Giuseppe Cesari scrive che «Si può supporre che Ascoli si sia dotata di mura consistenti, lontano dall’abitato vero e proprio e all’estremità orientale della pianura coltivata ad esso sottostante, solo nell’ultimo periodo della civiltà picena, forse dal IV/III secolo a. C., probabilmente perché preoccupata dalle incursioni dei Galli Senoni». La popolazione di origine celtica aveva ricacciato i Piceni verso sud e costituiva un pericolo per le genti dell’Italia centrale: proprio la minaccia dei Galli Senoni portò all’alleanza con i Romani (come ricorda Tito Livio nel suo Ab Urbe condita: «… eo minus cunctanter foedus ictum cum Picenti populo est [… per questo senza esitazione fu stipulato un trattato col popolo dei Piceni]») che sconfissero i Galli nella decisiva Battaglia delle Nazioni, a Sentinum (295 AC).
Nell’opuscolo Le Porte e i Ponti di Ascoli Piceno, edito nel 2005 a cura della sezione locale di Italia Nostra, l’ascolano Giuseppe Cesari, noto medico e cultore di storia locale, ha ricostruito minuziosamente la serie di eventi che portarono alla costruzione delle porte cittadine, per poi passarle in rassegna in maniera dettagliata.
In questo articolo (e nel successivo) sarà seguito il suo schema operativo, con una rilettura critica dello scritto e il ricorso a citazioni dal suo testo. Una breve disamina delle porte cittadine era in un articolo precedente (leggilo qui). In questo e nei successivi pezzi l’esame di questi monumenti sarà approfondito, rimandando ai lavori degli storici – facilmente reperibili – chi volesse studiare l’assunto.
Le porte di Ascoli. L’autore citato esordisce scrivendo che i Piceni non costruivano ponti e quindi per avere relazioni con il territorio e attraversare i corsi d’acqua, utilizzavano guadi e passerelle che, nel caso di Ascoli, erano situati nelle vicinanze delle attuali Porta Tufilla, Porta Torricella e San Pietro in Castello. Con la romanizzazione, furono costruiti i ponti e ognuno di essi aveva una porta munita; solo le porte occidentali, cioè quelle sul lato “interno”, erano senza il supporto di un ponte. Cesari conclude la presentazione ricordando che ad ogni porta (e ponte) corrispondeva una chiesa (o un’edicola religiosa, come nel caso di Porta Solestà).
Le porte della città erano sette (Ascoli era definita la «Tebe d’Italia» proprio per questa sua caratteristica). A queste vanno aggiunte le tre porte “di riserva” che normalmente rimanevano chiuse e utilizzate solo in caso di necessità. A proposito della chiusura serale delle porte, lo storico Giuseppe Fabiani ci informa che «Tutte le sere, al coprifuoco, i clavigeri si facevano avanti con le loro chiavi rugginose per chiuderle e chi rimaneva fuori doveva rassegnarsi a dormire all’addiaccio. Vi erano sette di questi clavigeri, giusto il numero delle porte, retribuiti molto miseramente con venti bolognini al mese».
Prima di analizzarle singolarmente, vediamo, in rapida successione, le porte della città. Quella più “famosa” è sicuramente Porta Romana, a ovest del centro abitato, così denominata perché “orientata” verso Roma. A settentrione c’erano Porta Solestà e Porta Tufilla; a est, Porta Maggiore. A sud, si entrava in città passando per Porta Torricella e, ancora a occidente, per Porta Cartara e Porta Corbara. Le cosiddette “porte di riserva” erano Porta di San Germano, Porta summa (alla Fortezza Pia) e la Porta di Santa Margherita (poi “sostituita” dalla Porta di San Pietro in Castello).
PORTA ROMANA – Conosciuta anche come Porta Gemina, perché costituita da due archi gemelli a tutto sesto, permetteva il collegamento con Roma, tramite la Via Salaria. Nel suo lavoro, Cesari riporta le parole della Guida rossa del TCI relativa alle Marche: «La romana Porta Gemina, del I° secolo a. C., a due fornici, con le scanalature per le saracinesche, per le quali entrava in città la via Salaria; ai lati sono notevoli tratti della cinta urbana del III secolo a. C., rafforzati nel periodo dell’erezione della Porta. Oltre i resti romani vi è un’altra porta medievale da cui si stacca a sin. Un lungo tratto di mura costituito in parte con conci di travertino tolti da edifici romani e terminante con un torrione cilindrico merlato; al di là è un altro tratto importante di cortina».
Una curiosità: la porta chiude la piazza (la medievale platea Porte romane) dedicata a Francesco Stabili (Cecco d’Ascoli, morto sul rogo nel 1327) che qui aveva l’abitazione.
Seguiamo ora la ricostruzione di Giuseppe Cesari del percorso cittadino della via consolare Salaria: «Dall’anno 268 a. C., anno di assoggettamento dei Piceni a Roma, la porta ha assunto la sua caratteristica di essere il punto di entrata occidentale della Via Salaria la quale nella fase della Civitas foederata seguiva la direttrice alle falde della collina, corrispondente alle attuali Vie Dino Angelini, XX settembre e C. A. Vecchi, per raggiungere il primo ponte romano sul fiume Castellano. In seguito, dalla metà del I sec. A. C., dopo la deduzione della colonia romana, il percorso della Salaria ha seguito quello del nuovo Decumanus maximus, oggi Corso Mazzini, per giungere comunque alla medesima uscita orientale mediante il ponte romano cosiddetto “di Cecco” per proseguire verso Truentum sull’Adriatico».
Anche prima dell’edificazione della porta romana si entrava in città nello stesso punto, da un’apertura nelle mura picene; la città aveva una doppia cinta muraria e la porta era protetta da due torri a base rettangolare: è stato possibile ricostruire la situazione “preromana” grazie agli scavi archeologici di fine Ottocento; le mura romane si sovrapposero alle precedenti, seguendone l’andamento.
Dopo la distruzione della città di Ascoli (sec. XIII) ad opera delle truppe di Federico II, fu ricostruita una sola cinta muraria, in linea con la porta romana ancora esistente. Le poderose mura medievali hanno, alla base, «grossi e riquadrati massi di travertino provenienti da edifici romani di epoca imperiale»: considerare gli edifici monumentali romani come cave di materiale era un modus operandi piuttosto comune all’epoca.
Sempre in epoca medievale, fu costruita la chiesa (pievanìa) di San Leonardo che si sovrappose alla porta, ridotta a un solo fornice. L’edificio, rimasto in situ per secoli, fu demolito solo ai primi dell’Ottocento, per “liberare” la struttura romana della porta.
(continua)
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