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Da Concetta ad Anna, da Teresa ad Argenta: la Memoria della Resistenza fra le vie del centro

ASCOLI - La tradizionale passeggiata con l’Anpi ha chiuso le celebrazioni della Liberazione del capoluogo Piceno dal nazifascismo di ottant’anni fa. La vicepresidente provinciale Rita Forlini ha fatto da guida in un percorso che ha ricordato anche molte donne ascolane di valore del passato 
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Un momento della passeggiata

 

 

di Walter Luzi

 

Le donne ascolane della Resistenza, e le loro storie che non tutti conoscono. Il viaggio nell’odonomastica cittadina, organizzato dall’Anpi provinciale, riporta alla luce anche figure ed avvenimenti poco noti. Storie di donne soprattutto. Straordinariamente forti, e poco conosciute. Rimaste a lungo, ingiustamente, ai margini delle narrazioni. Merito della vice presidente Anpi del Piceno, Rita Forlini, che guida la passeggiata nel cuore del centro storico di Ascoli e nei mille ricordi di quei giorni di ottant’anni fa. Un anniversario a cifra tonda della Liberazione della città dall’oppressione nazifascista, a chiusura del fitto programma di eventi con cui l’Anpi ha voluto degnamente celebrarlo.

 

Si parte, in un centro svuotato dalle prime calure estive, dal Largo delle partigiane picene. Già Largo del Cremore, antistante la chiesa di Santa Maria Intervineas. Omaggio a grandi donne, postumo e tardivo ancora una volta, datato 2014 sotto la giunta di Guido Castelli, e per l’inaugurazione del quale intervenne anche la presidente della Camera dei Deputati Laura Boldrini.

 

Anna Roscio, coniugata Parisi, aveva quarantanove anni quando fu falciata dalle raffiche dei tedeschi. È l’unica donna-martire della Resistenza a riposare nel cimitero di Ascoli nel blocco monumentale riservato ai partigiani caduti.

 

Ma non è l’unica eroina di quei giorni tragici e gloriosi.  Che videro Ascoli e il Piceno fra le prime città in Italia a scegliere da che parte stare subito dopo l’ambiguo armistizio dell’ 8 settembre 1943. A cominciare dai militari di stanza alle Casermette, alla caserma “Vecchi”, l’allora Distretto Militare, e la caserma “Umberto I°”, presidio militare della città, dove si registrarono i primi scontri.

 

Proprio in corso Mazzini, nei pressi della caserma “Umberto I°”, rimane colpita a morte da un proiettile di rimbalzo Concetta Cafini, studentessa all’Istituto per geometri.

 

Era compagna di collegio di Dora Tombini. Figlia di una famiglia di “comunisti sovversivi” che hanno il loro covo nel ristorante Tornasacco, “la locanda rossa” come l’hanno soprannominata gli sgherri del regime. Attenzioni pesanti, ma non prive di fondamento. Dora infatti, da attivista antifascista, sarà poi una partigiana della prima ora. Più volte era stata convocata a Palazzo Sgariglia per essere “interrogata”. Meglio sarebbe dire intimidita, minacciata, malmenata, nel tentativo di estorcerle ammissioni. Donne e bambini erano infatti gli obiettivi preferiti, perché considerati più deboli, delle pressioni, fisiche e psicologiche, finalizzate alla delazione. Un colpo di frustino al viso di uno dei suoi aguzzini rese Dora cieca da un occhio per sempre. Uno sfregio alla sua bellezza e alla sua femminilità. Il castigo per il suo coraggio e il suo orgoglio. Ma anche segno di resa impotente davanti alla dignità, al fiero desiderio di riscatto, libertà ed emancipazione di un popolo intero. E di tutte le donne.

 

Protagoniste, finalmente, grazie alla Resistenza, della Storia. Padrone, adesso, veramente, delle loro vite, pur mettendole, pericolosamente, a repentaglio, sia pure per la più sacrosanta delle cause. Donne non più destinate a solo a figliare, e marzialmente allevare, le future baionette del regime. Che solo grazie a queste prime battaglie combattute alla pari, al fianco dei partigiani, cominciano a respirare stima e rispetto anche al di fuori, e lontano, dai focolari domestici. Viste e giudicate, invece, come donnacce senza senno, delle poco di buono, nel comune sentire dell’epoca, inquinato, fin dalla notte dei tempi, da pregiudizi patriarcali e maschilisti.

 

Quella di Argenta è un’altra figura femminile, misteriosa e quasi leggendaria, della Resistenza ascolana sulla nostra montagna. William Scalabroni, uno degli ultimi sopravvissuti a quei fatti, ne aveva parlato più volte nelle sue testimonianze, ma neanche Rita Forlini, guida turistica antifascista nell’occasione, è riuscita a scovare, neppure nei registri parrocchiali, tracce ufficiali sulla sua vera identità. Donna forte e determinata, quasi certamente dedita alla pastorizia sulle montagne a cavallo fra Marche e Abruzzo, aveva rifornito generosamente, fino all’ultimo, di acqua, cibarie, e forse anche armi, i ragazzi alla macchia sul Colle San Marco. Che lei forse vedeva e, anagraficamente parlando, avrebbero potuto esserlo benissimo, come figli suoi.

 

Quasi tutti i loro nomi sono incisi sul marmo delle vie ascolane intitolate alla loro imperitura Memoria. Nomi che alla maggioranza dei passanti possono non dire nulla. E proprio questa è la colpa, e anche la vergogna, di molti posteri ingrati. Ignorare. Dimenticare. O, peggio, fregarsene. Di quei martiri, delle loro storie e delle loro medaglie, d’oro, argento o bronzo che siano, al valor militare. Delle loro sofferenze, fino al sacrificio estremo. Del loro sangue, che ha lavato un quarto di secolo di infamie. Che nessun bieco tentativo di revisionismo può riuscire ad infangare. Pietro Marucci era un carabiniere. Con i suoi ventiquattro anni era uno dei più vecchi dei ragazzi di Colle San Marco. Adriano Cinelli, studente ai Geometri, con i suoi soli sedici anni è stato, invece, il più giovane caduto negli scontri. Fausto Simonetti, aviatore, aveva giù vissuto, su più fronti, la guerra vera. Catturato, non aveva tradito la causa neanche sotto le atroci torture patite al forte Malatesta. Fucilato, agonizzante, venne finito a colpi in testa con i calci dei fucili dai suoi aguzzini. Sono solo alcuni dei tanti nomi di partigiani scolpiti sul marmo delle targhe delle vie ascolane. Le loro storie sarebbero tante, e meriterebbero tutte di essere conosciute, e raccontate ai nostri nipoti. Tramandare il loro ricordo deve essere la prima mission. Per tutti. Irrinunciabile. Perchè la memoria corta è il primo, grosso, difetto di noi italiani. E poi ci lamentiamo.

 

Ma le grandi donne della Resistenza ascolana e picena, ritornano, svoltando ad ogni angolo. Teresa Di Giambattista aveva solo sedici anni quando, nell’Acquasantano, faceva da staffetta, fra Paggese e le grotte di Pizzo San Vito, alla banda del leggendario capitano Ettore Bianco.

Teresa Di Giambattista

 

Il dolore e il terrore, ancora vivi, seguiti all’eccidio di Pozza e Umito, non la piegarono. Come il freddo e le tante privazioni patite in quella sua adolescenza di guerra. E neppure i colpi, con il manico dell’accetta, con cui uno dei collaborazionisti locali cercò di estorcerle informazioni sui partigiani di Bianco che stavano riorganizzandosi. Se n’è andata anche lei, nel 2021. A Egidia Coccia i tedeschi bruciarono la casa e uccisero il giovane marito sposato in Comune solo pochi giorni prima.

Egidia Coccia da ragazza

A diciotto anni entrò così nella Resistenza con il coraggio e la determinazione di un leone, operando come staffetta e rifornimento fra le bande dislocate fra il monte Ascensione e il Castignanese. Contadina senza neanche un paio di scarpe, conosceva l’alfabeto Morse, e anche gli ufficiali in comando, come il tenente Plebani, si fidavano ciecamente di lei. Fino all’ultimo dei novantasei anni della sua lunga vita ha portato nelle scuole e fra i giovani la sua testimonianza. Una gioventù di fame e di stenti, di pericoli e paure, ma anche di fiera determinazione a costruire un mondo nuovo, migliore per tutti.

Egidia nel 2016

 

Libero e democratico. Da difendere, sempre, strenuamente, da tutti i fascismi. Quelli vecchi, e, soprattutto, quelli nuovi. C’è occasione per ricordare anche dei religiosi che hanno saputo lasciare la loro impronta nella Resistenza, come don Sante Nespeca, il prete partigiano, e nella salvaguardia della città ospedaliera dai bombardamenti alleati, come il vescovo Ambrogio Squintani. O anche come il venerabile Francesco Antonio Marcucci, nativo di Force, che, già nel 1745, aveva fondato in Ascoli la prima scuola femminile. Una benemerita Istituzione scolastica, quella delle Suore Concezioniste, attiva ancora oggi. L’istruzione come prima, fondamentale, tappa di emancipazione per le donne.

 

E proprio un percorso scolastico brillantissimo aveva portato Franca Maria Matricardi a laurearsi fra i primi ingegneri donna italiane nel 1938. Donna totalmente fuori dagli stantii stereotipi dell’epoca, aveva primeggiato anche nello sport prima di conquistarsi, grazie alle sue capacità non comuni, un ruolo rilevante nell’editoria milanese degli anni Quaranta. Le sue idee innovative di avanguardia fecero la fortuna di diverse case editrici trovando appoggio prima al fianco di un’altro ascolano poco glorificato dalle cronache, Gianni Mazzocchi, e poi Angelo Rizzoli. Antifascista convinta, fu abile, perché troppo intelligente, a non diventare uno strumento di propaganda del regime. Sempre pronto, come in ogni epoca, a salire sul carro di ogni vincitore, a cavalcare ogni successo espressione di superiorità nazionalistica, sia pure conseguito da un essere inferiore, quale era considerato, in epoca fascista, una donna.

 

Franca Maria Matricardi è morta nel 1996. Aveva scelto di tornare a finire i suoi giorni nella sua città, che si era portata sempre nel cuore. L’ignoranza delle sue imprese, anche di partigiana, e l’indifferenza generale dei suoi conterranei, non erano stati il modo migliore per ricambiare. L’intitolazione alla sua Memoria della piazza antistante il polo culturale Sant’Agostino, nel 2019, è arrivato, anche in questo caso, riconoscimento tardivo e postumo.

 

In compenso nella cripta di Sant’Emidio della Cattedrale, fin dal 1954, i mosaici del maestro della scuola vaticana Pietro Gaudenzi, immortalano i drammatici fatti della Resistenza di appena un decennio prima. Mosaici del Duomo di Ascoli su questo tema che restano unici in Italia. E c’è anche un altra cosa da dire. Su ognuna di quelle targhe che intitolano strade e piazze ai martiri della nostra Resistenza, sotto ogni nome c’è scritta sempre la stessa parola. Patriota. Patrioti con la P maiuscola. Quelli autentici. Gli unici degni di potersi fregiare di questo titolo.

 


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