di Walter Luzi
Poggio di Bretta, la tradizionale festa di San Giovanni Battista ha tante facce. L’unico santo di cui la Cristianità celebra sia la nascita che il martirio, anche qui viene omaggiato con iniziative e ottiche diverse. La condivisione di un cammino, inteso in ogni sua accezione, che vede in testa il giovane parroco venuto dal Madagascar, don Bien Aimè, la memoria legata ai luoghi del passato e alle persone che non ci sono più, la comunione, che è delle anime, ma anche dei più nobili intenti.
Il locale circolo ricreativo culturale Acli e la parrocchia sono i promotori di una giornata, quella di sabato due settembre, da ricordare. Insieme a Giovannino Sestili, Palmarino Luzi e Giancarlo Gabrielli, tutti molto attivi e presenti nell’organizzazione di iniziative in paese, recentemente scomparsi. E’ per loro il primo pensiero della lunga giornata alla partenza dell’escursione da Brecciarolo. Si sale subito su per la ripida “reccorta”, lo stretto sentiero che si inerpica lungo la collina verso Poggio di Bretta.
La via più rapida e fortemente transitata per poter scendere fino alla prima fermata del trasporto pubblico lungo la Salaria, a Brecciarolo appunto, almeno fino alla metà degli anni Settanta. E poter risalire in paese, sempre a piedi ovviamente, al ritorno. Lo sviluppo vorticoso della motorizzazione privata negli anni successivi ne decreteranno il completo abbandono. Rovi selvatici e canneti ne ricopriranno scalette e selciati quotidianamente trafficati per generazioni. Gli affronti del tempo e l’incuria generale dettata dal miope e prepotente incedere del cosiddetto progresso, faranno scendere, presto e a lungo, l’oblio su quell’erto viottolo, e su tutta una lunga e dura epopea tramontata insieme a lui.
Che rivive solo nei ricordi dei più anziani, e nei versi delle nostalgiche poesie dialettali di Maria Gina Stipa. Che ricorda ancora personaggi come Bernardo Peroni “S’t’rr’pò”, che abitava nella prima casa che si incontrava al termine della faticosa ascesa, sempre generosamente pronto ad offrire una bevuta ristoratrice ai viandanti. Un triste oblio che finisce quando un piccolo manipolo di ultimi testimoni di quell’epoca lontana non decide di riportarlo alla luce quel piccolo sentiero. Contando solo sulle proprie forze. In Francesco Valente del settore sentieri del Cai ascolano, trovano subito entusiasta collaborazione. Emidio De Carolis, Giorgio Stipa, Massimo Tomassetti, Domenico e Vittorio Peroni, e Alberto Vitelli riescono a compiere la grande impresa. Inconcepibile per una pubblica amministrazione, e poco appetibile pure per ogni impresa locale che trova irrinunciabile solo il businnes remunerativo e non il mecenatismo filantropo. Loro, invece, ce la fanno da soli. Una forma di volontariato ambientale piuttosto impegnativa.
Decespugliano la vegetazione che si è impossessata del passaggio, ricostruiscono gli scalini franati o andati distrutti dagli invasivi lavori di metanizzazione, ripuliscono e ripristinano i muretti a secco di contenimento. Sudore e fatiche. Tante. Le stesse degli avi. E stessa la soddisfazione. Allora per i raccolti abbondanti, oggi per la riscoperta di un passato che non è mai morto, almeno nei cuori. Uomini e donne, vecchi e bambini, con un prete, in cammino, dunque. Che, come detto, è anche percorso comune di umanità. Di cui si era, paradossalmente, più ricchi quando si era più poveri.
Quando solo miseria e sacrifici erano, per tutti, l’unico pane quotidiano certo. Si fa tappa alla casa di Giuseppe Odoardi. Passato alle cronache del tempo come il Villan d’Ascoli. Una targa appesa sul muro della casa dove nacque, visse e morì, lo ricorda. Un contadino, ma anche valente liutaio autodidatta. La sensibilità artistica, e creativa, possono appartenere anche ai villici. Morto di fatica e malattia a quarant’anni, nel 1786, ma reso immortale dai suoi violini fatti in casa, a Poggio di Bretta, e finiti nei musei per il loro pregio.
Bisogna saperlo, e ricordarselo. Come di Luigi Capriotti, se ne è andato di recente anche lui, che organizzando le “Cene del Villano” lo omaggiava ogni estate. O Don Emidio Luzi, scrittore e storiografo dell’Ottocento, a cui si devono tante testimonianze scritte di vita paesana e non, e che si è meritato per questo l’intitolazione della via principale della frazione. Il percorso dell’escursione, che è anche un viaggio nel passato, risale la dorsale verso l’interno lontana dalla strada provinciale. Dove il traffico scorre rumoroso quasi sempre ad alta velocità, e a ridosso della quale si è cementificato di tutto. Dove campi e case coloniche, aie e alberi, prati verdi e pantani sono stati sostituiti dai palazzi. Dove tocchi con mano la colata, tossica e indiscriminata, sorda e cieca, dell’edilizia portata dal cosiddetto progresso, a violentarne l’anima contadina e pura.
Qualche centinaio di metri più a valle invece il tempo è rimasto fermo a mezzo secolo fa. Certo, i fertili terreni digradanti verso il fosso Riccione sono oggi abbandonati e incolti. I vecchi filari dei vigneti bruciati dal sole e assediati dalle erbacce sono senza grappoli. Ma i profumi della campagna intorno sono gli stessi di allora. Se chiudi gli occhi puoi rivedere le coppie di buoi a trainare i carri, o ad arare i campi. Riascoltare il vociare di uomini, donne e bambini che su quella madre terra spendevano tutte le energie, e riponevano tutte le speranze, della propria esistenza.
Si risale verso l’antica chiesetta di Poggio da Capo dedicata a Maria Assunta, che risale al 1373, quando era qui il centro nevralgico del paese. E’ inagibile dopo l’ultimo terremoto. Ma sulle sue pareti interne ci sono le più antiche raffigurazioni sacre della vallata del Tronto. Solo la piccola campana suona ancora. Rintocchi che mettono ancora più tristezza. La chiesa più grande, edificata successivamente più a valle, ha ospitato a lungo, prima di finire alla civica pinacoteca ascolana, una antica e preziosa tela del Crivelli. La dedicarono a San Giovanni, il Battista.
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