di Walter Luzi
La leggera zoppìa congenita, e la lunga chioma ribelle precocemente imbiancata, non hanno mai scalfito il fascino magnetico di Giuseppe Marinucci. Artista poliedrico autodidatta e visionario. Ha dipinto, e lavorato di tutto: il legno, la cera, la ceramica, la pietra e ogni sorta di metalli. Ha cominciato, ancora bambino, a modellare sassetti con l’argilla di fiume ed è arrivato alla medaglia d’oro del Comitato Internazionale per la Cultura.
Ha esposto nelle gallerie più prestigiose e vantato personali permanenti lontano dalla sua Ascoli, raccogliendo in ogni occasione, intorno a sè, capannelli di ammiratori e, più numerose, ammiratrici. Con la sua arte ha saputo conquistarsi l’apprezzamento e la stima di capi di stato e miliardari dell’epoca. Ha frequentato ricchi e potenti di ogni continente, e gli ambienti mondani più in della jet society, senza rinnegare mai le sue umili origini, e gli amici di sempre. E senza mai arrivare a mercificare il suo talento straordinario e innato, finalizzandolo al puro businnes. A quarantadue anni dalla prematura scomparsa, insieme al figlio Giacomo, vi raccontiamo la sua storia. Per non dimenticare chi è stato Giuseppe Marinucci. Un grande.
NATO POVERO E MORTO POVERO
Giuseppe Marinucci nasce il sette gennaio 1925 nella campagna abbarbicata sulle pendici di Colle San Marco, sotto Lisciano. “Mio padre è nato povero, ed è morto povero – esordisce il figlio Giacomo – così povero che le sue prime creazioni le ha realizzate, ancora bambino, con l’argilla raccolta al fiume perchè, anche se impura, in compenso non costava nulla”. Privato troppo presto dell’affetto di entrambi i genitori plasmerà, fra i primi, un piccolo busto raffigurante la sua mamma. In terza elementare davanti al tema d’esame, non riuscendo a trovare le parole da scriverci, riempie i fogli del quaderno di bei disegni, figure con le quali gli riesce molto meglio esprimere i propri pensieri. Viene bocciato, ma la bravura di questo talento precoce corre di bocca in bocca anche senza il bisogno, che oggi appare così irrinunciabile, dei social. E arriva lontano.
Giovanissimo disegna già per Topolino e Il Corriere dei Piccoli. Una leggera disabilità congenita gli evita la chiamata alle armi e gli orrori della guerra. Ma non gli stenti e le paure che ogni guerra porta con sè. Una passione artistica innata spinge Giuseppe Marinucci subito verso il lavoro di ceramista alla F.A.M.A. di Nello Giovanili, la storica fabbrica di maioliche ascolane, culla di tanti futuri talenti in questo settore. Qui lega molto con Quinto e Fausto Di Flavio. Quest’ultimo, quando può, gli mette da parte un pò di buona argilla da portarsi a casa per le sue creazioni.
GLI INIZI
Da autodidatta, completa la sua formazione artistica alla scuola di Ghino Sassetti dell’Accademia di Urbino. Predilige riprodurre nei suoi lavori figure umane e di animali. Inizia con la ceramica, decorando, antesignano pure in questo, i primi coppi. Inizia presto, grazie a sperimentazioni artigianali che si è inventato, anche a patinare la terracotta, fino a farla sembrare quasi di bronzo. E’ con questo materiale che realizza, per finanziarsi, anche corone di Rosario dai grani giganti che si usava appendere all’epoca sopra le testate dei letti. Dipingerà con tecniche innovative, e lavorerà di tutto: il legno, la cera, la ceramica, la pietra, il bronzo, il rame e l’ottone. “Cera e paraffina – ricorda Giacomo – le comprava da Zazzetti, in piazza Roma. Ci impastava poi una miscela resinosa fatta in casa, lavorabile e a basso costo, per liberare il suo estro e contenere le spese della materia prima. Ma le fusioni in bronzo a cera persa costavano un occhio. I ricavi delle vendite finivano tutti a coprire le sole spese vive. Ogni soldo che guadagnava puntualmente lo reinvestiva subito in nuova materia da modellare”.
Difficoltà che non gli impediscono di farsi presto un nome nel mondo dell’Arte. Espone con successo crescente, già dal 1949, i suoi lavori in esposizioni e nelle gallerie italiane ed europee più prestigiose. Lasciando il segno. Con bronzetti, gessi ossidati, terracotte, cere e dipinti conquista l’interesse dell’Europa intera. Si dedica all’arte sacra decorando con i suoi lavori tantissime chiese.
Da quella di Martinsicuro fino alla mastodontica rappresentazione dei Misteri Gloriosi, ventiquattro metri di lunghezza per quasi sei di altezza, dentro la chiesa del Cuore Immacolato di Maria ad Ascoli. Un’opera pressochè unica nel suo genere. Trecento quintali di ceramica modellata e bronzata con originale tecnica alla fiamma ossidrica da Marinucci, che ne esaltano profondità e chiaroscuri. Il bassorilievo che arricchisce l’abside lo trasporta lui personalmente, dal suo laboratorio alla chiesa, sul camioncino e con l’aiuto di due carissimi amici, Venturino e il figlio Silvio Pierdomenico. In totale impiega due anni di duro lavoro, iniziati nel 1962.
LA FAMIGLIA
Dopo Selene, nata l’anno prima, nel 1962 arriva anche Giacomo, il suo secondogenito. La giovane moglie di Giuseppe Marinucci è una maceratese di Loro Piceno. Si chiama Gennarina Iacozzi. L’ha incontrata, e subito abbordata, alla fermata delle corriere di Piazza Arringo. Lui ha una quindicina d’anni più di lei. Un grande amore e un matrimonio il loro, che naufragheranno a metà degli anni Settanta.
Quando va con tutta la sua famiglia ad abitare al secondo piano di Palazzo Malaspina, Marinucci al pianterreno impianta subito il suo laboratorio completo di forno per cuocere la ceramica. Casa e bottega insomma. Il tempio della sua incontenibile creatività.
Anni dopo nei locali che furono il suo laboratorio ci apriranno il ristorante Le scuderie. Giuseppe Marinucci, l’artista, trova persino il tempo di allestire nella piazzetta di San Gregorio anche i tradizionali carri di Carnevale con le grandi figure allegoriche che lui modella, stavolta, con la cartapesta.
IL SUCCESSO
Negli anni Sessanta si è fatto già un nome. A Roma, nel 1967, vince il primo premio alle mostre internazionali della Natività, e de “La Passione”, ripetendosi, due anni dopo, alla rassegna nazionale di pittura “Sant’Ambroeus”. Pubblico e critica sono sbalorditi dai suoi disegni con inchiostro a china trattati con una tecnica personalissima. “Sì, perchè lui – rivela Giacomo – proteggendosi il polpastrello del pollice con una pezzuola di cotone, ne lucidava a fresco i tratti, rendendoli unici nel genere”. Nella galleria milanese di via Nirone e alla “Burckhardt” della capitale, che ospiteranno molte sue personali, diventa di casa. Il Comune di Milano lo gratificherà con l’Ambrogino d’oro nel marzo 1974. Fra il 1968 e il 1969 espone a Monaco di Baviera e al Central Park di New York. I maggiori critici d’arte dell’epoca, Portalupi, Zingone, Zanchi, Perazza Sironi, fra gli altri, su giornali e riviste specializzate lo osannano. Marinucci raccoglie, fra i tanti amici ed estimatori, anche la prima famiglia di Silvio Berlusconi e Costantino Rozzi.
La quotazione crescente delle sue opere non sfugge nemmeno ai ladri d’arte, che ne rubano diverse nel 1968, a distanza di pochi mesi, sia a Roma che nella sua Ascoli. Con Manzù, Sassu, De Chirico, e Cascella fra gli altri, è uno degli artisti italiani più quotati del suo periodo. E di sempre.
IL SACRO FUOCO
Lavora prevalentemente di notte, quando il suo laboratorio diventa tappa di ritrovo abituale per lavoratori notturni e nottambuli. Alla pari della portineria dell’Hotel Gioli, all’epoca ancora aperto al pubblico, e del laboratorio dell’amico restauratore Lucio Marini. Netturbini, metronotte, poliziotti di pattuglia, e tanti amici invitati a condividere, pur assonnati, la sua incontenibile trance creativa. Che non risente della stanchezza, che non ammette pause, che non può rischiare di vedere dispersi la luce e il fuoco dell’ispirazione per fare posto al riposo, al sonno, che, inevitabilmente, la cancellerebbero.
Gli capita spesso di modellare senza interruzioni per giorni e notti, fino a quando non vede, finalmente e fedelmente, le sue “creature” prendere vita. Le sue visioni concretizzate. “Papà era strano – ricorda sempre Giacomo – ma di cuore. Generoso, con chi, secondo lui, lo meritava”. “… uomo buono, umano, semplice e modesto… artista pieno di vitalità, di forza, di coraggio e di letizia, e, soprattutto, di sacro fuoco per la scultura e la bellezza…” lo definisce in un articolo il critico Sandro Paparatti.
LE DONNE
Marinucci piace alle donne, e le donne piaceranno sempre a lui. Si fa molto presto una fama di affascinante e irresistibile conquistatore. Modelle, ammiratrici, clienti, vip e non. Ai party dei ricchi e famosi il suo nome riecheggia sempre più spesso, la sua presenza ambita. L’ambasciata jugoslava lo aveva già cercato per ritrarre il maresciallo Tito, quando gli arriva l’offerta, tramite l’ambasciatore a Roma, dalle Filippine.
Imelda Marcos, come Cristina Ford, figura in quegli anni fra le donne più belle del mondo. Saranno loro le sue modelle più famose. A Manila i coniugi Marinucci restano ospiti dei Marcos per un mese da mille e una notte. Sulla loro successiva separazione, a metà degli anni Settanta, quell’esperienza peserà non poco. Ferninand e Imelda Marcos gli avevano infatti offerto di stabilirsi lì, e a lui l’idea non dispiaceva.
Maria Cristina Vettore Austin, invece, di origini venete, nonchè consorte del miliardario Henry Ford 2°, rampollo della omonima casa automobilistica americana, diventa una sua fan durante i suoi frequenti soggiorni in Italia. Poserà per lui due volte nella sua lussuosa residenza romana, per gli abbozzi delle sculture, e altrettante, per i ritocchi definitivi, nel laboratorio del maestro al Palazzo Malaspina.
Nottetempo, e in gran segreto. Imboccando contro mano Piazza Arringo perchè nel corteo di Cadillac dei bodyguard la sua Limousine proprio non ci passa a fianco del Battistero.
I NUDI
I nudi femminili sono ricorrenti nelle opere di Marinucci. Ma raffigura sempre donne oppresse e segregate. Deformi e tristi. Prigioniere sofferenti dietro le sbarre degli stereotipi e dei pregiudizi. Mutilate. Senza voce e senza diritti. All’alba di una emancipazione che sorge per loro solo con il 1968. E lui le ama troppo per non vederle, ancora, così.
Una visione progressista che cozza con la nomea ingiustificata, e anche infondata, di fascista, e una fama, questa si, invece, orgogliosamente rivendicata e mai rinnegata, di artista libero, mai sottomesso a certe logiche perverse, ma molto remunerative, del mercato. “Io non mi prostituisco. Io amo l’Arte” soleva ripetere. Nonostante il saldo del suo conto corrente bancario, perennemente in rosso. In altre sculture raffigura spietatamente e amaramente la Politica e la Giustizia.
Svilite. Svuotate degli alti ideali e dei nobili principi che, invece, dovrebbero sempre incarnare. Ed erano solo gli anni Settanta. Negli ultimi cinquant’anni poi le cose in materia sono andate notevolmente peggiorando.
L’ETA’ DEL FERRO
Il ferro è stata l’ultima evoluzione. Marinucci è un precursore del riciclo della materia. Oggi sono tanti gli artisti che si cimentano con il recupero di scarti, ma lui è stato il primo. I fratelli Nardini, gli sfasciacarrozze di Porta Romana, e la fonderia Siderman lungo la Bonifica, diventano i suoi primi fornitori di materia con i loro scarti di lavorazione. Riempie di ferraglie il suo vecchio 124 coupè già sgangherato. Ammucchia nel suo laboratorio di Palazzo Malaspina cumuli di alberi motori, pistoni, bielle, sospensioni e trasmissioni di automobili, e spezzoni di tondini che riprendono vita in originalissime e profonde forme scultoree figurative. Ferro, metallo povero recuperato dai rifiuti, di cui la neonata società dei consumi finirà per riempire presto terre e mari. Ferro che lui riesce ad esaltare lavorando senza risparmio giorno e notte, e surriscaldando fino a fondere le saldatrici Deca che usava. Molte delle sue opere in ferro hanno la caratteristica di ruotare su sè stesse, rese girevoli da appositi perni che permettono di poterle ammirare da ogni angolazione. E arricchite da preziosismi non comuni e non banali, dalla complicata lavorazione, come saldare il ferro con il bronzo o incastonarvi spezzoni di cristalli.
Il figlio Giacomo, adolescente, comincia ad accompagnarlo nei suoi lunghi viaggi in auto per allestire le varie mostre, o presenziare agli eventi. Gli fa da autista, anche se è minorenne, e guida senza avere la patente. A volte provvedono invece, volentieri, gli amici più cari.
LE AMICIZIE
Tanti gli amici. Fra i più affezionati, e abitualmente frequentati, Margherita Vecchiotti, Giovanni (…), che gli dà una mano anche in laboratorio, Venturino Pierdomenico, Amedeo Ficerai fin dall’infanzia, e poi Filippo Cocci Grifoni, Lucio Marini, Fausto Di Flavio, Sergio Zunica.
Tante le cene dell’allegra comitiva nel ristorante di quest’ultimo, Il cacciatore, a Olibra, oppure da Cefelò. Cene, bisbocce, viaggi e bagordi condivisi, scherzi e burle sempre in agguato. Tante le nottate iniziate a cena nei ristoranti, come Lo squalo di Tortoreto, o da Emilio, Agli Archi di Lido di Fermo, e finite, all’alba, nei night. Di Filippo, che ha una profumeria, è cliente assiduo, perchè li ama molto, e ne regala parecchi anche alle tante donne che fequenta. Marinucci gli organizzerà persino un party notturno in corsia mentre è ricoverato all’ospedale di Offida. Champagne e pasticcini anche per le trasecolate infermiere pur di fare una bella sorpresa all’amico. Ernesto Tomassini e Serafino Fiocchi sono i collezionisti e appassionati d’arte ascolani che più lo hanno apprezzato e amato. Perilli e Crocetta prendono coscienza della loro vena creativa anche nella scultura dentro la sua bottega.
Dino Ferrari, altro grande pittore ascolano, gli dedicherà un ritratto. Ettore Tavoletti, che lo ha immortalato in tanti scatti famosi, è il suo fotografo preferito. Altri suoi amici, fra i tanti, sono il dottor Salvi, direttore dello stabilimento ascolano della Pharmacia, e gli artisti concittadini Dante Fazzini e Luciana Nespeca, alias Rosa Spina. Quelli che ci sono ancora continuano a ricordarlo con affetto.
IL RICORDO
Con le opere donate dal figlio Giacomo al Comune di Folignano e a quello di Ascoli, sono state allestite la “Passeggiata Marinucci”, nel 2017, e la mostra permanente, nel “Parco Marinucci”, nel 2022, al forte Malatesta. A San Benedetto due sue sculture troneggiano in viale De Gasperi e alla Palazzina Azzurra. Tanti passanti frettolosi ne ignorano il valore, venale considerevole, e, soprattutto, la grande storia, umana e artistica, dell’autore. Nel giugno del 1981 il critico d’arte Carlo Melloni, a margine della mostra delle opere di Giuseppe Marinucci ospitata nella sua città, alle Tofare, nel programma della tradizionale Festa dei Fiori ne esalta “… il senso di ripulsa e di sarcasmo sia nei confronti del mito della macchina e di quanto di negativo ne deriva, ma anche verso quegli artisti succubi di una committenza resa baldanzosa dal potere… “. Quattro mesi dopo, nella tarda mattinata del 17 ottobre 1981, a bordo della sua Matra Bagheera, Giuseppe Marinucci si schianta a tutta velocità contro un guardrail sparti traffico all’uscita obbligatoria di Marino del Tronto della super strada Ascoli-Mare ancora in via di completamento. Se ne va così, a soli cinquantasei anni. Si disse che fu a causa della stanchezza. Si disse che ci vedeva male, per quella vista compromessa dai troppi lampi della sua saldatrice. Molto più semplicemente, fu solo il destino. Quello riservato ai grandi uomini. Che una morte prematura trasforma in miti.
SE VI SIETE PERSI “LE STORIE DI WALTER LUZI”…..
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