di Francesco Silla
Ieri, 7 maggio, è stato il cinquantesimo anniversario dalla prima spedizione italiana sull’Everest. Fu una missione composta da militari e civili. Tra i primi il capitano Fabrizio Innamorati, comandante di Compagnia presso il Battaglione Carabinieri Paracadutisti di Livorno, originario di Amandola.
Fu un’impresa storica, era la prima spedizione italiana e la settima che raggiunse la cima più alta del mondo. Dei militari, cinque erano carabinieri, il capitano Fabrizio Innamorati, di origini amandolesi e comandante di Compagnia presso il Battaglione Carabinieri Paracadutisti di Livorno, e i carabinieri Ivo Nemela, Enrico Schnarf, Gualtiero Seeber e Giuseppe Cheney, provenienti dal Centro Addestramento Alpino di Selva di Val Gardena (Bolzano), componenti militari della I.E.E. (Italian Everest Expedition), insieme ad altri commilitoni provenienti da “reparti di montagna”.
Si trattò della più impegnativa spedizione himalaiana sino allora portata a compimento. Concepita e guidata da Guido Monzino, fu organizzata dal Ministero della Difesa, che fornì il supporto logistico, le attrezzature, i mezzi di trasporto (aerei ed elicotteri) e di collegamento. La spedizione era infatti diversa dalle altre per la presenza massiccia di militari e perché disponeva di un nucleo di medici incaricati di effettuare studi accurati sulla fisiologia umana ad altissima quota. Al capitano Innamorati era stata affidata la direzione dei rifornimenti e dei trasporti. Organizzò quindi lo spostamento in Nepal a metà gennaio e gli spostamenti interni tra la base di Kathmandu e la località di Lukla, posta a 2.800 metri, da cui iniziò la marcia.
Le prime difficoltà si presentarono a causa delle nevicate intense e condizioni del tempo non ottimali, che portarono a defezioni e rallentarono il cammino per arrivare a Gorak Shep, a quota 5.150. Da qui si spostò il 20 marzo e raggiunse quota 5.360, dove venne allestito il campo base. Quattro giorni dopo, un primo gruppo di 6 alpinisti iniziò l’esplorazione dell’Ice Fall (Cascata di ghiaccio), considerata la chiave per poter accedere alle quote superiori, a quota 5.700 metri.
Il 28 marzo si svolse la più massiccia operazione alpinistica mai prima effettuata: 19 componenti, tra i quali il capitano Innamorati, con 62 sherpa, superarono l’Ice Fall e raggiunsero quota 6.100 allestendo il campo 1, che venne poi raggiunto dagli altri componenti della spedizione. Si continuò poi con il campo 2 a 6.500 metri il 31 marzo, il campo 3 a 6.930 metri l’11 aprile, il 4 a 7.450 metri, e poi l’ultimo campo prima della vetta a 7.985 metri.
Si formarono quindi le cordate per arrivare a turni in vetta. A capo della seconda cordata venne posto proprio il capitano Fabrizio Innamorati. Insieme a lui il maresciallo degli Alpini Virginio Epis, il sergente maggiore degli Alpini Claudio Benedetti e lo sherpa Gyaltzen. Continuarono le nevicate ma il 5 maggio la prima cordata italiana arrivò in vetta. Due giorni più tardi anche la seconda cordata, con il capitano Innamorati, toccò la vetta del mondo.
«Abbiamo incontrato una bufera. Circa due ore fermi, bloccati a cento metri dalla vetta con un maggior consumo di ossigeno. Correvamo il rischio di dover ripiegare per l’infuriare delle fortissime raffiche di vento, ma eravamo decisi a non cedere» disse poi in un’intervista. Prima di iniziare la discesa, il capitano Innamorati pose sulle nevi eterne dell’Everest una piccola riproduzione in peltro del cappello da carabiniere, la tradizionale “lucerna”.
La spedizione, che si concluse poi per il maltempo incessante, riuscì quindi a portare due cordate, una delle quali capitanata da un amandolese, in cima all’Everest.
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