di Walter Luzi
Miseria e nobiltà al Teatro Ventidio Basso. Con emozioni forti. La Compagnia di teatro dialettale “Gente nostra” riesce a riempire il teatro Massimo ascolano, anche se è il giorno è feriale e l’orario di inizio impossibile. Non è una impresa da poco. Recitano in vernacolo ascolano da trent’anni, onorati di raccogliere nel ramo eredità pesanti, come quelle di Giangiacomo Lattanzi, Marco Scatasta e Raniero Isopi, che fin dagli anni Ottanta avevano restituito al dialetto ascolano rango di lingua parlata ed espressività artistica. Un opera di valorizzazione culturale e diffusione attraverso il teatro continuata poi nella compagnia “Gente nostra” dal suo fondatore, Guido Mosca. E’ chiamato anche lui, alla fine, in ribalta, con tutti gli attori schierati, ad abbracciare commosso i suoi allievi, e a condividere con loro l’ovazione del pubblico.
Chiama al suo fianco Zè Vagni. L’altro grande vecchio della Compagnia. Ora la commozione è di entrambi. L’emozione, invece, di tutti. “Miseria e nobiltà” edizione 2024 si trasforma così nella più bella festa di compleanno a cifra tonda dell’Associazione. Un turbinìo di ricordi di questi trent’anni volati via senza accorgersene. Tanti ne sono passati da quella prima “Filomena Marturano” del 1994 in un Ventidio Basso appena riaperto dopo quindici anni di interminabili lavori di ristrutturazione. Le performances artistiche dei singoli interpreti passano in secondo piano, rispetto alla straordinaria autenticità del legame affettivo, prima che alla smisurata passione per la recitazione, che li lega tutti. Che va ben oltre l’amicizia. La loro è una famiglia. E famigliari, padri, mogli, figli, fratelli e sorelle, nonni e nipoti, sono, per davvero, nella vita, molti di loro. Che riportando in scena le miserie vere vissute con dignità e le false nobiltà ostentate con arroganza, sempre di attualità anche nella nostra moderna e intossicata società contemporanea, ci aiutano a ripercorrere la storia del teatro dialettale ascolano.
LA COMPAGNIA DEL CAPANNONE
In principio furono Giangiacomo “Gianni” Lattanzi e Marco Scatasta ad indicare la via. Con la loro Compagnia del Capannone chiamarono a raccolta i migliori popolani-attori dell’epoca.
Quelli che la vis recitativa ce l’avevano impressa nel dna. Acquisita sulle strade della vita quotidiana. Che non necessitava di accademie e corsi di dizione. I lavori di Lattanzi e Scatasta entrati nella leggenda cittadina, “Ve vogghie reccuntà li Cannarine” e “Me recorde che ‘rrete li mierghie”, fra i tanti altri, restano pietre miliari scolpite nella storia del teatro dialettale ascolano. Una rassegna esilarante di tanti personaggi caratteristici e molto conosciuti della città dell’ultimo secolo. Rivivono in scena, fra gli altri, Barelò, C’llò, Lucietta, li g’mmelle cacalos’, Spaghetti. Chi c’era in teatro quelle sere, se le ricorda ancora. Nel 1994 dalla Compagnia del capannone si stacca Guido Mosca, sangue calabrese nelle vene e ascolano di adozione. Fonda la compagnia “Gente nostra”, che ne raccoglie con orgoglio l’eredità culturale, oltre alla stima ricambiata di Gianni Lattanzi, e l’impegno a tramandare il dialetto ascolano.
Alla scuola di “Gente nostra” cresceranno anche il professor Vincenzo Castelli, che fonderà la Compagnia “Li Freciute”, e Paolo Fratoni, che creerà la sua “Castoretto libero”. Guido Mosca sarà maestro e mentore di tutti quelli che entreranno a far parte della sua nuova Compagnia.
IL MAESTRO
Settantanove anni, grande studioso e appassionato di ascolanità, Guido Mosca ha persino tradotto nel dialetto locale l’Inferno di Dante Alighieri (“L’Inferne”). Spazia nelle sue conoscenze. Padroneggia il latino, e sa tutto di Totò. Nel 1999 traduce in ascolano il napoletano di “Miseria e Nobiltà” per portarlo in scena come uno dei cavalli di battaglia della Compagnia.
Eduardo Scarpetta buonanima, antesignano del teatro dialettale moderno, non può prendersela a male d’altronde, avendo lui per primo traslato la lingua napoletana in molte pochade francesi. Ma Mosca, soprattutto, ha saputo trasmettere ai suoi discepoli la sua debordante umanità. Il piacere di ritrovarsi, l’amicizia sincera che cementa tutto, senza rivalità e senza invidie. Cast che si rinnova negli anni senza traumi, e senza perdere l’anima.
Tutti fanno la loro parte in umiltà, anche nella costruzione, il montaggio e lo smontaggio delle scenografie. Condividono l’impegno spassoso delle prove, l’adrenalina del sipario che si apre, l’allegria delle tante cene e delle sbicchierate, l’abituale colonna sonora delle battute e delle immancabili barzellette di Zè Vagni. La mission è quella di mantenere vivo il dialetto, o meglio, per definirla con le parole del direttore artistico Andrea Flaiani, la “lingua ascolana”.
IL DIALETTO DA SALVARE
«Il problema – ci dice Andrea Flaiani, ex agente di commercio, poi dirigente scolastico – è che il nostro dialetto ormai non lo parla più nessuno. Si sta perdendo, e ora dobbiamo insegnarlo ai nostri figli, mentre noi lo abbiamo appreso da padri e nonni naturalmente, perchè quella era la lingua parlata. Si sta perdendo un anello che rischia di rompere la catena. Anzi forse la catena si è già interrotta, perché se devi insegnare una lingua significa che quella lingua, come è successo al latino, è già morta».
«L’opera di Guido Mosca in questo senso – aggiunge il presidente dell’Associazione “Gente nostra”, Mirko Loreti – è stata determinante. Ci ha insegnato e spiegato il significato di vocaboli arcaici o desueti, spesso propri delle nostre campagne, di cui neanche noi, in qualche caso, eravamo a conoscenza».
«La grandezza di personaggi come Lattanzi e Mosca – spiega ancora Flaiani – è stata che oltre ad essere entrambi degli stimati professionisti, avvocato il primo, medico pneumologo il secondo, hanno potuto dedicare larga parte del loro tempo libero allo studio del dialetto ascolano, e più in generale allo studio delle materie umanistiche. Altri ritmi di vita, altre priorità. Oggi noi invece, presi nel tourbillon degli impegni delle nostre vite frenetiche, riusciamo a stento a poterci ritrovare tutti insieme, nello stesso giorno alla stessa ora, per le prove».
LA STORIA SI RIPETE
Eduardo Scarpetta scrive “Miseria e Nobiltà” nel 1887. La sera del debutto è il figlio Vincenzo a impersonare Peppenielle, così come tocca a Luca, figlio di Eduardo De Filippo, ancora un bambino, sessantotto anni dopo, al Teatro Odeon di Milano. La storia di debutti, e di successi, di figli d’arte si perpetua al Ventidio Basso, a centrotrentasei anni di distanza dalla stesura di quella commedia teatrale che fu rampa di lancio per i talenti della famiglia De Filippo.
Claudio Flaiani, figlio tredicenne del direttore artistico Andrea, ripropone la felice tradizione che certe passioni vengano tramandate, con i geni, di padre in figlio. A far raccogliere il testimone, respirando il profumo delle quinte e del tavolato di un palcoscenico. Giorgio Trasatti era stato Peppeniello ad otto anni, oggi, a ventotto, passa ad interpretare il ruolo del giovane Marchesino. Il tempo passa. E poi ci sono gli immortali. Come Nazzareno “Zè” Vagni, con il suo applaudito cammeo. Una verve espressiva mai venuta meno nelle sue ottantacinque primavere.
Da sessant’anni sulla scena cittadina fra mascherate di Carnevale, spesso in coppia, sempre fuori concorso, con “Peperoso” Alberto Ercoli, e tanto teatro dialettale. E’ il presidente onorario di “Gente nostra” e miniera inesauribile di battute, gags e aneddotti. Lui, insieme a Vincenzo Della Posta, Pietro Trasatti, Cinzia Ciannavei e Andrea Flaiani sono i componenti storici della Compagnia. Al Ventidio due i debutti assoluti, di Maria Grazia Giovannozzi e Angelo Conti, fra le diverse new entry in formazione. Largo ai giovani. Qui ragazzi siamo arrivati a contare la quarta generazione di attori. Non è da tutti.
IL FUTURO
Tutti appassionati dilettanti. “… tutta na r’mmessa n’zomma…” per dirla con la schietta e pronta battuta di Zè Vagni. Associazione culturale ma Partita Iva a tutti gli effetti, con tutto quello che, burocraticamente e amministrativamente, ne consegue, soffre economicamente la penuria, ormai cronica, di contributi e sponsorizzazioni da parte di privati o enti pubblici. In un angolo della nuova sede, fiore all’occhiello e fresca di inaugurazione, tante locandine dei loro spettacoli in ogni epoca.
Riposti nel magazzino scenografie e costumi. In attesa della prossima rappresentazione. Si spera nel bis al Filarmonici. Contando ancora nell’appoggio del Comune che ha già concesso gratuitamente, servizi correlati esclusi, l’utilizzo del teatro Massimo. In orario serale stavolta è l’auspicio, anche per i tanti che non hanno potuto esserci al Ventidio. Certa invece la data del 6 aprile, quando si replicherà con “Miseria e nobiltà” al Teatro delle Energie di Grottammare.
Intanto, a Carnevale, cercateli in Piazza del Popolo. Saranno in ordine sparso stavolta. Ognuno di loro, a suo modo, proverà ancora a farvi ridere, o almeno sorridere. Anche a riflettere magari, in questa grande Commedia della vita sempre attuale. Che non vede più, anche ai più alti livelli, limiti al ridicolo e alla spudoratezza. Dove anche le tragedie mutano in farse. E i soldi, il vuoto apparire e l’ostentazione del potere vengono prima di tutto. Forse ci aiuteranno anche loro, quelli di “Gente nostra” a ritrovare valori perduti.
L’umanità, il piacere delle relazioni. Non finte e virtuali. Ma reali, e calde. Stretti, forte, in un abbraccio. Abbracci come quelli del lieto fine, di buoni sentimenti, di “Miseria e Nobiltà”. Per provare a credere, e a tentare di tornare, ad un mondo diverso. Migliore.
SE VI SIETE PERSI “LE STORIE DI WALTER LUZI”…..
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