di Walter Luzi
Questa retrocessione fa male.
A tutti. Ma soprattutto, sembrerebbe incredibile, agli sportivi ascolani più vecchi. Quelli, magari, che non vanno più allo stadio da un bel pezzo, perché, dicono, non ne vale più la pena. Quelli che hanno avuto il privilegio di vivere la propria, inebriante, passione bianconera quando, davvero, tutto, aveva più senso. La fortuna di aver conosciuto il prima, il durante e il dopo, di quello che è rimasto scolpito nella Storia del calcio italiano come il “miracolo Ascoli”.
E non vuole essere questo, il noioso pistolotto del solito vecchio un po’ rincoglionito, patetico nostalgico dei bei tempi andati. Ma soltanto la più amara, dolorosa, e purtroppo anche superflua, riprova che il nostro caro e ineguagliabile Costantino Rozzi aveva intuito, profeticamente, tutto il degenerare di questo mondo con almeno un ventennio di anticipo. Il calcio romantico, quello suo e nostro, non esiste più da tempo, lo sappiamo bene tutti. Anche noi. Ora si chiama calcio moderno. Che non significa migliore. Sotto nessun aspetto.
Come tutte le espressioni della cosiddetta modernità, da guardare sempre con estrema diffidenza, ha drogato, avvelenato, stravolto, anche una delle ultime isole più felici della nostre vite. Un porto sicuro dove, la domenica, si cercava svago, si ritrovava, fra vittorie e sconfitte, comunque, senso si appartenenza, unità d’intenti ed entusiasmo. E si poteva scoprire, strada facendo, anche il valore del riscatto. Di una terra e di un popolo. Con la stessa passione che ciascuno, presidente, allenatore, giocatore, tifoso, ci metteva con tutto il cuore.
Sono stati, principalmente, anche nel calcio moderno, i troppi soldi a rovinare tutto. Lo aveva detto il nostro Costantino, quando tutti ridevano dietro a questo utopista di provincia, che credeva nel sogno del “suo” Ascoli in serie A, per i figli, e i figli dei suoi figli. Quando lui, un segretario in sede, un fenomeno in panchina e quindici giocatori che davano l’anima in campo, bastavano, da soli, per costruire una Leggenda.
Oggi gli organigrammi delle società di calcio sono papiri chilometrici con decine di nuove figure spuntate negli ultimi decenni come funghi, che, dicono, siano tutte indispensabili per costruire i successi. Ma che, intanto, costituiscono zavorra letale per aumentare passivi, strozzare bilanci e provocare fallimenti. Le rose dei giocatori si sono allargate a 25 o 30 elementi, che possono cambiare anche tre maglie di club diversi in un anno solare. Il calcio moderno lo fa.
Spesso non sono i migliori, ma solo i più raccomandati. Quelli con il procuratore, altra figura moderna e determinante del nuovo sistema, più scaltro, influente, e introdotto nell’ambiente. Quelli che ci vogliono, assolutamente, già nelle giovanili, per garantirti ingaggi, e i contratti più ricchi. Soprattutto se sei un brocco. Basta studiare la formula migliore, inserire la clausola più conveniente, concordare la percentuale più ricca. E, oplà, la squadra per retrocedere è fatta. Il calcio moderno lo fa.
Funziona così, più o meno, anche per gli allenatori. Dove contano di più, però, la cura delle public relations con la stampa amica, il nome, il bell’aspetto, l’immagine elegante, il parlare forbito, il modulo, soprattutto. Ecco, il modulo. Questa serie di numeri inutili anche per il lotto, che i brocchi di cui sopra, variamente reclutati e lautamente stipendiati, dovranno sforzarsi poi di applicare in campo. Nei pochi momenti liberi, s’intende, dagli appuntamenti fissi in parruccherie e centri estetici, dalle estenuanti partite alla play station, e dalle interminabili sedute nel centro tattoo di grido per riempire di inchiostro anche gli ultimi centimetri di pelle ancora liberi. Il calcio moderno lo fa.
Nel fitto e spesso opaco groviglio degli interessi intrecciati attecchisce e prolifera il malaffare. I presidenti non sono più i disinteressati e appassionati mecenati di una volta. “I ricchi scemi”, come li definiva irrispettosamente Gianni Brera. Miliardari cioè innamorati di quei colori, e della propria città, che dilapidavano generosamente fette consistenti del patrimonio di famiglia inseguendo scudetti e coppe. Oggi, per lo più, sono solo imprenditori assetati di visibilità, che nel calcio investono come fosse una qualsiasi altra, necessariamente redditizia, attività commerciale. Spesso digiuni, o, peggio, infarciti di incrollabile presunzione di capirne tutto, di calcio. Che, anche per questo, fanno scelte scellerate, scegliendosi collaboratori non all’altezza e circondandosi di yes man. Sono, forse, loro, questi presidenti-squalo moderni, le prime vittime, più o meno consapevoli, e i primi attori, sempre interessati, di un sistema drogato che per soddisfare gli interessi di tutta la variegata e allegra compagnia deve macinare, comunque, milioni di euro.
Un sistema malato che, comunque, ha bisogno di gente come loro per continuare ad alimentarsi, o che, soprattutto, a livello metropolitano, deve ricorrere a misteriosi fondi esteri, a sceicchi annoiati in cerca di nuovi giocattoli, o a ricchissimi oligarchi a caccia di notorietà, reperiti in ogni angolo del pianeta, per continuare a far girare la dispendiosa giostra. Il calcio moderno lo fa.
Calcio sempre più show e sempre meno sport. Sempre più immagine e sempre meno cuore. Con sempre più businnes e sempre meno bandiere. Stadi che diventano discoteche open air. Arene per coraggiosi gladiatori senza macchia e senza paura tramutati in palcoscenici per narcisi esibizionisti. Spettacoli urlati a tutto volume in liturgie sempre uguali in tutti gli stadi, omologate, scimmiottate da quelle viste in tv, e proprie delle grandi ribalte della champions league. Maxischermi pubblicitari a led e decibel a palla. Tutto quanto è ammesso, purché faccia spettacolo, scena, fumo, rumore.
E il gioco del pallone? Ah, sì, ce ne eravamo quasi dimenticati. I talenti puri, in grado di regalare magie al calcio, ma ormai quasi del tutto estinti, qualora ce ne fossero ancora vanno repressi, e ingabbiati nei moduli. Una serie di passaggi laterali infiniti, e se per caso si arriva al limite dell’area avversaria senza trovare sbocchi in avanti, si torna indietro, fino a giocare la palla con il proprio portiere. Pur di mantenerne lo sterile possesso. Una noia mortale. Una ottima maschera per la mediocrità generale. Il calcio moderno lo fa.
Restano gli spettatori sugli spalti. Quelli che continuano, nonostante tutto, ad andarci allo stadio. Preferendolo alle pay tv, altro pericoloso tentacolo sul calcio moderno, restando seduto sul più comodo salotto di casa. E portandoci magari, con sacrificio economico non indifferente, anche i figli, o i nipoti. Anche loro con la sciarpa bianconera legata al collo. Cresciuti a pane e Ascoli Calcio con i racconti dei tempi eroici, le sfuriate televisive di Rozzi, gli urlacci di Mazzone, i gol di Campanini. Un’era iniziata, finalmente, quando, addirittura, si chiamava ancora Del Duca Ascoli, in onore di chi l’aveva salvata dal fallimento.
Ma anche sugli spalti l’avvento nefasto del calcio moderno ha prodotto mutazioni snaturanti. Le società sono oggi quasi sempre ostaggio della frange più accese delle tifoserie. Nocciolo duro del sostegno e, nel contempo, fulcro più temibile di contestazione. Prezioso valore aggiunto per la squadra, ma anche alleato a doppio taglio, pronto a rivoltarsi contro ogni dirigenza ritenuta, a torto, o a ragione, incapace di vincere. L’ultras non conosce mezze misure. O ti osanna, o ti insulta. Dipende solo dai risultati. Atteggiamenti anche comprensibili per chi si sacrifica, sotto ogni profilo, oltre misura, per un campionato intero, solo per fede cieca. E che, soprattutto, per un campionato intero si è aspettato quel cambio di mentalità, quel fremito di orgoglio, quel cambio di marcia, che non ha mai visto arrivare.
La curva ascolana, ieri sud, oggi nord, mette sempre i brividi. Anche con i suoi eccessi, le sue intemperanze che potrebbe risparmiarsi, e che anche ieri ha continuato a cantare il suo orgoglio ben oltre il triplice fischio finale. Quando non ce n’era più motivo. E nemmeno più la speranza, con l’accesso ai play-out, di un miracolo di quelli grossi. I giocatori a testa bassa, per l’ennesima volta, a scusarsi per l’ultima delusione. La più grande. A raccogliere fischi, insulti e disprezzo. Pellegrinaggio ipocrita, che almeno stavolta, potevano risparmiarsi, e che rende patetici tutti. Hanno avuto una stagione intera a disposizione per riscattarsi, per battersi con coraggio e determinazione maggiori, più volte invocati dagli spalti. E anche soccombere alla fine, se l’avversario è più forte di te, ma con onore. È successo pochissime volte. E questo pubblico lo scarso attaccamento alla maglia non lo perdona mai.
Dopo la morte di Costantino Rozzi l’Ascoli ha conosciuto altre retrocessioni ed altri “salvatori”. Quella, dolore fresco, di oggi, la riviviamo con lo stesso magone di ventinove anni fa. Di quella fine ingloriosa della stagione 94/95 segnata dalla prematura scomparsa del presidentissimo. La squadra, e il suo elemento più rappresentativo per primo, tradirono vergognosamente quell’anno le attese di onorare, con la conquista della permanenza in serie B, la sua memoria sul campo. Un doppio affronto. A una delle piazze più calde, ed esigenti, d’Italia. E all’uomo straordinario che la città non smetterà mai di piangere e di rimpiangere. Quella di essere stati sempre misurati con il metro di Costantino Rozzi è stata la più grande iattura per tutti i suoi successori. Battuti in partenza nell’improponibile confronto. Mai troppo amati, e contestati, tutti, prima o poi. A prescindere talvolta anche dai risultati, che, solitamente, riescono, da soli, ad ammansire qualsiasi tifoso.
Nazzareno Cappelli, Roberto Benigni, Francesco Bellini, e, da ultimo, Massimo Pulcinelli non hanno certo avuto vita facile. Quest’ultimo, forse, ci ha messo anche, di suo, maggiore impegno, rispetto agli altri, per farsi detestare. Ma, facendo tesoro degli errori, che sono stati tanti, sicuramente troppi, nelle sue mani rimangono comunque, volenti o nolenti, il destino e il futuro di questa società. Tutte le guerre si fa prestissimo a farle. Ma poi occorrono decenni, se ce se la fa, a ricostruire sopra le macerie. Le cadute precedenti, infatti, sono state anch’esse dolorose. E il recupero delle posizioni lungo, sofferto, e difficilissimo. Sette stagioni durò la prima risalita, fino all’impresa dei Diabolici di Bepi Pillon. Solo due, grazie all’insperato colpo di fortuna di un ripescaggio dalla Lega Pro, schivando fallimenti, sempre incombenti, e mettendo al riparo il glorioso titolo sportivo da immeritati oltraggi.
Nove anni d’inferno, in Serie C, e quarantuno in paradiso, fra serie A e serie B, nell’ultimo mezzo secolo.
La storia siamo noi. E continua.
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