di Walter Luzi
La notizia dell’allontanamento di don Francesco Simeone dalla parrocchia dell’ospedale “Mazzoni” di Ascoli arriva all’improvviso. Una brutta sorpresa per lui, e per tutti quelli che in questi ultimi sei anni hanno avuto modo di conoscerlo ed apprezzarlo, dentro e fuori la struttura sanitaria. E non sono pochi.
Un inatteso, autentico, fulmine a ciel sereno che sconcerta. Un provvedimento che rientra nelle legittime prerogative di un vescovo, ma che non mancherà di suscitare polemiche. Già, a suo tempo, il vescovo precedente, monsignor Giovanni D’Ercole, si era meritato, fra le molte altre, le proteste feroci delle comunità per alcuni avvicendamenti.
Ma da una guida pastorale illuminata come quella di Gianpiero Palmieri non ci aspettava proprio una decisione così impopolare. Sia don Francesco infatti, che la Curia pugliese di Taranto da cui proviene e dipende, avevano dato ampia disponibilità a proseguire nel mandato. Si tratta quindi di un vero e proprio defenestramento con, si spera, una qualche valida motivazione che rimane, al momento, sconosciuta. Ma che ci offre l’occasione di raccontare un po’ della vita di questo prete pugliese, e della sua esperienza nell’ospedale della nostra città. Il minimo che sentiamo di dovergli.
STORIA DI UN PRETE – Classe 1976, don Francesco Simeone, con una laurea in Ingegneria e un posto fisso al Comune del suo paese, Martina Franca, provincia di Taranto, aveva mollato tutto per farsi prete. “Perseguitato dalla vocazione”, come dice lui, entra in seminario a ventisette anni. Il papà Angelo è ex maresciallo in Aviazione poi ragioniere contabile in una ditta. La mamma Gemmina, origini venete e impiegata alla motorizzazione civile, la perde quando lui ha solo nove anni. “Non l’ho persa, lei ci sta sempre …” precisa, ma la botta è di quelle che segnerebbero tutti. L’unico fratello, Vito, ha seguito le orme paterne in aviazione, e vive nel Veneto. L’11 giugno 2010 Francesco viene consacrato sacerdote nella grandiosa Concattedrale di Taranto.
Prima destinazione la parrocchia di Maria Santissima Immacolata a San Giorgio Ionico. Come giovane vice parroco, o, meglio detto, vicario parrocchiale come recitano gli organigrammi ecclesiastici. Ci resta quattro anni, prima del trasferimento a Tramontone, la parrocchia più grande della diocesi di Taranto, come facente funzioni. Arriva in Ascoli nel 2017 proprio grazie all’allora vescovo della diocesi di Ascoli, Giovanni D’Ercole.
«Eravamo ancora scossi – racconta don Francesco Simeone – dalle immagini televisive del terremoto che aveva colpito le vostre zone. Avevamo contribuito con le nostre parrocchie anche all’invio di aiuti alle popolazioni. Il vostro vescovo venne invitato dalla nostra diocesi a portare testimonianza diretta in una concattedrale gremita all’inverosimile.
C’erano circa 1.400 persone ad ascoltarlo e quasi duecento sacerdoti. Alla fine del suo intervento, rivolgendosi al nostro vescovo, Filippo Santoro, chiese scherzando se fra tanti preti presenti poteva prestargliene uno per la sua diocesi. Scelsero me. Ma in tanti avrebbero voluto essere al mio posto».
I suoi parenti lo salutano alla partenza come se stesse partendo per la guerra. La valigia nel bagagliaio della sua vecchia Opel Corsa scassata e scolorita che resiste ancora oggi. Sette ore e mezza di viaggio verso, credeva, una delle casette di legno dei tanti villaggi SAE del cratere. In prima linea. Invece arriva in Ascoli. E’ il 12 ottobre 2017.
VICE PARROCO A MONTICELLI – Il vescovo D’Ercole in persona lo riceve subito al suo arrivo in Episcopio.
«Mi accolse come un figlio – racconta sempre Don Francesco – in attesa di trovarmi una sistemazione mi ospitò nelle sue stanze per quindici giorni. Mi fece mangiare con lui alla sua tavola. Un grande onore per me, le gambe mi tremavano dall’emozione per una accoglienza che mi sembrava di vivere come in una favola».
Nelle parrocchie dei Santi Simone e Giuda e di San Giovanni Evangelista, entrambe a Monticelli, diventa il vice, rispettivamente, di don Giampiero e don Orlando. A cui si aggiungeranno presto anche quelle di Santa Rita, a Brecciarolo, e dell’Istituto San Giuseppe governato dalle Suore Ospedaliere. Ci resta due anni prima di ammalarsi. Colpito da herpes zoster facciale, che gli procura una temporanea paresi, sta per diversi mesi a casa sua, a Martina Franca. Rientra il primo novembre 2019.
La sua nuova destinazione è una parrocchia molto, molto particolare. L’ospedale “Mazzoni” di Ascoli.
LA PARROCCHIA OSPEDALIERA – All’ospedale prende il posto di padre Jesudas, che non parla bene l’italiano ma è stato molto presente nei reparti, di nazionalità indiana come il suo predecessore, molto più giovane, padre Giovanni. I due indiani si erano succeduti dopo un triennio, dal 2010 al 2013, in cui l’ospedale era rimasto senza una guida spirituale. Dopo le dimissioni, a causa di seri motivi di salute che lo stroncheranno pochi anni dopo, a cui era stato costretto don Vincenzo Luciani.
Un mito in tonaca nera, che aveva saputo lasciare la sua impronta impronta profonda nei suoi 43 anni passati nei reparti del nosocomio ascolano. Fra una battuta, una parola di conforto, e una immancabile caramella Rossana in dono cavata prontamente dalla tasca.
Don Francesco Simeone entra in servizio il primo gennaio 2019, anche se il contratto con la odierna Ast data un anno esatto dopo. Alloggia all’ottavo piano in un appartamento che rende abitabile accollandosi per buona metà le spese. Cosi come per la piccola cappella al settimo piano.
«Perché la prima accoglienza – ci dice – deve essere anche nel decoro degli ambienti. Le persone sono figli di Dio, arrivano lì in un periodo triste della propria vita e devono trovare il meglio sotto ogni aspetto». Diventa così, guadagnandosela giorno dopo giorno, una figura di riferimento.
«Io abito lì dentro e vivo lì dentro – continua – lavorare in un ospedale è un grande onore perché mi dà modo di essere vicino ai tesori di Dio. Gli ammalati, i bisognosi, gli ultimi. Chiamati proprio così, tesori, da Gesù nel Vangelo, come da San Lorenzo».
Bacia le mani dei pazienti quando li saluta, e qualche volta chiede di ricevere da loro la benedizione. Ritiene che la loro, dal loro letto di sofferenza, valga molto più della sua. «E’ una esperienza molto umanizzante – spiega sempre don Francesco Simeone – arricchente sotto ogni punto di vista, di relazione con persone di ogni estrazione. Trovi il laureato e il semianalfabeta. La malattia tocca tutti. E’ giusta, non fa discriminazioni. E poi ci sono tutte le componenti. Pazienti ricoverati, i loro parenti, il personale medico e paramedico che li accudisce. La giornata tipo non esiste. Me la dettano, giorno per giorno, i pazienti e tutti gli operatori lì dentro. Il mio compito ordinario della presenza all’interno dei reparti può venire modificato in ogni momento da una chiamata, da una esigenza. I miei anni cinque anni in ospedale li ho vissuti come un unico grande lunghissimo giorno senza fine. Non si stacca mai, non c’è la sensazione del giorno finito, o della missione conclusa».
Celebrazioni, confessioni, sacramenti, estrema unzione degli infermi. H 24 a tutti gli effetti. Il suo telefonino è sempre acceso. «Anche quando vado a trovare papà in Puglia loro mi chiamano – racconta – solo per parlare un po’ magari. Di fronte ad un’amicizia, ad un affetto, non ci sono ferie che tengano. Loro mi devono chiamare, e io devo esserci sempre. Sono il cappellano dei pazienti, dei loro parenti, dei dipendenti, degli studenti dei corsi universitari interni, e di tutti quelli che, per un motivo o per l’altro, orbitano intorno alla struttura ospedaliera».
L’esperienza del Covid
Quello della pandemia è stato il periodo contrassegnato dalle esperienze più toccanti. «Sentivo di dover fare qualcosa in quel particolare momento più che mai – racconta – non potevo starmene chiuso in casa ad oziare tutto il tempo davanti alla tv. Sono rimasto completamente inattivo solo per una settimana, poi dopo aver fatto insistente richiesta di poter entrare nei reparti, è arrivato il via libera della dottoressa Diana Sansoni, direttrice sanitaria dell’epoca, che capì con molta sensibilità ed intelligenza il momento. Frequentai un corso per la sicurezza e, completamente scafandrato come un astronauta, tornai a girare per i reparti. L’ospedale era completamente svuotato di parenti e visitatori. Tanti, soprattutto i più anziani, non muniti o con scarsa domestichezza con i telefonini cellulari, isolati dal loro mondo».
Don Francesco diventa subito l’anello di congiunzione fra molti di loro e i rispettivi parenti a casa. Si inventa, per chi si ricorda o tiene annotato un numero di un parente prossimo, le videochiamate dal suo cellulare. Dopo di lui inizieranno anche gli infermieri a ristabilire un contatto con l’esterno in questa maniera. Disperazioni di un momento disperato sciolti in lacrime di qua e di là del display.
«Ricordo il loro pianti – ci dice sempre don Francesco – e i loro singhiozzi di gioia insperata per quel momento inaspettato, che faceva ritrovare conforto e speranza». Chi ha vissuto quei momenti non potrà scordarselo più don Francesco. «Mi aspettavano – ricorda ancora – e mi sono sentito considerato in quei momenti come fratello, padre, figlio, amico fidato di ognuno di loro». Qualcun altro ha trovato il modo anche per trattarlo male. Basta solo la vista di quel clergyman, il collarino bianco ecclesiastico. Un altro buon motivo per essere insultato non serve. Basta il pregiudizio anticlericale. «Dammi l’opportunità di conoscerci meglio – cercavo di spiegare io – concedimi almeno una chance, poi, se non ti vado a genio, potrai trattarmi male lo stesso, ma, prima, conosciamoci meglio».
LA CAPPELLA COME CAMERA ARDENTE – Prima dell’arrivo di don Francesco la cappella dell’ospedale si utilizzava come camera ardente solo per le emergenze. Come subito dopo la tragedia del terremoto, quando in quei 300 metri quadrati vennero ospitate 49 salme. Era una cappella decadente, quasi dismessa, e collegata solo al dolore di quei lutti, nella quale nessuno voleva più entrare. Don Francesco gli cambia letteralmente il volto. Sotto quella volta alta quasi dieci metri fa ripitturare le pareti con vivaci immagini sacre, rinnova il pavimento e gli arredi dell’altare. Rende l’ambiente accogliente e luminoso, e lo rimette a disposizione di tutta la collettività.
Durante la lunga emergenza covid per i funerali chi non vuole o non può riportare le salme dei loro cari in casa. Successivamente a disposizione di chi non ha la possibilità economica di permettersi altre soluzioni. Più spesso, di chi ha semplicemente il desiderio di ospitare il feretro in un luogo consacrato, forse il più idoneo per l’ultimo saluto, a volte per espressa, pregressa volontà del loro caro estinto. «Le porte sono aperte a tutti – ne è convinto padre Simeone – in questi casi la Chiesa deve poter dire di esserci. La Chiesa. Non don Francesco». Da una cappella grigia e inutilizzata nasce così un colorato crocevia di emozioni e commosse condivisioni aperto a migliaia di persone che l’hanno scoperta, o riscoperta, come l’ambiente più adatto al raccoglimento, alla riflessione, alla preghiera.
Don Francesco è sempre presente fra i parenti. Lui li sostiene, e loro non si dimenticano di lui. Molti rapporti non finiscono con le esequie del caro estinto, ma vanno avanti anche dopo. Come tutte le cose che contano davvero nella vita. Una presenza costante per una elaborazione del lutto che in pochissimi hanno a cuore come lui. In ospedale ha creato un team affiatatissimo di una cinquantina di collaboratori volontari che girano nei reparti insieme a lui, che sono voluti entrare nel mondo che lui serve. Suore, coppie di coniugi, ragazzi anche, il più giovane ha ventuno anni. Generosità premiate con un si. «Con tutte le imprese di pompe funebri – conclude – e gli addetti alla camera mortuaria dell’ospedale abbiamo lavorato moltissimo insieme per tante persone che vivono il momento forse più difficile della loro vita».
L’ULTIMO NATALE ASCOLANO – Poi, un bel giorno, si fa per dire, arriva la brutta sorpresa.
La convocazione in Curia, la comunicazione del licenziamento. Il prossimo, per Francesco Simeone, sarà l’ultimo Natale ascolano. «Ad un ordine del Vescovo posso solo rispondere di sì – chiosa amaro – ne prendo atto molto dispiaciuto, anche se non sono d’accordo, e lui non è tenuto a fornirmi spiegazioni. L’idea di poter tornare alla mia famiglia, alla mia terra, ai miei amici è l’unica consolazione a questa brutta notizia. Se gli spostamenti sono frutto del suo discernimento, cioè frutto di preghiera, confronto e consiglio con i suoi più stretti collaboratori, allora è giusto che lo faccia. Se invece questi cambiamenti sono frutto di pressioni, convenienze e sconvenienze, invidie e gelosie, in questo caso lo Spirito Santo ha le ali legate e non c’entra niente. Dunque è un errore. Uno sbaglio che sarà solo il tempo a rivelarci».
Il suo successore designato nella particolarissima, grande e variegata parrocchia dell’ospedale “Mazzoni” si chiama Francesco Mangani. Il figlio di una autentica istituzione vivente in campo medico, e un unicum di umanità, come il professor Giuliano Mangani. Seguirà il solco tracciato da padre Simeone in questi ultimi anni? «Siamo diversi. Non lo so – ci pensa su un attimo don Francesco – ma è anche giusto che non lo segua. Che sia sé stesso. Io appena arrivai al “Mazzoni” ho sentito il bisogno di chiedere chi fossero stati i miei predecessori, a cominciare da don Vincenzo, di cui ho appeso le foto dappertutto, fino agli altri che hanno poi preso il suo posto. Mi sono informato. Ho lasciato quello che avevano costruito, e ho cercato di migliorarlo, aggiungendo qualcosa di mio. La distruzione della Memoria è qualcosa che mi fa venire i brividi. Mi piacerebbe che anche il mio successore si informasse bene su quello che ho lasciato, conservasse quello che c’è di buono e aggiungesse quello che c’è di buono nella sua creatività ministeriale e spirituale”.
Padre Francesco Simeone resterà in servizio all’Ospedale “Mazzoni” fino alla fine dell’anno. Periodo questo in cui sarà affiancato per il corposo passaggio di consegne dal suo successore, che nel frattempo conserverà anche la titolarità nella sua attuale parrocchia di Santo Stefano Protomartire a Roccafluvione. Un ospedale è molto più complesso di una parrocchia. Una grande comunità che dovrà prepararsi anch’essa al prematuro addio. Su questo giornale don Francesco avrà occasione per salutare, prossimamente, tutti i suoi tantissimi amici.
L’elenco è troppo lungo per farlo adesso. «Il mio affetto e la mia benedizione sono per i pazienti – conclude Don Francesco – che sono stati sempre la mia unica priorità. Li ringrazio io dei loro ringraziamenti e dei loro abbracci, perché lì dentro si dà e si riceve tantissimo. E poi i dipendenti, con cui c’è stata straordinaria collaborazione. Molte le persone speciali che mi hanno offerta amicizia sincera. Quando la notizia del mio allontanamento è trapelata qualcuno ha anche pianto. E non me lo aspettavo. Lacrime che mi hanno confermato che la loro stima non era solo di facciata. E poi la direzione sanitaria. Loro sono sempre in mezzo a carte e scartoffie, ma io ho detto sempre loro di non dimenticare mai che dietro ad ogni foglio, dietro ad ogni file, c’è sempre un essere umano».
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