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Un mondo che scompare: mestieri e saperi della montagna

IN QUESTA seconda parte sono approfonditi i temi dell’incontro organizzato dalla sezione Cai Val Vibrata-Monti Gemelli, analizzando i mestieri della montagna, ormai quasi scomparsi
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Olmeto. Operazioni di esbosco con l’aiuto di un fedele compagno di lavoro (foto N. Cesari)

 

di Gabriele Vecchioni

 

(seconda parte – vedi la prima)

  

LE “CACIARE” DELLA MONTAGNA DEI FIORI

 

Sono conosciute come capanne a tholos o capanne a strobilo; tecnicamente, sono capanne pastorali di pietra a secco. Il nome dialettale non deriva dal “cacio”, ma dall’errata trasposizione del termine “casale” (dal latino casula, casetta) secondo lo schema: i casali, li ca(s)ciale – con la “e” finale muta, li caciare. L’associazione dei termini pastori-cacio ha poi consolidato l’uso del termine.

La neviera delle Piagge (foto F. Laganà)

Una precisazione. Per l’origine delle caciare si fa riferimento sempre alla direttrice pugliese ma alcuni studiosi mettono in dubbio questa interpretazione. La motivazione su cui si basa questa affermazione è legata al fatto che le vie della transumanza usate dai pastori abruzzesi arrivavano in Capitanata (la zona di Foggia), dove tali costruzioni sono pressoché assenti; le tholoi sono diffuse nelle zone più meridionali della regione. Viene ipotizzata un’origine diversa del modello costruttivo, secondo una direttrice transadriatica. A sostegno di tale idea viene evidenziata la presenza di capanne simili nei paesi che si affacciano sull’Adriatico e la relativa facilità dei flussi migratòri da sponda a sponda; proprio le popolazioni della costa dàlmata avrebbero esportato la tipologia costruttiva.

Le caciare della Montagna dei Fiori sono circa 150. Sulla Montagna di Campli ce ne sono solo 2): è uno dei misteri della montagna… In uno scritto (la relazione di un’escursione sul Foltrone) del 1898, il canonico Giacinto Pannella scrisse che «capanne di pietre conteste biancheggiano al sole», facendo pensare a una loro maggiore presenza. La desueta parola “conteste” significa “intessute”: Pannella descrive liricamente le pietre “cucite” come in un tessuto.

Sulla Montagna di Campli erano diffusi, invece, gli stazzi, sorta di accampamenti pastorali stagionali.

Chiudiamo il discorso sulle capanne di pietra con un’osservazione. La cattiva qualità del calcare (marnoso) locale e il peso della neve tendono a fratturare l’architrave e a far scivolare in avanti le pietre, con conseguente crollo della struttura. Anche in questo caso (come per altre emergenze della montagna appenninica), mancano il presidio e la manutenzione.

 

Neviera della Montagna dei Fiori ricolma di neve (foto A. Palermi)

L’ECONOMIA DEL BOSCO ERA LA RISORSA PRINCIPALE DEI BORGHI MONTANI

 

Oggi è un’attività meno rilevante (molti boschi sono aree protette). Spesso i boschi erano di proprietà collettiva, di quelle che in Abruzzo erano le Università e nelle Marche le Comunanze (a fine Ottocento nelle Marche erano 350, delle quali ben 176 in provincia di Ascoli).

Il bosco era governato a ceduo, lasciando diversi esemplari – le matricine – per il rinnovamento, e forniva prodotti in via diretta (legname, funghi, castagne) e indiretta (carbone).

Sui Gemelli, i cedui della Montagna dei Fiori sono più antichi (non ci sono esemplari vetusti ma si incontrano ceppaie centenarie) ma ormai degradati per l’abbandono.

La Montagna di Campli era il “regno dei boscaioli”. Ce lo racconta il giornalista teramano Fernando Aurini. Era un insegnante elementare e per raggiungere la sede di Valle Piola partiva da Battaglia, arrivava al Colle Natale e da Pietra Stretta scendeva nella valle di Rio Valle (ha scritto che «Man mano che si sale, le voci, i suoni, i rumori si affievoliscono e si dileguano. Il silenzio sospeso, quasi pauroso, è rotto di tanto in tanto solo dai colpi di ascia dei boscaioli»).

Fedeli compagni dei boscaioli erano i muli con l’aiuto dei quali si effettuava l’esbosco. Le mulattiere di un tempo sono state trasformate in vie di penetrazione; quella che conduce a Pietra Stretta per la Valle degli Scoiattoli (i Biferi) era proprio quella che percorreva Aurini.

 

Una foto di qualche anno fa. Avvolto dal fumo quasi come un personaggio dantesco, uno degli ultimi carbonai della Laga controlla la regolarità della combustione (foto S. Taffoni)

UN MESTIERE IN BIANCO E NERO

 

Sul versante settentrionale della Montagna di Campli, il Bosco della Murata (nome riferito alla parete calcarea del Foltrone) era conosciuto come il “il bosco dei carbonai”, perché oltre che per il legname era sfruttato per la produzione del carbone. Anche sulla Montagna dei Fiori c’è un “sentiero dei carbonai” e ancora si incontrano i resti delle aie carbonili (le “piazzole”).

Quello di carbonaio era un mestiere poco redditizio ma importante: quando l’unica fonte di riscaldamento era la legna e per cucinare serviva il carbone, erano loro ad avere il monopolio della produzione dell’energia. Senza addentrarci in complicati discorsi tecnici, ricordiamo che il carbone vegetale, prodotto con la “cottura” di legname proveniente da boschi, brucia senza odori; quello industriale è di minore qualità perché viene prodotto utilizzando legname di scarto. Le carbonaie, poi, permettevano di sfruttare aree boschive marginali, cedui acclivi e mal ubicati.

Era un lavoro duro e impegnativo, effettuato da specialisti che dovevano restare nei boschi il tempo necessario alla preparazione della catasta di legna (la carbonaia vera e propria) e al governo del fuoco. Nella stagione propizia, essi risalivano i sentieri della montagna e, individuata una zona idonea ai margini del bosco, creavano aree piane (le già citate “piazzole”), spesso sostenute da muretti a secco (alcune sono ancora rinvenibili, sia sulla Montagna di Campli sia vicino ai sentieri di quella dei Fiori, con tracce del carbone prodotto). La preparazione era laboriosa perché dalla precisione del livellamento dipendeva l’omogeneità della combustione e, quindi, la qualità del prodotto finale. Si costruiva poi la carbonaia, accumulando verticalmente tronchetti di faggio e di altre essenze vegetali (càrpino, orniello, roverella; dal leccio si otteneva il pregiato “cannello”) di un metro circa di lunghezza e di pezzatura decrescente (per “chiudere” man mano gli spazi tra i vari tondelli), fino a formare un solido emisferico alto circa 2 m, coperto poi da uno strato di foglie e di terra, spesso una trentina di centimetri. Il fogliame chiudeva gli interstizi tra i tronchetti e zolle di terra umida isolavano la struttura dall’aria, impedendo alla combustione di procedere troppo rapidamente e alla legna di bruciare.

Dopo la demolizione della carbonaia (la scarbonatura), il prodotto veniva confezionato in sacchi (le “balle”) e portato a valle per la commercializzazione (sempre con i muli!).

 

Tassi arbustivi nella faggeta del Monte della Farina (foto G. Vecchioni)

LA FABBRICA DEL FREDDO

 

Fino alla prima metà del Novecento, l’uso del frigorifero era sconosciuto (c’erano le “ghiacciaie”) e, per la conservazione dei cibi, la refrigerazione di bevande, la produzione di granite e gelati e per diversi altri usi, soprattutto in ambito ospedaliero e, in bachicoltura, si usava il ghiaccio proveniente dalle neviere.

Le neviere erano buche, pozzi o strutture più complesse che servivano a conservare la neve trasformata in ghiaccio granulare, durissimo, tanto da dover essere tagliato con strumenti appositi. D’inverno le neviere venivano riempite con strati di neve fresca che veniva battuta, pressandola per ridurre al minimo i vuoti d’aria presenti.

L’azione combinata del costipamento e delle escursioni termiche tra giorno e notte favoriva la rifusione e la solidificazione della neve, con la formazione del nevato e del ghiaccio granulare. Nella stagione calda il ghiaccio delle neviere veniva tagliato in blocchi regolari e trasportato, di notte, nelle zone di consumo, con carri trainati da animali.

Il prodotto era commercializzato in sacchi di iuta, dopo la coibentazione con polvere di pula (residuo della trebbiatura) e foglie secche, e arrivava fino ai centri costieri dell’Adriatico.

I Casali, versante orientale della Montagna de Fiori (foto G. Vecchioni)

Di neviere ce n’erano diverse sulle nostre montagne. Sulla Montagna dei Fiori, il “paese dei nevaroli” era la frazione Piagge di Ascoli Piceno e su quella di Campli, era Battaglia il centro d’elite per la produzione (nei pressi del paese abruzzese c’erano ben 13 luoghi di raccolta!). Nelle case dei nevaroli delle Piagge si recitavano la novène (cicli di preghiere per 3, 6 o 9 giorni consecutivi) e nel paese si effettuavano processioni con la statua della Madonna Addolorata per invocare la nevicata.

A questo punto, per concludere, è doverosa una riflessione.

I lavori “antichi” (come quello di carbonaio e di nevarolo) sono diventati attività museali più che produttive; però, è importante, per ragioni di memoria storica, conservarne il ricordo. La memoria delle cose passate rafforza il sentimento di appartenenza: senza memoria non c’è identità. Occorre mostrare un’attenzione partecipata verso le strutture utilizzate fino a poco tempo fa (e per i lavori svolti…), per la loro valenza culturale, per conoscere e recuperare una “storia” che si sta cancellando.

Alla domanda “Perché interessarci di cose ormai perdute?” risponde il poeta Andrea Zanzotto (1921-2011): «Come la traccia scritta lasciata dall’uomo, è memoria il canto di un uccello nel bosco, lo spirare del vento o il rombo della valanga. Lo è soprattutto l’eco misteriosa di una lingua che era in noi e che abbiamo perduto…». In altre parole, dobbiamo riappropriarci del nostro rapporto con la natura.

Ricordiamo che Zanzotto è stato uno dei maggiori poeti italiani contemporanei. Ha una prosa lirica di non facile lettura ma le sue opere sono sempre ispirate dalla sintonia che l’uomo deve avere con gli elementi naturali e dalla simbiosi con il paesaggio. Per Zanzotto la Natura è un’ “opera d’arte diffusa”, da proteggere.

 

Capre all’Acquachiara (foto G. Vecchioni)

IL TURISMO ESPERENZIALE

 

È importante la (ri)valutazione di un patrimonio del passato – allo stesso tempo, materiale e immateriale – un capitale di competenze e di abilità, in vista di un auspicabile sviluppo del turismo esperenziale.

Nonostante la situazione attuale obiettivamente difficile, il turismo naturalistico rappresenta poco meno del 10% di quello totale. In altre parole, le potenzialità ci sono… sarebbe opportuno, quindi, mettere in cantiere iniziative per far conoscere questo aspetto interessante ma poco conosciuto della storia delle nostre montagne.

 

Fosso il Vallone. Il pastore Aurè con il suo gregge (foto G. Vecchioni)

 

Montagna di Campli. Gregge al pascolo all’Osso caprino (foto G. Vecchioni)

I Monti Gemelli dal versante ascolano (in alto) e da quello teramano (da Castrogno) (foto G. Vecchioni)

 

Uno degli ultimi nevaroli di Battaglia racconta la sua esperienza (foto G. Vecchioni)

 

Gli antichi mestieri delle nostre montagne


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